12/02/2025
Di tutte e ventinove le esibizioni di ieri sera al Festival, più o meno belle, sentite, convincenti, ce n’è una che sfugge a ogni definizione e catalogazione.
Un artista senza targa e senza tempo che sul palco dell’Ariston ha portato solo sé stesso, la sua storia, le sue fragilità trasformate in forza creativa da un talento e una grazia fuori scala, fuori da ogni etichetta, ogni standard, ogni algoritmo del successo. Con errori annessi. Come quando, tra un pianoforte e una chitarra, si dimentica di cantare al microfono.
“Volevo essere un duro” è l’elogio dell’imperfezione, dell’accettazione, la rivincita della fragilità contro una società performativa che ci vuole tutti duri, forti, coraggiosi, “galline dalle uova d’oro”. E lo ha fatto senza perdere un grammo di quello stile con cui da oltre dieci anni è un panda nel panorama discografico italiano: fiabesco, allegorico, quasi infantile eppure, tra le righe di una metafora, di una profondità che spezza, perfora, toglie il fiato.
Chi, come me, ama Lucio Corsi dal ragazzo in altalena, sa quanto meritasse di salire su quel palco. Di presentarsi al mondo per quello che è davvero, senza inganni né finzioni dietro la maschera: un alieno in picchiata sull’Ariston, un po’ Bowie un po’ apina, che ci racconta che ce la puoi fare anche se “non sei nato con la faccia da duro”. O anche non farcela proprio, non importa. E, alla fine del brano, lo dichiara pure: Ehi, eccomi qui, “non sono altro che Lucio”. E va bene, va bene così.