02/09/2025
Dal fare all’essere: il passaggio trasformativo della mindfulness
Viviamo in una cultura che ci educa, fin da piccoli, alla modalità del fare. Fare bene, fare di più, fare in fretta. Il valore dell’agire è profondamente radicato nel nostro modo di vivere: siamo continuamente stimolati a risolvere problemi, raggiungere obiettivi, correggere ciò che non funziona. Spesso misuriamo il nostro valore personale sulla base di ciò che facciamo e di quanto riusciamo a produrre. In questo contesto, il fare diventa non solo un comportamento, ma una forma mentale costante.
Ma cosa accade quando portiamo questa stessa modalità anche nella sfera interiore? Quando ci avviciniamo alle nostre emozioni, ai pensieri, al dolore o alla fatica con l’intento di “aggiustarli”, “eliminarli” o “ottimizzarli”? È qui che la mindfulness ci invita a una svolta radicale: il passaggio dalla modalità del fare alla modalità dell’essere.
Secondo Jon Kabat-Zinn e altri studiosi di mindfulness, la mente umana può funzionare principalmente in due modi distinti:
Modalità del fare: È orientata al raggiungimento di uno scopo. La mente analizza la distanza tra la realtà attuale e lo stato desiderato, e cerca strategie per colmare quel divario. È efficiente, pragmatica, ma anche pericolosamente incline al giudizio e alla frustrazione quando non può controllare ciò che accade.
Modalità dell’essere: Non è finalizzata al cambiamento, ma all’accoglienza dell’esperienza così com’è. In questa modalità non c’è un obiettivo da raggiungere, né un problema da risolvere. C’è semplicemente presenza. Un’attenzione aperta e non giudicante a ciò che emerge nel momento presente: sensazioni, pensieri, emozioni, percezioni.
🧘♀️ La mindfulness è una porta d’accesso alla modalità dell’essere
La pratica della mindfulness ci insegna gradualmente a riconoscere quando siamo nella modalità del fare, e a coltivare intenzionalmente quella dell’essere. Sedersi in silenzio, portare attenzione al respiro o al corpo, osservare i propri pensieri senza identificarvisi... sono tutte pratiche che non “servono” a cambiare qualcosa. Non sono strumenti per “sentirsi meglio”, ma per stare meglio con ciò che c’è.
Paradossalmente, è proprio questo lasciar andare il controllo e l’urgenza del fare che permette un cambiamento profondo. Quando smettiamo di lottare contro ciò che proviamo, creiamo lo spazio per una comprensione più ampia, per una trasformazione naturale.
Gran parte della nostra sofferenza psicologica nasce dal fatto che siamo costantemente in modalità “fare”, anche quando non ce n’è bisogno. Pensiamo compulsivamente, analizziamo troppo, ci proiettiamo nel futuro o rimuginiamo sul passato. Non siamo mai davvero “qui”. Questo pilota automatico può essere utile in molte situazioni pratiche, ma è dannoso quando si tratta della nostra interiorità.
Quando proviamo tristezza, ansia, insicurezza, spesso cerchiamo subito una via d’uscita. Ma cosa accadrebbe se, invece, ci fermassimo e ascoltassimo? Se ci dessimo il permesso di essere presenti a ciò che sentiamo, anche se è scomodo?
La mindfulness ci offre gli strumenti per farlo.
La modalità dell’essere non esclude il fare. Non si tratta di abbandonare le responsabilità o rinunciare all’azione, ma di agire da uno spazio di maggiore consapevolezza. Quando siamo radicati nell’essere, le nostre azioni diventano più intenzionali, meno reattive, più in sintonia con ciò che è davvero importante.
Agire da uno spazio di presenza significa rispondere, non reagire. Significa scegliere, non farsi travolgere. Significa vivere, piuttosto che semplicemente funzionare.