
20/06/2025
“Volevo solo andare al mare…”
Lo ha detto con voce calma.
Dopo aver ucciso sua madre con un’ascia.
Non ha pianto.
Non ha tentato la fuga.
Non ha chiesto perdono.
Filippo ha 21 anni. Studia economia. Suona la chitarra. Viveva in una famiglia che, agli occhi di chi guardava da fuori, sembrava “normale”.
Eppure qualcosa dentro si è spento. Da tempo.
No, non esistono i raptus.
Esistono emozioni che non si sanno nominare.
Esiste una rabbia che si accumula, giorno dopo giorno, quando non si riesce a trovare uno spazio dove essere visti, ascoltati, compresi.
Esiste il bisogno disperato di affermare sé stessi, che può diventare esplosivo quando manca un linguaggio emotivo per esprimerlo.
Non si tratta di puntare il dito contro una madre, contro un padre o contro la famiglia.
Si tratta di chiederci come sia possibile arrivare al punto in cui un ragazzo crede che la distruzione dell’altro sia l’unico modo per esistere.
Una sgridata non basta a spiegare tutto questo.
Il vero interrogativo è cosa covasse sotto quella superficie silenziosa che nessuno, forse, ha davvero visto in tempo.
Non per colpa. Ma perché, spesso, il dolore si maschera bene. Anche in chi ci dorme accanto.
Non serve cercare colpevoli. Serve cercare segnali.
Serve educare all’ascolto.
Serve creare spazi dove sia possibile crollare prima di far crollare tutto.
Perché il male, prima di colpire, ha sempre chiesto aiuto.
Solo che non sempre lo abbiamo riconosciuto come tale.