Dott.ssa Silvia Scardigli Psicoterapeuta

Dott.ssa Silvia Scardigli Psicoterapeuta Medico Psicoterapeuta Relazionale
sedute individuali, di coppia e familiari
Studi su Livorno e Pisa

Medico abilitato dal 2012, ha svolto per anni attività clinica e di ricerca presso l'IRCCS Stella Maris di Pisa, ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione per la neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza, concentrandosi soprattutto nella sfera dei Disturbi del Comportamento Alimentare di bambino e adolescente, diagnosi e trattamento dei quadri depressivo ansiosi correlati, presa in carico e coinvolgimento familiare al processo di cura, e follow up successivo. Ha svolto tirocinio e ricerca presso lo stesso istituto approfondendo i temi di diagnosi, sostegno e cura dei Disturbi di nutrizione della Prima Infanzia. Continuando a operare anche come medico di emergenza territoriale su territorio e Pronto Soccorso, durante il primo anno di pandemia Covid si specializza presso l'Istituto di Psicoterapia Relazionale IPR di Pisa, divenendo terapeuta familiare. Master in Clinica dei Disturbi Alimentari in Comunità, in press. Effettua terapie individuali, di coppia e familiari, in base alle necessità del paziente.

22/09/2025
07/09/2025
28/08/2025

Salim Assi, artista palestinese

Strategie vincenti ⭐
28/05/2025

Strategie vincenti ⭐

Così come in stanza lavoriamo insieme per il cambiamento ❤️
25/04/2025

Così come in stanza lavoriamo insieme per il cambiamento ❤️

All’inizio credevo che resistere volesse dire restare fermo.
Non cedere. Stringere i denti. Tenere duro.
Sopportare.
Mi sembrava un valore, una virtù. Resistevo sempre, specialmente quando stavo male.
Irrimediabilmente condizionato da decine di eroi giapponesi vagamente greci mi sono convinto molto presto che le persone forti non si lamentano, le persone forti ce la fanno da sole. Magari si beccano una carrettata di legnate sulle scale di un tempio dorico, ma alla fine trionfano. E se non trionfano non rompono i co****ni.
Così st'idea ha fatto il nido: se tengo botta, se mi spremo dentro le ambizioni, se mi incastro nelle aspettative, se persisto, se continuo, se reggo nella forma che si aspettano da me, prima o poi le cose andranno al loro posto.
“Stai fermo, stai zitto, non far casini. Resisti”.
Quindi ho cominciato a stare fermo. Fermo nelle idee, fermo nei ruoli, fermo dentro relazioni aspettando che si presentasse l'amore o il reflusso gastrico.
Attorno al concetto di resistenza, ho tirato su una versione di me costruita per sopravvivere, non per vivere. Una pianta grassa, un'ombra controvento, un tizio convinto che subire e crescere fossero sinonimi.
Per anni ho difeso luoghi, persone, lavori, identità che non mi assomigliavano, che mi ammazzavano a rate. Continuavo a dire: “Io sono fatto così”. E intanto mi facevo a pezzi per starci dentro, mi tagliavo per non cambiare taglia. E quando sentivo che stavo per essere schiacciato, mi schiacciavo io. Preventivamente.
Poi ho avuto la fortuna di imparare cos'è la resistenza. Anzi, cos'è la Resistenza. La Resistenza non è stare fermi, non è incassare, subire, la Resistenza è agire, è prendere una posizione nuova, è disobbedire, anche a sé stessi.
Fare la Resistenza è il contrario di resistere, è lottare per cambiare, è non accontentarsi più di quello che c'è, di quello che si è. È dire un “no”, quando sarebbe più conveniente un “sì”.
La Resistenza, quella maiuscola, non è facile. Richiede di rischiare molto, certe volte tutto.
Di stracciare il copione, di far spazio per domande nuove, di abbandonare pezzi di sé e affrontare le parti più nere che ci abitano scoprendo come anche loro abbiano contribuito a definire tutto quello che sta sotto la spaventosa parola “noi”.
C'è chi proverà a convincervi che la Resistenza può essere indolore, insapore, che può o dovrebbe essere sobria. Cazzate, non si resiste con sobrietà, non si resiste in silenzio. Fare la Resistenza richiede fatica, coraggio, perché richiede di mettere in discussione tutto quanto. Fare la Resistenza è insorgere, è chiedere aiuto, è battersi attivamente contro tutto ciò che ti dice di restare immobile.
A tanti la Resistenza non piace, perché la Resistenza mette in discussione pure loro. E a nessuno piace essere messo in discussione. Veniamo educati alla più spietata coerenza, a essere ciò che siamo, fedeli a noi stessi, e abbandonare un modo di essere è quasi sempre visto come un tradimento.
Ma l'identità non è un contratto a tempo indeterminato. Il vero tradimento è restare fedeli a un’immagine che ci spegne. A un ruolo che ci consuma. A una definizione che ci riduce. Inchiodandoci a quello che siamo stati.
Fare la Resistenza è avere il coraggio di ribellarsi alla parte di noi che non ci rappresenta più. È capire che certe abitudini erano prigioni, che certi ambienti erano tossici, che certe relazioni erano dipendenza.
Che vivevamo sotto la dittatura di noi. E continuare a viverci era una resa quotidiana.
Allora basta arrendersi, basta resistere. Meglio cambiare, meglio combattere.
Meglio fare la Resistenza.

Ordine Psicologhe e Psicologi del Veneto

Illustrazione di Amandine Delclos

05/04/2025

“Sara Campanella era una studentessa universitaria, aveva 22 anni e frequentava il corso di laurea in tecniche di laboratorio biomedico.
Lo frequentava finché un suo compagno di corso, Stefano Argentino, di anni 27, l'ha accoltellata alla gola per strada a Messina. Il giorno prima che venisse uccisa Sara ha scritto alle sue amiche: “Il malato mi segue”.
L'accoltellamento è avvenuto a una fermata dell'autobus al centro della città. Sara Campanella è morta prima di arrivare al vicino policlinico universitario, lo stesso dove Sara Campanella faceva il tirocinio.

Anche Ilaria Sula era una studentessa universitaria e anche lei aveva 22 anni, frequentava il corso di laurea in Statistica alla Sapienza qui a Roma.
Lo scorso 25 marzo è scomparsa, almeno finché il suo corpo è stato trovato in una valigia in fondo a un dirupo nel comune di Poli, a 30 chilometri da Roma. L'ha uccisa il suo ex fidanzato, Mark Samson, 23 anni, anche lui studente, di Architettura. L'ha uccisa, l'ha messa dentro una valigia e l'ha lanciata da un dirupo.

Due femminicidi, gli ultimi. Da dove partiamo? Come sempre dai numeri. I numeri non prevedono opinione, ma dovrebbero prevedere l'acquisizione di una consapevolezza, dovrebbero chiederci di capire qual è il contesto sociale, culturale che produce i femminicidi e poi da lì dare risposte politiche, responsabilità.

“Differenza Donna”, l'associazione impegnata nella difesa dei diritti delle donne contro la violenza di genere, ci dà alcuni dati, per esempio i dati del 1522, - continuiamo a memorizzare questo numero, è il numero antiviolenza, il 1522. Dal 2020 i contatti del 1522 sono raddoppiati, erano 30 mila nel 2020, 60 mila nel 2024. A chiamare sono donne prevalentemente dai 35 ai 50 anni, donne all'interno di una relazione che subiscono violenze dai mariti, dai compagni, da persone con cui hanno scelto di fare dei figli.

Sono donne normali, con lavori normali, che hanno relazioni con uomini che noi definiamo normali, come gli assassini di Sara Campanella e Ilaria Sula. In 30 anni di attività “Differenza Donna” ha accolto 70 mila donne, 140mila bambine e bambini. Nel 2024, l'anno scorso, le donne di nazionalità italiana sono state 1.550, le migranti comunitarie 1.150, le migranti non comunitarie 400.

Ieri il Ministro Nordio ha detto che alcune etnie hanno una sensibilità diversa dalla nostra verso le donne e a guardare dai numeri viene da dire meno male. Dobbiamo guardare i dati certo, però in Italia non esiste una banca dati istituzionale pubblica completa sui femminicidi. I dati più importanti, significativi sono quelli dell'osservatorio “Non una di meno”: nel 2023 su 120 donne uccise, 96 sono state uccise in ambito affettivo, familiare. Nel 2024 su 115 donne uccise, 99 sono state uccise in ambito affettivo e familiare. In 50 casi l'assassino era il marito, il compagno, il convivente, in 14 il figlio, in 12 è stato l'ex compagno.

Le persone uccise conoscevano chi le ha uccise. Da dove nasce la violenza? La violenza nasce dal linguaggio, dalle parole, partiamo da lì, dal lessico sbagliato, fuorviante, incompleto, dannoso che usiamo per descrivere questo fenomeno, quello del “troppo amore”, del “delitto passionale”, “dell'impeto di rabbia”. La violenza di genere non si affronta come si dovrebbe perché le parole che usiamo per raccontarla riflettono la cultura del dominio dell'uomo sulla donna.

Dove cresce, nasce, dove germoglia la violenza? Nell'educazione, nelle parole che associamo ai fenomeni, perché le parole alimentano il nostro comportamento e il comportamento costruisce la cultura e fa le società. Il linguaggio ci consente di costruire la cultura, certo, ma anche di mascherarla di mistificarla, come le storie che parlano di donne che vengono assassinate, ma non di uomini che uccidono, sono le donne che vengono violentate, ma non gli uomini che violentano, sono tutte cornici queste, cornici che servono a reiterare l'idea che la violenza contro le donne sia rara, anormale, imprevedibile, la verità è che questi uomini fanno parte di una rete del linguaggio, di credenze e comportamenti normalizzati che continuano a perpetuare quella violenza e noi, i mezzi di informazione, abbiamo un ruolo potente e definitivo da svolgere nel plasmare la comprensione sulla violenza di genere: “Diceva che mi avrebbe tolto il bambino”, “voleva lasciarmi”, uccide la moglie malata, “è un gesto d'impeto”, “l'ha uccisa perché aveva l'Alzheimer”, “il marito era provato”. Oppure le foto che rappresentano queste donne e questi uomini, le donne abbracciate al loro assassino morte e condannate a vita nella loro memoria ad essere ricordate, abbracciate agli uomini che le hanno uccise. È così il racconto pubblico, le donne ammazzate perché “erano amate troppo”, perché questi uomini proprio non riuscivano a sopportare che le donne avessero deciso di chiudere una relazione, non accettavano la separazione. Uomini di cui i vicini o parenti intervistati sull'omicidio dicono sempre “non avrebbero mai avuto motivo di uccidere”, “erano proprio persone normali”. I “raptus”, i racconti romanzati dell'omicidio, la colpevolizzazione della vittima, come negli ultimi casi, gli ultimi due. “Due anni di stalking, ma lei non aveva mai denunciato”, così ha titolato ieri un quotidiano romano, insinuando il dubbio che forse certo se lei avesse denunciato chissà… E invece no, non è mai lei, è lui che è un assassino.
“Aveva sottovalutato il pericolo”, lei, la vittima. Lui “un ragazzo riservato e schivo, appassionato di moto”, e chi se ne frega se Stefano era appassionato di moto, Stefano era un assassino.

Quasi tutte le donne che conosco sono state molestate sessualmente a un certo punto della loro vita, se non insulti, commenti sessuali indesiderati da parte di colleghi, amici, parenti, e poi violenza fisica, violenza sessuale. Abbiamo combattuto la vergogna, l'esempio di famiglie che ci hanno cresciuto più o meno consapevolmente pensando che la libertà andasse se necessario sacrificata. Alle più fortunate di noi hanno insegnato a essere libere, le meno fortunate lo hanno imparato da sole, imparando a riconoscere gli stereotipi che hanno introiettato loro malgrado, a ucciderle l'archetipo in cui la cultura - la cultura e non la natura - avrebbe voluto ingabbiarle, quella in cui le donne stanno dove devono stare, in disparte, mentre gli uomini comandano.

Ora no, vogliamo una stanza tutta per noi, una stanza dove siamo libere, sappiamo dire no. Una stanza dove insegniamo alle nostre figlie a dire no e dove insegniamo ai nostri figli che quei no si rispettano, esercitiamo una libertà emotiva, sentimentale, fisica e sessuale, mentre ci vorrebbero ancora silenziose, ci vorrebbero ancora al nostro posto mentre loro comandano.
E invece no, stiamo scardinando il perimetro di una lingua che ci ha visto per anni ingabbiate a modello accudente, a una postura materna e votiva.
E invece no, il danno, il danno che ci hanno prodotto gli abusi che abbiamo supito è irriparabile, ma la lingua no, la lingua è irriparabile e sarà la nostra prima e ultima forma di giustizia.
Cominciamo a capovolgere il lessico per demolire la violenza contro le donne, come ha fatto Giselle Pelicot: non siamo noi che dobbiamo vergognarci, la vergogna deve cambiare lato perché ci vogliamo tutte vive.”

Francesca Mannocchi, Propaganda Live 4/4/2025

Un sentire potentissimo.
19/02/2025

Un sentire potentissimo.

12/11/2024

SAMVISE GAMGEE CI SPIEGA LA PSICOTERAPIA.
Lo so. E’ tutto sbagliato. Noi non dovremmo nemmeno essere qui… Ma ci siamo. E’ come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale… Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com'era dopo che erano successe tante cose brutte?
Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest'ombra… Anche l'oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché… Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso so. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l'hanno fatto… Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
C'è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo!

30/10/2024

Anna De Simone, Ana Maria Sepe, Il mondo con i tuoi occhi, Rizzoli. Link al libro https://amzn.to/3A7LwJJ

Restare.
20/10/2024

Restare.

Il difficile compito dei genitori in adolescenza... Quanto è faticoso resistere?

Indirizzo

Via Cesare Battisti 36
Livorno

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 20:00
Venerdì 09:00 - 20:00
Sabato 09:00 - 13:00

Telefono

+393517428148

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