
22/08/2025
Suggerisco con convinzione questa riflessione dei colleghi interazionisti, che trovo molto pertinente per illuminare questa epoca oscura caratterizzata da furore diagnostico, sia negli addetti ai lavori, sia negli aspiranti pazienti (in realtà impazienti di ricevere diagnosi), epoca che si traduce in una proliferazione abnorme e non realistica di diagnosi che vengono vendute a poco prezzo in ogni angolo del web e non solo, per poi essere ostentate come tatuaggi modaioli dagli entusiasti acquirenti, con buona pace di chi certi disturbi ce li ha davvero e non pensa proprio ad ostentarli come status symbol.
Nela letteratura scientifica questo fenomeno viene chiamato “overdiagnosis” ( sovradiagnosi) che poi va a braccetto con l’altra iattura post-moderna del “overtreatment” ( sovra-trattamento), e ha numeri quasi apocalittici.
Buona lettura
👤 "Chi sono?" È una delle domande più antiche e urgenti di tutti i tempi.
Ma oggi, nell’era del realismo capitalista, può trasformarsi in un paradosso: ci si definisce per difetto, attraverso sintomi e diagnosi, nel tentativo di trovare un posto, una comunità, un significato.
Nel vuoto di legami, di senso e di prospettive condivise, l’etichetta diagnostica può diventare una risposta accessibile, talvolta persino desiderabile: offre un linguaggio per raccontare il proprio dolore.
La diagnosi offre un ruolo riconoscibile, un’identità, in altre parole, una possibilità: finalmente posso esistere, perché qualcosa in me “non va”.
Ma cosa accade quando iniziamo a narrarci solo attraverso ciò che ci manca? E se la diagnosi fosse non un punto d’arrivo, ma un punto di partenza per riscrivere la propria storia?
📚 Ne scrive Chiara Maggiore su Scienze dell’Interazione nell’articolo: “Una domanda di identità nell’era del realismo capitalista: quando l’etichetta diagnostica permette di esistere.”
🎨 Un viaggio tra Caravaggio, TikTok, Fisher, Foucault e giovani vite in cerca di senso.
🔗 Leggi l’articolo completo su Scienze dell’Interazione 👉 https://lc.cx/POAQT3