22/06/2025
Voglio condividere con voi la lettera di questa sorella, una storia attuale e, purtroppo, di normale vita quotidiana di come si trasforma un lutto. Il dolore della perdita non svanisce, cambia e si trasforma in aqualcosa di più sopportabile.
Avevo 19 anni quando, per la prima volta, mi sono trovata faccia a faccia con la paura vera.
Mio fratello, che di anni ne aveva 24, un ragazzo solare, amato da tutti, sempre con una battuta pronta, sempre pronto a prendersi cura di me, si ammalò.
Un mal di testa. E poi un altro.
E poi cominciarono i capogiri, la nausea, la stanchezza.
Non volevamo vedere. Nessuno voleva vedere.
“Stress”, dicevamo. “Troppo lavoro”, si diceva.
Fino a quel giorno. Era un lunedì di marzo. Era svenuto davanti ai nostri occhi.
Portato d’urgenza in ospedale. La diagnosi arrivò come un macigno: tumore al cervello.
Maligno. Inoperabile.
Da quel momento la mia vita si fermò.
Non c’erano più le uscite con gli amici, non c’erano più i sogni per il futuro, non c’era più l’università.
C’eravamo solo io e lui.
Io, che passavo le notti accanto al suo letto d’ospedale, che gli leggevo i suoi libri preferiti, che gli raccontavo le partite della nostra squadra del cuore come se fosse lì allo stadio.
Lui mi diceva sempre:
“Quando starò meglio, ce ne andremo. Tu ed io. Un viaggio solo nostro. Promettimelo.”
E io lo promettevo. Ogni giorno.
Ma quel viaggio non l’abbiamo mai fatto.
Dopo otto mesi di lotta, di speranze spezzate, di ricadute, se n’è andato.
Nel silenzio di una notte di novembre.
Ho stretto la sua mano fino alla fine.
E quando l’ho lasciata, mi sono sentita vuota. Come se insieme a lui si fosse spento tutto.
Da allora sono passati anni.
Anni in cui ho cercato di mantenere quella promessa in un altro modo.
Ho viaggiato. Ho visto luoghi che avremmo dovuto vedere insieme.
Ho lasciato messaggi per lui ovunque: un biglietto tra le rocce di una scogliera, una conchiglia su una spiaggia deserta, un sassolino ai piedi di una grande quercia.
Ma la verità è che non sono mai riuscita davvero a lasciarlo andare.
La sua voce mi accompagna, nei momenti di gioia e in quelli di sconforto.
Mi chiedo ancora come sarebbe stata la nostra vita se fosse guarito, se fossimo partiti, se quella promessa l’avessimo potuta realizzare insieme.
Oggi ho 33 anni.
Ho un lavoro, degli amici, una casa mia.
Ma quel viaggio… quel viaggio lo sto ancora facendo. Un passo alla volta. Un pezzo alla volta.
Perché il dolore non se ne va. Si trasforma, cambia forma.
Ma resta.
Resta come un tatuaggio invisibile sull’anima.
E ogni volta che guardo il cielo, ogni volta che il vento mi sfiora il viso, spero che da qualche parte lui senta che non l’ho dimenticato.
Che sto mantenendo la mia promessa.
A modo mio.