Erika Colombo, psicologa della terza età

Erika Colombo, psicologa della terza età Informazioni di contatto, mappa e indicazioni stradali, modulo di contatto, orari di apertura, servizi, valutazioni, foto, video e annunci di Erika Colombo, psicologa della terza età, Psicologo, Lodi.

OLTRE LA DEMENZAA lei ho già dedicato più di un post. Mi è entrata nel cuore.È stato facile volerle bene. È una di quell...
01/02/2025

OLTRE LA DEMENZA

A lei ho già dedicato più di un post. Mi è entrata nel cuore.

È stato facile volerle bene. È una di quelle persone genuine, di quelle che lasciano il segno quando le incontri.

La demenza, di per sé, abbatte le difese. È uno dei motivi per cui amo trascorrere del tempo con le persone che hanno questa malattia.

Non devo difendermi. Con loro, posso stare serena.

Ma lei deve essere sempre stata così.
La sua spontaneità è disarmante. Non è solo divertente; è spudoratamente sincera, ma mai offensiva.
È tanto delicata con chi è pulito come lei quanto spietata con chi è ambiguo ed equivoco.
Parte della sua intelligenza emotiva non si è mai deteriorata.
La sua empatia e il suo animo sensibile si sono anzi affinati con la malattia.
La figlia l'ha sempre descritta come una donna perspicace, con un intuito impeccabile persino nelle situazioni più complesse.

Deve essere per questo che le sue riflessioni sulla vita, che con amore si sincera di trasmettermi, sono tra le più interessanti e veritiere che abbia mai ascoltato.
Corrispondono alla mia visione della vita e, per ogni sua osservazione, ribatto spesso con un mio pensiero che la completa.

I nostri incontri si intridono di una profondità che mi lascia con la sensazione di aver nutrito la mia anima.

Ne esco arricchita, ogni volta.

Molti tendono a non considerare le persone come lei, perché pensano che la demenza le renda dei vecchi rimbecilliti che dicono cose senza senso.

Vorrei tanto che questi soggetti conoscessero lei.

Ma credo che la maggior parte non si ricrederebbe comunque, perché per fare questo bisogna essere capaci di vedere, oltre che sentire.

La profondità non è degli stagni, ma degli oceani e dei mari o, tutt'al più, dei laghi. Ma degli stagni, proprio no.

Peccato, perché non sanno che si perdono.

L'ultima volta che sono andata da lei, mentre tornava dal bagno accompagnata dalla badante, la sento chiedere a quest'ultima se il marito, che non ricorda che è morto, fosse tornato.

La badante sa che deve risponderle che è ancora in giro.

E lo fa anche stavolta. E lei, cercando di smorzare la sua rabbia, in tono canzonatorio risponde: "Questo disgraziato, ancora in giro sta?" e poco dopo aggiunge: "Per caso gli hai lasciato qualcosina da mangiare? Così almeno quando torna mangia anche lui".

È da questo episodio che è nato questo post.

Le sue parole mi hanno commossa.

C'era tanto di quell'amore in quell'espressione.

Amore nonostante la rabbia verso un marito che sente di non vedere da molto. Ma quando ci si arrabbia mica si smette di amare.

Mi sono venuti, a cascata, una serie di pensieri.

Io amo le persone della sua età principalmente per i loro valori, che non si riscontrano più così frequentemente nelle generazioni che seguono.
Come saranno le persone di cui mi prenderò cura tra una decina o una ventina d'anni? Riuscirò ad apprezzarle allo stesso modo?

Ho come l'impressione che gli ottantenni e i novantenni di oggi siano gli ultimi portatori di quei valori immensi che si stanno perdendo sempre più in questa misera e frivola società.

Probabilmente mi sbaglio e spero vivamente che sia così.

Sono certa, però, che chi pensa che una persona anziana, con o senza demenza, sia un vecchio rimbambito, si perda qualcosa di preziosissimo.

Ritorno al vecchio proverbio africano già menzionato in un altro post che dice che un anziano che muore è come una biblioteca che brucia.

Per me non è solo una biblioteca, è qualcosa di più simile a un tempio. Se ne va qualcosa di sacro oltre che saggio.

Quanto sono fortunata a fare questo lavoro.
Sono a contatto con persone portatrici di valori inestimabili, come l'amore, la famiglia, il rispetto, la semplicità, il sacrificio, la fiducia, l'altruismo, la gentilezza, la serietà, l'onestà, la forza d'animo, il coraggio, la generosità, la presenza, la spiritualità.

Sono quelli che ancora prediligono la bellezza interiore a quella esteriore.

Chi, come me, lavora con questo genere di persone, ha tra le mani qualcosa di estremamente prezioso e, il più delle volte, non se ne rende nemmeno conto.

Perché in questa società, l'anziano non conta nulla.

E, purtroppo, in molti ambienti di cura, aleggia una tanto sottile quanto perversa educazione all'ageismo che contagia chi vi opera all'interno.
L'anziano viene considerato alla stregua di un bambino, ma solo per quegli aspetti che vengono censurati anche nel bambino stesso: è capriccioso; è disobbediente; è testardo; si oppone; ha dei bisogni.

Mi piacerebbe tanto che questi ambienti conoscessero la bellezza che vedo io.

Quanto vorrei che venissero costruiti templi in cui chi vi dimora negli ultimi giorni della propria vita non venga trattato solo con rispetto, ma venerato per quello che offre con la sua preziosa presenza.

Peccato che non sia così, perché non sappiamo davvero cosa ci stiamo perdendo.

IL SENSO DELLA CURAL’altro giorno, in classe, mentre stavo spiegando il burnout, un futuro ASA mi chiese: “Qual è il mod...
25/01/2025

IL SENSO DELLA CURA

L’altro giorno, in classe, mentre stavo spiegando il burnout, un futuro ASA mi chiese: “Qual è il modo migliore per prevenirlo?”. Senza esitazione, mi uscì: “Trovando, ogni giorno, il significato in quello che fai”.

Ma andiamo per ordine. Il burnout è una sorta di esaurimento psico-fisico che nasce sul luogo di lavoro. I professionisti della cura sono a rischio di sviluppare questa condizione perché sono a contatto non solo con le emozioni altrui ma, soprattutto in determinati contesti, anche con la loro sofferenza. E le emozioni, di cui il dolore è quella più temuta, sono “contagiose”. Per questo motivo, spesso, chi non vuole lasciarsi “contaminare” tenta di rifuggire dalla relazione con la persona sofferente. Come se il distacco proteggesse il professionista dalla propria angoscia, che verrebbe attivata dall’altro, come in uno specchio riflesso.

In realtà non funziona proprio così. Non basta evitare attivamente di legarsi a qualcuno per non farne propria la sua sofferenza. Non siamo computer, ma esseri umani. Le emozioni che non ascoltiamo, risuonano comunque in noi. Non è sufficiente tapparsi le orecchie.

Il compito di cura non è facile, perché implica accantonare i propri bisogni e focalizzarsi su quelli dell’altro. Lo sanno bene le neomamme che, al momento della nascita del loro bambino, lo pongono al centro del loro mondo, trascurando tutto il resto, spinte da un amore viscerale.

Un professionista della cura dovrebbe avere la stessa motivazione di una mamma e, perlomeno durante il suo turno di lavoro, dovrebbe essere capace di mettere in secondo piano i propri desideri e le proprie emozioni per sintonizzarsi su quelle delle persone di cui si prende cura.

Non è facile, ma fa la differenza. Non solo per chi viene curato, ma anche per chi cura.

Tante volte mi sono interrogata sul senso della vita. Perché, proprio io, sono su questa terra? Qual è il significato della mia esistenza? Perché mi sono accadute determinate cose e non altre e che ruolo hanno avuto nella mia evoluzione come persona? Quand’ero ragazza, c’è stato un lungo periodo in cui ho perso la bussola dei miei valori. Vagavo, vivevo, spesso drammaticamente, senza una meta. Mi sono completamente persa e in varie occasioni mi sono buttata via; mi sentivo una piccola stella senza cielo. Ma è stato soprattutto nei momenti difficili che ho nutrito una grande fiducia nella vita, come se ci fosse qualcosa di grande, di molto più grande di me, qualcosa di incontrollabile che mi ha portato inizialmente a scorgere una direzione e, piano piano, a tracciare un percorso che, in seguito, mi si è delineato davanti agli occhi come un vero e proprio cammino da seguire.

Quando mi sono ritrovata, non ho compreso il senso della vita perché, forse, nessun essere umano potrà mai essere tanto presuntuoso da dire di averlo compreso davvero, ma ho capito una cosa: che la vita acquisisce un senso quando puoi aiutare gli altri a migliorare la loro.

La poetessa Emily Dickinson ha scritto: “Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano; se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido, non avrò vissuto invano”. Più o meno è la conclusione cui sono giunta anch’io.

Prendersi cura amorevolmente di qualcun altro migliora la vita anche di chi cura.

Ci sono situazioni in cui tutto questo non è immediatamente chiaro. Ad esempio, quando il compito di cura spetta non a un professionista ma a un familiare. In questo caso, la situazione si fa più complessa, perché entrano in gioco dinamiche familiari difficili da gestire. Magari è una figlia che deve prendersi cura della propria madre con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale. O una moglie che ha sempre perdonato gli sbagli del marito e ora le tocca “perdonargli” anche la malattia. Ogni famiglia, per sua natura, è complessa e non esiste la famiglia del Mulino Bianco. Anche nelle famiglie più amorevoli, se si va a scavare, si trova qualche scheletro. E non è mai facile affrontare gli scheletri, soprattutto quando il dolore della perdita travolge.

La demenza è una malattia che comporta più dolore per i familiari che per chi ne è affetto. Chi è malato arriva a non comprendere di esserlo, mentre il familiare non smette mai di confrontarsi, giorno dopo giorno, con un lutto ambiguo (la persona non è fisicamente morta, ma non è più la stessa di prima) e delegittimato (il familiare vive un vero e proprio lutto, ma la società non gli dà il diritto di viverlo come tale). La società non fornisce gli strumenti adeguati a prendersi cura di chi ha questa malattia. E, spesso, il familiare si ritrova solo. Inserire in casa delle figure che aiutino, richiede ingenti disponibilità economiche che non tutti hanno. E, così, ci si ritrova ventiquattr’ore su ventiquattro a prendersi cura del proprio caro, senza alcuna pausa.

Tutto questo esaurisce. E, spesso, non c’è soluzione. L’unica soluzione possibile diventa allora quella di posare gli occhiali con le lenti scure che si sono create a furia di vivere in questo dramma e indossarne un altro paio che permetta di scorgere il significato in quello che si fa.

Solo questo significato può salvare. Non è mai vita sprecata quella che si trascorre aiutando qualcuno.

Viviamo in una società improntata all’individualismo, dove ognuno pensa unicamente a sé stesso e dove il confine con l’arrivismo, in ogni ambito, si sta facendo sempre più sfumato. Ma, fino a poco tempo fa, si viveva secondo valori collettivisti. Fino a qualche tempo fa, prendersi cura degli altri, soprattutto della propria famiglia, era considerato normale e una vita improntata al sacrificio era la regola, non l’eccezione. Le cose sono cambiate e, vivendo in un determinato contesto, ne subiamo inevitabilmente l’influenza, e non per questo dobbiamo considerarci dei mostri o sentirci in colpa se abbiamo bisogno dei nostri spazi: al contrario, trovare momenti in cui poter respirare è una necessità fisiologica per affrontare la complessità di questa vita.

Allora cosa si fa quando non ce la si fa più?

Riporto un concetto che avevo già scritto in un altro post: non possiamo scegliere cosa ci accade nella vita, ma possiamo scegliere come reagirvi. A volte, basta solo spostarsi e osservare da un’altra angolatura. Proviamo a interrogarci con alcune domande.

Se non mi fosse accaduto questo, sarei stata una persona migliore o peggiore? Quali parti di me ho conosciuto grazie a questa esperienza?

Cosa penso che la vita mi stia chiedendo di fare o di essere? Siamo sicuri che la stia ascoltando veramente?

Come posso utilizzare quello che mi è successo per rendere il mondo un posto migliore?

Qual è il senso della mia vita?

Era da molto che non scrivevo, ma già da un po’ avevo in mente queste parole e, negli ultimi giorni, la vita premeva perché dessi forma ai miei pensieri. Chiudo il cerchio oggi con la frase che ho trovato nel Calendario Filosofico: “Nessuno è inutile in questo mondo se alleggerisce i fardelli di qualcun altro”.

11/05/2024

IL MANIPOLATORE NARCISISTA

Solitamente, scrivo di condizioni che riguardano la terza età, ma questo post non ha età. Potrebbe riguardare ventenni, così come quarantenni o sessantenni, o età intermedie. Diciamo però che, più un manipolatore narcisista, che a breve descriverò, è avanti con l'età, più diviene abile nel mietere vittime perché, per logiche ragioni puramente temporali, nel corso della propria vita, ha goduto di maggior tempo e, purtroppo, vittime per affinare le proprie tecniche.

È molto difficile da comprendere, ma esistono persone che non hanno un'anima. Proprio così. Non esistono molti altri termini per definire quello che è il manipolatore narcisista. È una persona senza cuore, totalmente incapace di provare alcuna forma di empatia verso il prossimo. È un soggetto capace di una crudeltà inaudita che una qualsiasi persona "normale" non è capace nemmeno di concepire. Sottolineo il termine "normale", perché il soggetto narcisista non lo è. È una persona profondamente disturbata e deviata, di cui diventa difficile comprenderne i pensieri e i comportamenti, perché filtrano attraverso una mente distorta, lontana dalla realtà che vive la maggior parte delle persone.

Il soggetto affetto da un disturbo narcisistico della personalità, considerato a tutti gli effetti un disturbo psichiatrico, è un "normoide", come definito dallo psicanalista Cristopher Bollas, ovvero una persona che, all'apparenza, sembra umano ma, di fatto, non lo è. Non lo è perché non possiede quelle caratteristiche propriamente umane come la sensibilità e l'empatia e, non essendo in grado di provare sensi di colpa, è capace di una ferocia e di una crudeltà di cui non prova alcun rimorso. L'empatia si sviluppa molto precocemente ed è possibile vedere già in tenera età bambini che, di fronte alla sofferenza di coetanei, intervengono per lenirla. Persino gli animali nutrono sentimenti di compassione verso i propri simili. Ma i cosiddetti normoidi con un disturbo narcisistico di personalità non sono in grado di provare la benché minima forma di considerazione e di rispetto per il dolore altrui; anzi, piuttosto, godono e traggono piacere proprio dalla sofferenza dell'altro, si nutrono della disfatta e della distruzione della persona di cui pensano di detenere il potere, perché hanno un Io e un'autostima talmente fragile da pensare di valere qualcosa soltanto quando riescono a distruggere qualcun altro che, nella loro segreta intimità, vale più di loro, anche se non lo ammetteranno mai a loro stessi. Quello che, infatti, provano è un'ambivalenza verso l'oggetto che decidono di depauperare. Perché, parliamoci chiaro, le persone con questo disturbo non vedono altro che oggetti di fronte a loro, non persone, ma unicamente strumenti per raggiungere i loro loschi obiettivi. La loro ambivalenza è dettata, da un lato, da una profonda invidia verso la persona che vogliono controllare che, per questo stesso motivo, decidono di voler distruggere e, dal lato opposto, da un'immagine idealizzata che hanno di loro stessi, che li porta a sentirsi superiori a chiunque altro, ma unicamente nella loro fantasia, per sostenere un Io talmente fragile che, se vedesse la reale pochezza di cui è portatore, sarebbe pervaso dalla vergogna, emozione cardine profondamente temuta dal manipolatore.
La maggior parte dei femminicidi viene commessa da narcisisti manipolatori che, anche di fronte all'evidenza e alla sussistenza dei fatti, nega. Questi esseri arrivano a negare persino a loro stessi perché, a causa dell'immagine idealizzata e non veritiera di sé, non potrebbero mai assumersi la responsabilità di ciò che hanno fatto, perché proverebbero quell'emozione tanto paventata: la vergogna. Sono talmente piccoli, talmente deboli, meschini e vili, che non si assumono alcuna responsabilità. Nemmeno per ciò che fanno.
Ecco ciò che sono: persone profondamente immature, che scappano di fronte alle responsabilità, dalle più piccole alle più grandi. Per questo motivo, sono spesso anche dei bugiardi patologici.
Se solo le persone che incappano in questi esseri li vedessero immediatamente per quello che realmente sono, scapperebbero a gambe levate. Il problema è che questi normoidi si presentano sfoderando le loro finte migliori qualità, plasmate sulle fragilità e i bisogni della vittima, che quando poi cade nella rete viene raggirata attraverso alcune forme subdole di manipolazione da loro ampiamente utilizzate come, ad esempio, il gaslighting, che la porta a dubitare delle sue stesse capacità.
E non solo. Creano, nelle vittime, delle vere e proprie forme di dipendenza simili a quelle indotte da sostanze stupefacenti poiché, con il loro esserci "a intermittenza", liberano nel cervello del malcapitato sostanze del benessere quali dopamina, ossitocina, serotonina, ecc., da cui diventa difficile disintossicarsi per l'effetto da astinenza che provocano. Creano, infatti, una vera e propria dipendenza affettiva, che è una forma di dipendenza comportamentale, al pari di quella da gioco d'azzardo.
Per questo, diventa molto difficile uscire dalla ragnatela di un manipolatore narcisista. Quello che fanno questi normoidi è attirare nella loro tela le vittime, che sono sempre numerose, perché il narcisista ha bisogno di molte persone che sostengano il suo fragile ego. Non ne basta una. Hanno bisogno di nutrirsi della distruzione di più persone, per poter sostenere un'autostima fasulla che non troverà mai appagamento nella realizzazione di loro stessi. Loro si realizzano unicamente godendo delle pene che infliggono agli altri.

Per quanto ci si possa illudere, questi esseri sono totalmente incapaci di amare e non riescono a mantenere un rapporto che preveda una qualsiasi forma di reciprocità. Tutti i sentimenti che possono mostrare di disperazione, dolore e sofferenza nei confronti di un altro essere umano sono fasulli. Non sono in grado di provare emozioni genuine e autentiche per qualcuno che non sia loro. Narciso è innamorato unicamente di sé stesso. Tutte le emozioni che ostentano, rabbia compresa, sono unicamente finalizzate a manipolare l'altro. La maggior parte di ciò che raccontano è frutto della loro immaginazione e viene abilmente utilizzata per raggiungere lo scopo della loro miserabile vita: l'annientamento altrui. Sono in grado solo di controllare l'altro, e per farlo, soprattutto all'inizio, arrivano a indossare qualsiasi maschera, anche quella dell'empatico, del sensibile, dell'amorevole e di qualsiasi altra caratteristica che potrebbe far breccia nel cuore del malcapitato a cui, il narcisista, decide di voler togliere tutto. Ma sono solo maschere. Dietro la maschera, c'è un mostro piccolo, egoista e meschino e non una persona degna di questo termine.

La preda del narcisista manipolatore è, spesso, una persona empatica, con determinate caratteristiche di personalità e, non di rado, ha subito degli abusi o avuto importanti traumi nel passato che hanno contribuito a renderla così sensibile. In questo modo, il manipolatore riesce a insinuarsi più facilmente nella sua vita, agganciandosi alle sue fragilità. Avete presente la serie "Baby Reindeer" su Netflix di cui si parla tanto in questi giorni? Quella che poi si rivelerà una stalker con tratti narcisistici aggancia il protagonista, che a sua volta è già stato abusato da un altro narcisista, a partire dalla gentilezza mostrata da quest'ultimo. Purtroppo, parte tutto da un atto di gentilezza che è stato abilmente sfruttato da un normoide, ovvero da un essere profondamente disturbato che vive come un parassita emotivo. Questo sono i manipolatori narcisisti: parassiti emotivi. Si nutrono della distruzione degli altri e godono finché non vedono la loro preda morire emotivamente. Quando questo non é sufficiente, vogliono arrivare a vederla morta anche fisicamente.

É un disturbo che non risparmia alcun ceto sociale, dal più basso al più alto. Non riguarda solo il tipico soggetto violento fisicamente, che si può trovare in determinati contesti sociali, perlopiù degradati. No. Certi normoidi sono insospettabili e, all'apparenza, sembrano normalissimi, alcuni fin troppo.
È davvero facile cadere nella ragnatela di un manipolatore, perché ciascuno di noi ha talloni d'Achille e questi esseri sono abilissimi nello scovarli e nello sfruttarli. Traggono un piacere perverso nell'assaporare il dolore che sgorga da quelle ferite che, con fatica, erano state rimarginate e che loro, con una crudeltà disarmante, riaprono.

Una volta che ci finisci dentro, è difficilissimo uscirne, sia per la dipendenza che creano, sia per tutti i meccanismi perversi che instillano nella mente del manipolato.
Ma è possibile venirne fuori. E anche molto più forti di prima, a dispetto di questi vampiri emotivi che, precedentemente, si nutrivano della devastazione che avevano creato in voi.

Se avete il sospetto di avere a che fare con un narcisista manipolatore, dovete liberarvene. Come dice la psicologa criminologa Roberta Bruzzone, non esiste cura per i narcisisti. Il manipolatore narcisista non cambia. Morirà così. Nella sua pochezza. E, se rimanete in una relazione con lui, sarete voi a morire prima, almeno emotivamente, e questo è certo. É una battaglia persa in partenza. Per questo, bisogna ritirarsi.
Se queste parole risuonano in voi qualcosa, documentatevi innanzitutto guardando i video della dott.ssa Bruzzone su Youtube, che si occupa da anni di narcisisti maligni. Anche il suo libro, che si intitola: "Io non ci sto più: consigli pratici per riconoscere un manipolatore affettivo e liberarsene" contiene numerosi spunti che possono aiutare a comprendere se si ha a che fare con questi normoidi ed eventualmente come uscire dalla loro trappola.

Albert Camus diceva: "Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non saper amare".
Penso davvero che non esista tragedia peggiore del non saper amare. Se sei stata una vittima, puoi ricostruirti e continuare a vivere di nobili valori, ma quando sei un manipolatore narcisista, sei condannato all'infelicitá, un'infelicitá ancora più miserabile di quella che viene arrecata alle vittime. E i narcisisti, nella loro profondità oscura, lo sanno bene, che moriranno colmi di invidia, di rancore e di altri ignobili sentimenti, nella loro solitudine esistenziale.

01/04/2024

E SE FOSSIMO NOI GLI OPERATORI SANITARI?

Dopo aver scritto un post "da paziente", oggi ne scrivo uno "da professionista sanitario".

Non è facile prendersi cura di qualcuno, soprattutto quando questo qualcuno soffre. Esiste un termine, "compassion fatigue", che descrive la fatica emotiva che comporta una professione come quella di un operatore sanitario, sia esso oss, infermiere, medico, psicologo, ecc.

Queste figure professionali, spesso, si scontrano quotidianamente con la sofferenza, fisica o emotiva, con la morte, e con tutti i sentimenti di dolore che si associano.

Non a caso, sono le professioni a maggior rischio di burnout, una malattia professionale che comporta un esaurimento psico-emotivo e fisico, che deriva dal contatto con le persone e con le loro emozioni. Per intenderci, chi lavora come operaio in fabbrica, è a scarso rischio di burnout, ma chi lavora come commesso in un negozio è già a rischio, perché ha a che fare con i clienti.
Quando i clienti diventano pazienti che soffrono, il carico viene ulteriormente gravato e il rischio di andare in burnout diviene maggiore.

Siamo tutti animali sociali. Nessuno desidera rimanere solo. Tutti ricerchiamo il contatto con gli altri e la sofferenza di un altro essere umano non è indifferente a nessuno, tranne che agli psicopatici (in realtà neanche a loro è indifferente, ma nel senso che ne traggono piacere). Di conseguenza, quando si è immersi quotidianamente in una realtà in cui diverse persone soffrono, il carico emotivo, per alcuni, si accumula e diventa insostenibile.

Il carico si accumula soprattutto per quegli operatori che non avevano preventivato i costi emotivi che la loro professione avrebbe comportato. O per quelli che ogni giorno non ricercano il senso in quello che svolgono. O per quelli che non vivono il loro lavoro come una sorta di missione, come un'opportunità per dare qualcosa che sentono di essere in grado di dare. Ma il carico pesa ancor di più per quegli operatori che si distaccano emotivamente dai propri pazienti, quelli che non si impegnano per instaurare una relazione, credendo, in questo modo, di non ve**re "contagiati" da quegli aspetti di sofferenza e dolore. Come ho detto prima, la sofferenza di un altro richiama le nostre capacità di andargli in soccorso in modo da poter essergli di aiuto perché siamo, appunto, animali sociali, e ignorare le grida d'aiuto non equivale a non sentirle.
Quindi, ne viene contagiato, ma non le elabora perché crede di non esserne stato attaccato.
Quindi, continuano ad accumularsi al di fuori della consapevolezza.
Quindi, il carico diventa gravoso, molto gravoso.

Quando faccio formazione agli asa/oss, parlo di contatto con la sofferenza e la morte dal primo giorno. E, nel corso delle lezioni, faccio fare degli esercizi che inducono a riflettervi. Perché il modo in cui l'operatore sanitario gestisce la paura della morte e i propri lutti è cruciale. Spesso, l'operatore non è formato su questo e non sa che entrando in un ambiente come un ospedale, una rsa o un centro diurno, vedrà pazienti che diverranno il suo specchio: se si ostina a negare la sua angoscia di morte, la risposta sarà un allontanamento dai suoi pazienti, perché gli rimandano quegli aspetti che tanto vorrebbe tenere nascosti a sé stesso.
Non a caso, sento dire da molti che lavorano in rsa questa riflessione sui loro pazienti: "Spero di non arrivare alla loro età cosí". Dietro questa affermazione si intravede il riflesso del loro terrore di un declino psico-fisico. Abbiamo tutti questa paura, è nella nostra natura. Ma dobbiamo riflettervi, e non rifuggirvi, perché ciò che allontaniamo dalla consapevolezza non smette di esistere ma, come abbiamo visto, si manifesta in comportamenti disfunzionali come un allontanamento dal paziente e la sensazione illusoria di essere, così, invulnerabili.

Quando chiedo ai futuri asa o oss, durante la prima lezione, la motivazione che li ha spinti a iscriversi a quel corso, sottolineo sempre che chi non possiede una forte motivazione avrà un grande rischio di andare in burnout.
Bisogna essere pronti per entrare in contatto con la sofferenza. Bisogna essere abbastanza solidi e con dei confini piuttosto saldi per poter gestire il dolore, altrimenti si rischia che il male dell'altro diventi nostro, anche quando ce ne distacchiamo illudendoci che non sia così. Bisogna saper gestire le proprie emozioni, perché le emozioni negative, in quegli ambienti, sono molto maggiori di quelle positive, e se non si è in contatto con le proprie emozioni, si farà molta fatica.

Ma distaccarsi é un forte indice di una grande fragilità.

Ed è così che vorrei che il paziente, che operatore sanitario non è, vedesse questo aspetto, l'altro lato della medaglia.
Così come è corretto, eticamente e professionalmente, che l'operatore debba essere empatico, gentile e umano, anche il paziente dovrebbe vedere che, oltre il camice o la divisa, c'è la persona. C'è la persona con le sue fragilità, con la sua condizione di essere umano, con i suoi limiti, con le sue emozioni.

Ho sentito raccontare da medici e da infermieri scene terribili in pronto soccorso da parte di pazienti arroganti che, in quel momento, avranno detto quello che hanno detto perché in preda all'ansia e al dolore, ma vale il concetto che ho esplicato nel post precedente: non possiamo pretendere gentilezza e umanità se non siamo i primi a elargirla.

Se vogliamo rendere il mondo un posto migliore, dobbiamo iniziare noi a porgere l'altra guancia. E non è una questione religiosa, ma di buon senso.

E qui lo ripeto: perché la gentilezza appaga prima di tutto chi la mette in atto.

30/03/2024

E SE FOSSIMO NOI I PAZIENTI?

"L'errore più grande nel trattamento delle malattie è che esistono medici per il corpo e medici per l'anima, quando invece le due cose non possono essere separate".

Parto da questa massima di Platone per introdurre il concetto di quanto sia curativa la relazione tra operatore sanitario e paziente.

L'ho sottolineato più volte nei miei post: è fondamentale che chi cura si "prenda cura" e non "curi" e basta, ovvero si dedichi anche a quegli aspetti relazionali che spesso vengono trascurati, come se occuparsi di qualcuno potesse prescindere dal considerarlo una persona. Già, perché quando non si riesce ad "agganciare", dal punto di vista relazionale, un paziente che, in quanto tale, si trova in una posizione di fragilità, é come se non lo si considerasse come una persona.

Mi viene in mente quando venni ricoverata in pediatria con mio figlio, in cui venivo chiamata "mamma" da tutte le oss, oppure quando, arrivata in ospedale per fare un raschiamento in seguito a un ab**to spontaneo, sentii l'infermiera dire a una collega: "É arrivato l'ab**to". Ecco, dietro questi appellativi, io ci vedo una mancata considerazione della persona in quanto tale. È come se venisse de-personalizzata, privata del suo essere un essere umano e ridotta a un problema da risolvere.

Capisco che ci siano dei tempi da rispettare, delle situazioni pratiche a cui dare la priorità e, spesso, un clima che non facilita sentimenti di amore verso il prossimo ma, dietro a questi atteggiamenti, non vedo altro che delle posizioni rigide e difensive proprie di chi cura, che non riesce a svolgere il proprio lavoro come dovrebbe, perché chi cura ha che fare con persone, non con oggetti. E, chi ne ha gli strumenti, se vuole, il tempo per instaurare una relazione lo trova. La gentilezza, il rispetto, l'umanità e l'umiltà non si imparano dai libri. È per questo che sottolineo "chi ne ha gli strumenti". Chi non li ha, dovrebbe cambiare lavoro o lavorare a lungo su sé stesso.

Una buona relazione è capace persino di ridurre il dolore fisico. Questo implica meno giorni di degenza dopo un intervento chirurgico. Se si investisse su questo, se si lavorasse sulle capacità relazionali (e motivazionali) di ciascun operatore sanitario, ci sarebbe un gran risparmio di denaro a lungo termine, in posti come gli ospedali.

Se fossimo noi i pazienti, come vorremmo essere trattati?

Per chi è un operatore sanitario, ipotizziamo di ve**re ricoverati in ospedale per un qualsiasi motivo o immaginiamo di ritrovarci non autosufficienti e di dover entrare in una rsa: saremmo felici di avere un oss/infermiere/psicologo/medico/fisioterapista come noi?

Sará che credo nel karma e sono molto attenta agli aspetti relazionali, non solo nella mia professione ma anche al supermercato e in qualsiasi altro posto, ma posso dire di avere incontrato angeli nel mio cammino, nel momento in cui mi sono ritrovata a essere una paziente.

L'ultimo è stato un chirurgo attentamente ricercato, che ho scelto subito per le sue competenze relazionali. Il chirurgo da cui ero andata precedentemente mi aveva dato l'idea di essere molto competente, ma non mi aveva agganciato dal punto di vista relazionale e, ascoltando il mio intuito, ho deciso di fare un'altra visita da questo medico bravissimo sotto ogni aspetto, di cui mi hanno colpito soprattutto le capacità empatiche e da cui ho deciso, d'impatto e senza ombra di dubbio, di farmi operare tre giorni fa.
Ma, se ripenso ai miei precedenti interventi, non sono molto diversi e ho sempre avuto la fortuna di incontrare medici meravigliosi che non erano solo competenti, ma soprattutto umani. Perle rare che ho avuto l'immensa fortuna di incontrare e che mi rimarranno sempre impresse nel cuore e di cui continuo a parlare quando faccio formazione.
Ho incontrato anche oss e infermieri che non curavano affatto l'aspetto relazionale, ma che sono passati in secondo piano perché, almeno una presenza amorevole, nella stessa giornata, ho sempre avuto la gioia di incontrarla ed è sempre stata in grado di cancellare tutto il resto.

Un gesto gentile ne annulla dieci sgarbati.

Chiunque curi qualcun altro deve sapere, saper fare e saper essere. Non esiste graduatoria di questi tre fattori, ciascuno di questi é imprescindibile e non meno importante degli altri.

Quando dico che credo nel karma, non intendo qualcosa che ha a che fare con la magia; credo che siamo tutti qui, su questa terra, per imparare molto. Quando siamo ciechi di fronte a qualcosa, la vita ci pone degli ostacoli che ci permettono di imparare la preziosa lezione che dobbiamo apprendere.

Se non curiamo bene, non sorprendiamoci se, un domani, non verremo curati altrettanto bene.

Non mi stancherò mai di ripeterlo, una buona relazione è la cura di tutti i mali.
Tanto negli ambienti di cura, quanto in casa, al supermercato, in vacanza e in qualsiasi altro posto.

Per instaurare una buona relazione bisogna essere gentili, empatici e umani, rivestirsi di umiltà e bisogna saper ascoltare, quello che viene detto e quello che non viene detto. Non è cosa facile, bisogna avere la mente sgombra, ma ci si può allenare a farlo, soprattutto quando si vedono i vantaggi che ne derivano.

Perché la gentilezza verso il prossimo appaga prima di tutto chi la mette in atto.

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