30/09/2025
Lunedì mattina, terza ora.
I ragazzi entrano in aula di motoria carichi di energia. Ma l’insegnante li blocca:
“Niente palestra oggi. Troppa confusione, tutti in classe!”
Silenzio. Occhi bassi. Qualcuno protesta, invano. Lo sport viene tolto come punizione.
Una scena ancora troppo comune, che racconta bene come il gioco sia percepito a scuola: un premio, una pausa dalla “vera” educazione.
Come se correre, toccare, sbagliare, sudare fossero attività minori.
Come se il corpo fosse un extra. Non un linguaggio.
Ma il gioco – e lo sport come sua forma evoluta – non nasce per premiare.
Il divertimento non è lo scopo, è la conseguenza.
Giocare serve a sopravvivere.
Il gioco è un comportamento evolutivo: ci aiuta ad apprendere senza rischiare la vita, ad allenare corpo e mente per scenari futuri.
Esiste in tutte le specie complesse. Perché in natura, nulla resta senza motivo.
Pensiamo ai muscoli delle orecchie: un tempo servivano per localizzare i suoni e scovare pericoli.
Con l’evoluzione, hanno perso utilità e si sono atrofizzati. Lo stesso vale per la peluria corporea: un tempo era fondamentale per la protezione, poi è diventata secondaria e si è ridotta ( non per tutti 🙂 ).
Il gioco no. Il gioco è rimasto.
Come il sonno, sembra “inutile” dal punto di vista produttivo, ma è essenziale per crescere, regolare, apprendere.
Se fosse stato superfluo, l’evoluzione lo avrebbe eliminato. Non lo ha fatto.
Nei mammiferi, il gioco si attiva solo in ambienti sicuri.
Se non ti senti protetto, non giochi. Se percepisci minaccia, non esplori.
Eppure oggi, molti giovani fanno sport senza sentirsi al sicuro.
Allenatori ossessionati dalla prestazione, genitori che giudicano dai bordi campo, ambienti competitivi e punitivi.
Oppure spazi costruiti solo per eccitare, non per educare.
Panksepp lo aveva osservato nei suoi esperimenti: se un ratto domina sempre un altro nel gioco di lotta, quest’ultimo smette di giocare.
Non perché incapace, ma perché perde senso di reciprocità.
Quando non c’è simmetria, il gioco smette di essere tale. Subentra la difesa.
Succede anche ai bambini che evitano. Agli adolescenti che abbandonano.
Dove manca sicurezza, spesso c’è paura.
Ed è lì che si aprono le prime fratture tra la nostra natura biologica e la cultura che costruiamo.
Capire il gioco come sistema biologico e come dispositivo educativo è il primo passo per riappropriarci della sua forza trasformativa.
Allenarsi non è solo prepararsi a una gara.
È stare nel mondo con una sufficiente competenza.
E noi iniziamo a viverla, la vita, proprio giocando.
Perché dietro al gioco non c’è solo leggerezza, ma un sistema motivazionale profondo, attivo nel cervello, che ci spinge a muoverci, esplorare, cercare.
Un sistema che non nasce dal bisogno di vincere, ma dalla tensione naturale verso ciò che ci fa crescere.
Il gioco non è un lusso.
Nelle specie animali emerge quando i bisogni primari sono soddisfatti, per simulare scenari futuri: lotta, fuga, caccia, relazione.
Negli esseri umani, è uno dei primi strumenti di apprendimento: si corre, si cade, ci si rialza. Si finge. Si sbanda, ci si regola.
Il gioco è un apprendimento autoregolato.
Non parte da un’istruzione esterna, ma da una spinta interna.
Una tensione verso ciò che ancora non si conosce, ma attrae.
il gioco è un impulso a esplorare.
Un orientamento del corpo e della mente verso il mondo.
Un modo per abitarlo, prima ancora di capirlo.