31/10/2024
Di fronte a tragedie che colpiscono l’intera comunità – come l’assassinio di una tredicenne da parte del suo giovane fidanzato o il gesto violento di un figlio che stermina la propria famiglia – siamo chiamati a fermarci, a guardarci dentro e a interrogarci su ciò che siamo e su ciò che trasmettiamo.
Come adulti, come terapeuti, ci è chiesto di essere custodi dei valori che professiamo. Ma cosa accade se queste parole non trovano riscontro nei nostri gesti, se le nostre vite non riflettono quella pienezza che tanto spesso invochiamo per altri? Siamo consapevoli di quanto conti ciò che facciamo rispetto a ciò che diciamo? Se restiamo legati alle nostre ferite non risolte, se ci trinceriamo dietro un’immagine impeccabile ma priva di autenticità, come possiamo sperare di essere guida e conforto per chi ha bisogno di profondità e verità?
Essere terapeuti significa avere il coraggio di essere umani, di riconoscere il valore dei percorsi di chi ci sta accanto, anche quando – o forse, soprattutto quando – questi ci ricordano i nostri limiti.
I giovani non cercano adulti impeccabili; cercano figure che siano intellettualmente oneste, che abbiano il coraggio di mostrarsi per ciò che sono, con le loro vulnerabilità e le loro risorse. In fondo, le parole senza azioni sono come promesse vuote, destinate a dissolversi. “Vivere come insegniamo” diventa così un richiamo essenziale, una promessa di trasparenza che nasce dal modo con cui trattiamo noi stessi e gli altri.
Essere adulti non è solo un titolo: è un compito, un impegno a esserci davvero, a diventare punti di riferimento viventi, capaci di trasmettere speranza non perché perfetti, ma perché presenti, autentici, capaci di guardare con occhi aperti e mani tese verso chi ha bisogno.
Questa è forse la vera essenza della responsabilità: accettare il compito di essere una guida non per la nostra perfezione, ma per il nostro coraggio di vivere ciò che insegniamo. In un mondo che troppo spesso celebra l’apparenza, possiamo scegliere di essere ponti, sostegni autentici per chi ci osserva e ci chiede solo una cosa: di essere presenti, prevedibili e affidabili.
Oggi penso e celebro il lavoro delle tredici colleghe che hanno portato sostegno e speranza a una comunità ferita. Accogliere il loro impegno non vuol dire solo valorizzare chi ha operato per il bene comune; significa accettare che la guarigione, sia personale che collettiva, passa anche attraverso l’umiltà di riconoscere e sostenere gli sforzi autentici degli altri.
Evviva a voi Giada, Silvia P, Alessia, Costantina, Elisa, Federica, Giovanna, Ilaria, Silvia A, Viviana, Valentina e Silvia Pe.