Dott.ssa Silvia Notaro

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Dott.ssa Silvia Notaro Studio medico-psicologico

13/08/2025

E c’è la cosiddetta “malattia mentale”.
Chissà perché considerata in modo totalmente diverso
dalla malattia fisica: uno stigma, qualcosa
che ci interroga sui confini tra normalità e follia
e, facendoci sentire che la distinzione non è netta,
ci spaventa, fa ve**re a galla la paura del non-controllo,
la convinzione che la volontà possa qualcosa,
e la rabbia invidiosa per chi non ha argini convenzionali
al dire e al fare. Spesso non riusciamo a vedere che dietro
non c’è altro che un’enorme sofferenza, cosí grande che straripa,
scolla i nessi, sbreccia, scavalca i bordi del contenitore,
corpo, mente, tutto. È una sorta di temporanea soluzione
al troppo pieno. Una sofferenza insoffribile ci interroga sulla nostra tendenza a coprire, imbiancare, fingere, distrarci,
non pensarci, gettarci nell’azione, non fermarci
mai, essere sempre all’esterno di noi e non sentire
il vuoto che chiama: «Torna a casa».
Chi soffre mentalmente ha una casa inabitabile,
ma non è distratto: è divorato dalla presenza.
Ha bisogno di un involucro fuori di sé, di ascolto non giudicante.
E che vuol dire? Sapere come sto mentre ascolto,
non nascondere il timore, non trasformare
le emozioni in tranquillizzanti giudizi, in sedazioni
del pensiero. Stare con l’altro nella verità di sé.
E vuotarsi dai pregiudizi, riconoscendoli,
per ospitare l’altro, per specchiarsi reciprocamente.
Tu mi fai tremare, io resto, per accogliere i nostri tremiti
e tremare insieme.

Chnadra Candiani da 'I visitatori celesti.' Einaudi
foto da 'Matti da slegare' di Agosti, Bellocchio, Petraglia. Rulli

31/07/2025

Non è il distacco a farci a pezzi.
È quando cade il teatro.
Quando ci accorgiamo che quella persona non era affatto come l’avevamo scritta nella nostra mente.
E no, non è neppure sempre colpa sua.
Siamo stati noi, con tutta la nostra fame d’amore, a cucirle addosso un ruolo.
A ignorare gli indizi, a romanticizzare i silenzi, a trasformare le zone d’ombra in mistero.
Abbiamo confuso la chimica con il destino, la gentilezza con l’amore, il bisogno con la compatibilità.
La delusione non è altro che la fine di un’illusione.
E fa male perché rompe qualcosa dentro.
Mette in discussione la nostra capacità di scegliere, di capire, di proteggerci.
Ci fa sentire ingenui, vulnerabili, scoperti.
Ma non è debolezza.
È umanità.
Perché tutti, almeno una volta, abbiamo voluto credere che fosse vero.
Che questa volta fosse diverso.
Che fosse quella persona.
E invece no.
E allora non ci basta chiudere una relazione per chiuderla davvero.
Ci tocca smontare, pezzo per pezzo, il castello che avevamo costruito nella testa.
Togliere i “ma era così speciale”, i “sembrava diverso”, i “forse cambierà”.
E ammettere che no, non era lui. Era l’idea che ci eravamo fatti di lui.
Una proiezione. Un desiderio travestito da realtà.
E lì, proprio lì, in quel dolore che non sappiamo spiegare, iniziamo a crescere.
Quando impariamo ad amare senza inventare.
A fidarci senza idealizzare.
A vedere davvero. Non ciò che vogliamo vedere, ma ciò che è.
E anche se sembra una perdita, è in realtà una liberazione.
Perché non c’è dolore più tossico di un amore basato su un’illusione.
E non c’è verità più salvifica di un cuore che impara a scegliere chi lo vede davvero.
Senza veli.
Senza filtri.
Senza favole

(Enrico Chelini, Psicoterapeuta)

08/07/2025

John Bowlby sostiene che nello sviluppo l’individuo interiorizza uno stile relazionale a seconda del tipo di attacamento che egli acquisisce con le figure accudenti.

Se lo stile di attacamento è sicuro il bambino riuscirà a interiorizzare questo legame che egli percepisce come rassicurante, protettivo. Il bambino con stile sicuro esplora l’ambiente, si avventura per il mondo, prende rischi, in quanto sente che alle sue spalle vi sono sponde sicure che lo conterranno, una base sicura a cui tornare.

Quanto più saldo è questo tipo di legame, tanto più egli oserà fare esperienze. Accade che a un determinato momento durante le tappe evolutive, avvenga l’interiorizzazione di questo legame, che diventa un modello operativo interno relazionale nell’età adulta. Winnicot sostiene che se il bambino ha avuto una figura accudente “sufficientemente” buona, egli interiorizza questa figura protettiva, e si sentirà al sicuro anche stando da solo. Il bambino che gioca da solo in presenza del genitore fa prove tecniche per apprendere a stare con se stesso, fino a quando egli pur non vedendo il genitore, saprà che torna, riuscirà a tollerare la frustrazione dell’assenza, come direbbe Bion.

Egli apprende a sostare nello spazio vuoto, dove non c’è nulla che arriva dall’esterno. Dove sembra che non stia accadendo nulla. E’ nell’allenamento a questo momento di non- fare, nel coltivare la presenza a se stessi , che si impara a nutrire l’essere. Momenti di distacco dall’Altro sono fondamentali. Eshter Buchholz, una psicanalista americana, sostiene l’importanza fisiologica per i circuiti neuronali del cervello di disconnettersi dalle stimolazioni esterne. Il bisogno di silenzio è vitale, permette alle cellule cerebrali di recuperare, altrimenti il circuito resta perennemente attivato, acceso, pena l’esaurirsi delle risorse. Riuscire a spegnere tale circuito, dargli il tempo per staccare dagli stimoli è un bisogno vitale. E non è sufficiente il sonno. Nel sonno si attivano altri process.

E’ necessario fare questo recupero nella veglia. Succede però che a tale operazione non siamo abituati, non esiste una educazione alla solitutide. Nella lingua inglese la parola solitudine può essere tradotta in due modi “loneliness” termine con una connotazione negativa, che indica il sentirsi soli e di conseguenza infelici di questa condizione, e “aloness” sentimento che indica la capacità di stare da soli, con se stessi, e implica pertanto una competenza. A tale pratica la società occidentale non abitua i propri bambini. Tutta l’attenzione è rivolta verso la socializzazione, a volte inseguita a tutti i costi.

Lo stare con se stessi non è visto come una abilità da coltivare, nello sviluppo. Il bambino che gioca da solo viene visto con diffidenza, preoccupazione (Cigala, Corsano 2004). Viene iperstimolato a connettersi. Si rischia così di restare sempre accesi, collegati, e non riusciamo mai a staccare la spina. Così da adulti la solitudine viene vista come un abisso in cui non si è in grado di sprofondare.

E si fa di tutto per evitare l’incontro con se stessi.

Non avendo interiorizzato una base sicura, un modello operativo interno che permette di sentirsi al sicuro e “a casa” dentro se stessi, si cerca un palliativo fuori. Il momento di sosta nello spazio vuoto viene temuto, aborrito, evitato con ogni mezzo. In realtà è proprio in questo iato, nell’incertezza, nello sconosciuto che si spalancano le infinite possibilità dell’essere.

E’ nella meditazione che da adulti si riscotruisce questo spazio vuoto, lo si esplora e si apprende a non fuggire, a so-starvi. Nel silenzio, solo nel silenzio completo, si può conoscere lo spazio vuoto e sprofondarvi con coraggio, un salto nell’abisso di sé.

Un viaggio affascinante quello della conoscenza di se stessi, da compiere stando da soli, ritirando la propria energia, come una marea dell’oceano che a volte incontra e lambisce la spiaggia, per poi ritirarsi, ad ascoltare il proprio ritmo, la propria, unica, canzone.

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Ameya G. Canovi


19/04/2025

La serie televisiva Adolescence ha avuto un grandissimo successo. Il primo ministro britannico Keir Starmer è arrivato a proporre che sia trasmessa nelle scuole, lasciando così intendere che la visione di questa storia possa avere un valore educativo. Che cosa può insegnare questa serie non solo ...

02/04/2025

"Si, c'è qualcosa che non va.."
La sedia scomoda della sala d'attesa,
la maglietta sudata anche se non fa poi così caldo,
Il "ti prego, fa che non sia niente di grave" che ti ronza nella testa anche se non credi veramente che qualcuno ascolti quella preghiera.
Gli sguardi distratti e la chiacchiere allegre di chi ti passa accanto, mentre vive la sua giornata ignaro della tua. Ti fa quasi rabbia la loro leggerezza, come se fosse un'ingiustizia, anche se infondo è la stessa che avevi tu, quando tutto questo era ancora lontano.
Chi aspetta una diagnosi, per se o per chi ama, vive un'angoscia difficile da spiegare a parole.
È come se quel tempo trascorso tra esami e dottori si dilatasse all'infinito, catapultandoti in una vita fatta solo di attesa.
Entri in un mondo parallelo, come se guardassi da un vetro la tua vita di prima, quella in cui tutti stavamo bene e tutto questo non c'era.
Avevi tutto, e non lo sapevi.
Quando aspetti una diagnosi, per te o per chi ami, di solito sai già cosa ti dirà il medico. Dentro di te lo sai che cosa sta succedendo, quando la malattia c'è quello che ti dirà è quasi sempre una conferma, raramente è una sorpresa.
Eppure la comunicazione della diagnosi è un momento fondamentale per il paziente e per chi lo accompagna. Quel tempo che il medico dedica per aiutarti a capire cosa significa, cosa succederà, cosa puoi fare fa una differenza enorme.
Anche se te lo aspettavi, sentirlo dire ti travolge, ti lascia senza fiato, con una paura addosso che sembra semplicemente troppo grande per uscire a parole.
La lista delle domande che avevi in testa in sala d'attesa si appanna, sbiadisce dietro l'ondata di consapevolezza che ti cade addosso. E rischia di rimanere lì, senza quelle risposte che invece a casa ti serviranno come l'aria.
Alcuni familiari mi hanno raccontato di ricordare meglio la durezza della sedia dove erano seduti delle parole del medico.
Altri ricordavano ancora con sgomento lo sguardo serenamente inconsapevole dei loro cari e il fatto che nella testa avevano solo il pensiero "ma davvero non capisci che parliamo di te?!".
Qualcuno riusciva solo a richiamare alla mente il bisogno di scappare da quella stanza.
Pochissimi ricordavano di essersi sentiti sostenuti, che in quel tempo di comunicazione della diagnosi c'era stato spazio anche per far uscire un po' di quel groviglio di paura e dolore che sovrastava tutto il resto.
Io, di tutto quel momento, ricordo il silenzio della dottoressa davanti alle lacrime e il gesto gentile del suo tirocinante, che timidamente ha allungato i suoi fazzoletti di carta.
Il momento della comunicazione della diagnosi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare di più, come sistema sanitario.
Anche se quasi mai coincide con i primi sintomi, il momento in cui finalmente qualcuno da un nome a quello che succede coincide con il suo esistere davvero nella nostra mente. Non si torna più indietro, non puoi più oscillare tra la paura che sia e la speranza che non sia.
È, c'è e va affrontato.
Perché occuperà tutta la tua vita.
E i pochi minuti solitamente a disposizione, anche se gestiti con la miglior umanità possibile, non bastano né al paziente né a chi lo accompagna. Sono a mala pena sufficienti per chiedere "e ora che succederà?".
Quasi mai bastano al medico per rispondere in modo esaustivo alla domanda.
Praticamente mai bastano a chi ascolta per comprendere fino in fondo.
Nemmeno tutto il tempo del mondo può impedire il dolore, la paura, la fatica che ti piomba addosso assieme al nome della malattia.
Ma il tempo che il professionista dedica ad accogliere tutto questo senza liquidarti in poco tempo, lo spazio che lascia al tuo silenzio tanto quando alle tue domande ti fa sentire meno solo. Ti dà la possibilità di allentare un po' il groviglio che ti porterai a casa.
“Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” – Legge 219/17, art. 1, comma 8.
La legge già lo dice. Lavoriamoci su.

30/03/2025

[ 30 marzo - Giornata Mondiale del Disturbo Bipolare ]

È inquietante sentirti diagnosticare a quasi sessant’anni una malattia di cui hai sofferto per tutta la vita senza che nessuno l’abbia mai nominata. Poi leggi quello che puoi sull’argomento, rileggi la tua vita da questo punto di vista e ti accorgi che tutto torna. Che torna perfettamente. Che per tutta la vita hai attraversato fasi alterne di esaltazione e di depressione, una cosa che sicuramente capita a tutti, perché tutti abbiamo umori mutevoli, tutti abbiamo alti e bassi, cieli limpidi e nubi nere, ma ci sono persone come me, il 2% della popolazione a quanto pare, per le quali gli alti sono più alti e i bassi più bassi che per gli altri, al punto che il loro alternarsi diventa patologico.

Emmanuel Carrère, da Yoga - Traduzione di Lorenza Di Lella, Francesca Scala

§

Tra le parole che vengono usate tutti i giorni il termine “bipolare” ha assunto un valore comune che si distanzia dall’uso che ne viene fatto in campo psicologico. È frequente, infatti, che tale termine venga utilizzato per definire una persona che dimostra un repentino cambio dell’umore con frasi tipo “ma sei bipolare?” come se si avesse la necessità di etichettare quel comportamento che in realtà è riscontrabile in tutte le persone. Si assiste ad una diffusione nel senso comune di un termine proprio di un sapere scientifico e che identifica un determinato disturbo dell’umore, che va bene oltre un semplice sbalzo d’umore: il disturbo bipolare.

https://www.caremindstudio.com/due-facce-della-stessa.../

René Magritte Art

28/02/2025

Ho a cuore questa poesia.

Perché è una di quelle che scavalcano subito il muro. Viene subito da te.

Ho a cuore questa poesia per quell'espressione, quell'anafora secondo me stupenda - ho a cuore - che bella espressione avere a cuore, un complemento di stato in luogo figurato ma espresso con la preposizione "a". Dove sei? A casa. A cuore.

Ce l'ho a cuore perché è un abbraccio a chi non viene abbracciato.
Perché non parla di chi vince, di chi emerge, di chi sa sempre cosa fare.
Parla di quelli che restano un passo indietro, di chi si sgretola e non sa ricomporsi, di chi porta il dolore come si porta un braccio, senza mai potersene separare.

Questa poesia ha a cuore gli smarginati, gli incrinati, quelli che non hanno niente da insegnare, ma tutto da sentire.
È fatta di spazio lasciato libero, di parole per chi non le trova, di un tempo che non chiede di essere riempito.

È una poesia per chi non corre, per chi non vince, per chi non è nemmeno in gara.
Per chi, a cuore, ci sa stare.

E voi? Chi avete a cuore?

Io ho a cuore
chi non ce la fa
chi non sa
che pesci pigliare.
Ho a cuore chi nel dubbio
arretra
desiste
depone
tace.
Ho a cuore chi non
occuperà pagine di giornale
chi sceglie il meno peggio
abita
l’immaginazione.
Ho a cuore
chi sta sveglio di notte
chi conosce i salti della follia
i giorni della malattia
chi sogna a occhi aperti
e resta un segreto.
Ho a cuore
chi ha un destino — e il suo fardello —
chi si sgretola
chi sbriciola desideri
chi sa la dissoluzione
chi rammenda
e non sa
ricostruire
da zero
chi lascia gli oggetti al tempo
chi porta il dolore
come si porta un braccio
un fegato
un alluce.
Ho a cuore chi non ha
le parole, ma sa riconoscerle
e ho a cuore chi ascolta.
Ho a cuore le vite ordinarie
chi non ha lezioni da dare
chi aspetta apparizioni
chi viene ricordato
per sottrazione.
Ho a cuore l’ingenuità.
Io ho a cuore
chi svuota e rispetta
tempo e spazio
chi mette da parte
provviste
monete
per gli inverni
chi alza le spalle
chi le ha curve
chi scosse
i guasti
gli smarginati
gli incrinati.
Io ho a cuore
l’umanità sommersa
invisibile
che non perde
perché non è in gara.
-Claudia Mencaroni, “Materiale di resistenza”

19/02/2025

"La fragilità è un valore umano. Non sono affatto le dimostrazioni di forza a farci crescere, ma le nostre mille fragilità: tracce sincere della nostra umanità, che di volta in volta ci aiutano nell’affrontare le difficoltà, nel rispondere alle esigenze degli altri con partecipazione.
La fragilità è come uno scudo che ci difende dalle calamità, quello che di solito consideriamo un difetto è invece la virtuosa attitudine che ci consente di stabilire un rapporto di empatia con chi ci è vicino.
Il fragile è l’uomo per eccellenza, perché considera gli altri, suoi pari e non, potenziali vittime, perché laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende."

[Vittorino Andreoli - "L'uomo di vetro"]

26/01/2025

Burnout medici ospedalieri: l'esaurimento psicofisico tra gli operatori sanitari è ormai allarmante. E il poco tempo per parlare con i pazienti non ricade solo sui malati, ma anche sulla gratificazione dei medici

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