02/07/2025
PARTE 3 - Esercizio terapeutico: la differenza tra muoversi e curare.
Cerchiamo di chiarire una cosa: cosa distingue davvero l’attività motoria dal trattamento sanitario.
Perché è proprio lì, in quel confine, che nasce il senso profondo del nostro lavoro.
E allora ricordiamo una cosa semplice, ma essenziale. Il fisioterapista non si occupa solo di terapia manuale o di elettromedicali, come qualcuno vuol far credere.
L’esercizio terapeutico è da decenni al centro della fisioterapia moderna. Non si tratta di una moda recente o di un’aggiunta estemporanea, ma di un pilastro clinico basato su evidenze scientifiche consolidate.
Parlare di esercizio terapeutico oggi significa parlare di fisioterapia. Non di ginnastica, non di movimento generico, ma di un intervento clinico fondato su anamnesi, valutazione funzionale e personalizzazione. È questo che distingue l’atto sanitario da una semplice attività motoria.
L’esercizio terapeutico è raccomandato nelle linee guida internazionali per patologie muscoloscheletriche, neurologiche, cardiovascolari, respiratorie e molto altro.
Eppure, proprio queste evidenze vengono spesso strumentalizzate: si citano studi nati in contesti clinici, con pazienti fragili o con dolore, per giustificare interventi che nulla hanno a che vedere con la presa in carico sanitaria.
Si prende un esercizio nato per un contesto clinico, lo si decontestualizza, e lo si propone come attività generica. Ma così si cancella il suo presupposto più importante: la responsabilità clinica.
Il fisioterapista, in questi percorsi, non si limita a “far eseguire” esercizi, né può essere paragonato a un “semplice istruttore” (cit.).
È un professionista sanitario che valuta, riconosce segnali clinici, individua controindicazioni e adatta il piano terapeutico in base all’evoluzione della condizione.
Il suo lavoro non si esaurisce nella proposta motoria, ma si fonda su una responsabilità clinica precisa, che unisce competenze tecniche, capacità di osservazione e presa in carico della persona nella sua complessità.
Ridurre tutto a “muoversi fa bene” significa ignorare il confine tra prevenzione e cura, tra benessere e riabilitazione. E quel confine, quando c’è di mezzo la salute, fa tutta la differenza.
Quando c’è di mezzo la salute, non basta sapere cosa far fare. Serve sapere a chi, come e quando farlo. Serve saper valutare, riconoscere ciò che non torna, e prendersi carico della persona, non solo del suo movimento. È qui che si distingue chi puó accompagnare da chi cura e accompagna.
Il fisioterapista cura e accompagna, perché è formato e abilitato a farlo. Il chinesiologo, ad oggi, no. E non perché valga meno, ma perché ha un altro ruolo. Ribadiamo, non perché non sia utile, ma perché la sua formazione e il suo inquadramento hanno un obiettivo diverso.
E dire le cose come stanno non è arroganza.
È rispetto per le persone. È responsabilità verso tutti voi che cercate risposte nel mare magnum della disinformazione.
In conclusione, se la partita è davvero culturale, come scrive il post originale, allora giocatela bene.
Senza slogan. Senza ridurre il fisioterapista a “una triennale che non sa nulla di esercizio”. Senza screditare il medico, dipingendolo come un incompetente che prescrive terapie inutili. Senza creare eroi solitari, quando la cura delle persone si fa insieme.
Perché se c’è un futuro in cui il movimento diventa medicina, quel futuro non nasce da uno scontro. Nasce da una visione condivisa, dove ognuno fa la propria parte, nel proprio ambito, con piena dignità e con piena coscienza dei propri limiti.
E la fisioterapia, in quel futuro, non solo c’è.
Ci sarà sempre: per le persone assistite, per la salute, per il rispetto della verità.
Perché il futuro del movimento come medicina non si costruisce contro. Si costruisce insieme.
E in quel futuro, la fisioterapia non solo c’è.
Ma guida oggi e guiderà domani.
Chi lavora nella salute ha una missione comune: informare con chiarezza, rispettare i confini, camminare insieme.
Facciamolo. Anche qui, dove la confusione viaggia veloce.