20/07/2025
FERRO E SOCIETÀ: IL BODYBUILDING COME SPECCHIO DELLA MODERNITÀ
Introduzione
Il bodybuilding non è uno sport. Non è nemmeno uno stile di vita.
È un fenomeno sociale complesso, stratificato, a metà tra religione e rappresentazione teatrale.
Un campo di tensione tra individualismo e appartenenza, tra sacrificio personale e spettacolarizzazione pubblica.
Chi lo osserva da fuori – con lo sguardo accademico sterile e distaccato – coglie al massimo l’estetica o l’eccesso.
Ma chi lo vive dall’interno sa che il bodybuilding è, nel senso più pieno, un laboratorio sociologico vivente.
Come avrebbe detto Durkheim: non è la somma dei singoli corpi che conta, ma il fatto sociale che si genera attorno.
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1. Il corpo come progetto sociale (Marx e l’alienazione positiva)
In un contesto capitalistico, dove l’identità viene spesso annullata nella funzione produttiva, il bodybuilding sembra offrire una via d’uscita: il corpo diventa capitale estetico, proprietà privata, mezzo di produzione di senso.
Ma anche qui si annida una forma sottile di alienazione. Come avrebbe intuito Marx, il bodybuilder è allo stesso tempo padrone e operaio di sé stesso.
Il suo valore è legato a una produzione costante: muscolare, performativa, visiva. Non può fermarsi. Se smette, decade.
La sua libertà è, di fatto, subordinata al ciclo della propria immagine.
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2. Razionalizzazione e ascesi moderna (Max Weber)
Weber parlava di “gabbia d’acciaio” della modernità: razionalizzazione estrema della vita, in ogni sua forma.
Il bodybuilding ne è una perfetta incarnazione: tutto è calcolato, programmato, schedulato. I pasti, il sonno, i milligrammi.
Il corpo è ridotto a sistema ingegneristico, il culturista a funzionario della propria carne.
L’ascesi protestante, svuotata di trascendenza, sopravvive nel culturismo: la sofferenza come valore in sé, la disciplina come religione laica.
Il palco? Il nuovo Giudizio Universale.
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3. Coesione e sacro: il ferro come totem (Durkheim)
Ogni società ha bisogno di un sacro. Nel bodybuilding, il ferro è il totem.
La palestra è il tempio. Il coach è il sacerdote. Il posing è il rito.
I comportamenti sono regolati da norme non scritte: la dieta è inviolabile, il cheat meal è concessione rituale, la gara è pellegrinaggio.
Chi trasgredisce – salta i pasti, improvvisa i piani, posta una foto “fuori condizione” – viene silenziosamente espulso dalla tribù.
Il bodybuilding non è solo estetica: è rito identitario.
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4. La performance dell’identità (Goffman)
Per Goffman, ogni essere umano è un attore che recita un ruolo sociale.
Nel bodybuilding, questa recita è materiale. Il corpo stesso è il costume di scena.
Il culturista non si esibisce solo sul palco. Lo fa ogni giorno: al bar, in palestra, nei check-in, su Instagram.
Il posing è solo l’ultimo atto. La vera performance è permanente.
Ogni scelta – dal tipo di allenamento alla bio su IG – è un atto drammaturgico.
Il problema? Che spesso si dimentica dove finisce il personaggio e inizia l’uomo.
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5. Stratificazione e capitale simbolico (Bourdieu)
Il bodybuilding è un campo sociale con le sue gerarchie.
Chi ha capitale fisico, sociale e simbolico (fisico impressionante, preparatore noto, sponsor, follower) domina.
Chi non ce l’ha, fatica a emergere. Anche se ha più dedizione. Anche se meriterebbe di più.
Non esiste vera meritocrazia.
Chi sale sul podio non è sempre il migliore. È spesso il più “funzionale” al sistema.
Il culturismo, come ogni campo sociale, è un’arena in cui le regole cambiano per favorire chi ha già potere.
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6. Le federazioni: organizzazioni private e la vanificazione del percorso
E arriviamo al cuore dell’ipocrisia strutturale.
Le cosiddette federazioni si presentano come autorità sportive. In realtà sono organizzazioni private, con obiettivi commerciali.
Non regolano: vendono. Vendono tessere, sogni, titoli, illusioni.
Il culturista costruisce sé stesso per anni, in silenzio. Ma quando arriva il momento del riconoscimento, non contano solo i meriti.
Contano simpatie, interessi, visibilità, quote da pagare. Le classifiche spesso sono scritte prima della gara.
I parametri cambiano in corsa. La trasparenza è un’opzione.
Il palco è un casting, non una competizione equa.
E così tutto ciò che dovrebbe coronare un percorso – il momento della consacrazione – si trasforma nel suo opposto: una vanificazione teatrale, dove il merito è subordinato alla convenienza del sistema.
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Conclusione: il ferro resta. Il resto, passa.
Chi entra davvero nel mondo del bodybuilding capisce presto una cosa:
il palco non è l’obiettivo. È una scusa, una messinscena.
Il vero valore sta in quello che costruisci mentre nessuno guarda.
Il culturista non è chi si allena.
È chi si trasforma. Giorno dopo giorno. Fallimento dopo fallimento.
Nel silenzio, nella coerenza, nel sacrificio.
Il ferro non mente.
Il resto, sì.