29/01/2024
In memoria di
Chi è stato Nino Dazzi per la Psicologia e per la Psicoterapia in Italia, in ambito accademico, scientifico e clinico, tutti lo sanno e molti ne stanno scrivendo. Io parlerò di chi è stato Nino Dazzi per me.
L’ho conosciuto alla fine del mio percorso universitario, quando, ventiquattrenne un po’ spaurita, ho timidamente bussato alla sua porta per chiedergli di fare la tesi di laurea con lui. (Non avevo avuto modo di conoscerlo prima perché devo ammettere che, per ragioni personali, non avevo frequentato le lezioni di “Psicologia Dinamica corso avanzato”, di cui era Docente Ordinario, ma mi ero limitata a studiare autonomamente per l’esame, che pure era andato molto bene, seguendo la bibliografia indicata nel programma).
All’epoca, almeno alla Facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma, c’era un surplus di allievi per cui era arrivato il momento di laurearsi, nonostante la consistente scrematura che già c’era stata al primo biennio, e una non altrettanto ben fornita schiera di docenti disponibili a prenderli in carico (le lista di attesa potevano raggiungere addirittura i due anni). Per questo bisognava prima di tutto farsi ve**re in mente una buona idea da cui partire e su cui costruire l’impalcatura della propria tesi e poi trovare qualcuno a cui proporla che la considerasse sufficientemente valida e che pertanto fosse pronto a concedere uno dei suoi ultimi spazi di disponibilità, qualora gliene fossero avanzati. Una volta avevo sentito raccontare a qualcuno che qualche insegnante aveva detto, giusto per rendere meglio il concetto, che chiedere la tesi in certe materie, particolarmente ambite, era un atto kamikaze.
Io però volevo fare un lavoro sulla Teoria dell’Attaccamento, che era la cosa più reale e vicina all’esperienza, e quindi per me più comprensibile, che avessi letto di psicologia fino a quel momento. Allora mi ero recata dall’altra docente di Psicologia Dinamica corso avanzato, la Prof.ssa De Coro, poiché la ritenevo più accessibile, la quale mi aveva appunto informata che con lei avrei dovuto aspettare qualche anno, sebbene a me mancassero pochi esami per finire. Tuttavia, in considerazione del voto che avevo preso all’esame e siccome reputava che la mia proposta di lavoro avesse un qualche valore, mi aveva consigliato di rivolgermi al Prof. Dazzi. Certo, era il Preside, aveva aggiunto, sicuramente avrebbe avuto molti altri impegni a cui far fronte, ma avrei potuto provare.
Se me lo aveva suggerito lei, allora significava che non era un atto così irriverente chiedere di essere seguiti per la tesi di laurea al Preside di Facoltà, cosa che non mi sarebbe altrimenti mai passata per la testa. Così, sentendomi un poco legittimata, qualche giorno dopo, non senza esitazione, mi ero diretta in Presidenza. Avevo suonato il campanello e il segretario che mi aveva accolta mi aveva illustrato qual era la procedura che dovevo seguire se volevo ottenere un colloquio con il Preside, il cui primo passaggio da compiere consisteva nel mettere per iscritto su un foglio il motivo della mia richiesta. Le poche righe che avevo improvvisato lì su due piedi, in cui mi limitavo a dire la verità, e cioè che volevo chiedergli se fosse disponibile a farmi da relatore, non andavano troppo bene secondo lui: se volevo avere qualche chance di essere richiamata, la sua indicazione era di essere più precisa e dettagliata possibile. Avevo quindi ritentato dilungandomi un po’ di più sul modo in cui credevo di voler sviluppare la tesi, di cui facevo richiesta, e, con il benestare del segretario, me ne ero andata speranzosa, ma anche spaventata, di essere ricontattata per un appuntamento.
Sono rimasta subito stupita, la prima volta che l’ho incontrato, dall’interesse benevolo con cui aveva saputo ascoltare e considerare quanto gli avevo esposto, accettando infine di seguirmi.
Da quel momento in poi, ricordo di aver passato ore intere nella sala d’attesa della Presidenza quando avevo bisogno di parlargli e lui era sempre molto impegnato. Lo sentivo parlare animatamente la maggior parte del tempo, quando arrivava il mio momento ero a dir poco intimorita. Poi entravo ed incontravo tutte le volte il suo sguardo buono su di me.
Aveva badato ad un numero indefinito di questioni che dovevano essere tutte più grandi e più importanti di quelle che io avevo da porgli, ma trovava sempre il tempo di mettersi pazientemente seduto sul divano a fianco a me, di sfogliare le pagine che nel frattempo avevo scritto e che la volta precedente gli avevo lasciato, che si era preso la briga di leggere con scrupolo, e di illustrarmi i rimandi e le riflessioni che riteneva utile fornirmi - quando girava voce che alcuni docenti non si preoccupassero neanche di guardarle, le tesi redatte dai loro studenti. Lui invece si dedicava alle persone, prendeva gli altri, e tra gli altri me, incredibilmente sul serio. E questo faceva davvero un buon effetto.
Quando, dopo la seduta di laurea, ero tornata da lui perché sentivo di volerlo salutare e ringraziare per la sua guida, non lo avevo trovato. Il custode del Rettorato, dove in quel periodo aveva il suo ufficio, aveva preso l’iniziativa di appuntarsi il mio numero di telefono per avvisarmi quando fosse arrivato cosicché non avrei rischiato di andare a vuoto un’altra volta. Dopo qualche ora il telefono aveva squillato e a parlarmi dall’altra parte c’era proprio la sua voce. Era stato contento del pensiero che avevo avuto e ci aveva tenuto a richiamarmi personalmente per congratularsi.
Poi mi sono iscritta all’ISIPSÉ, dove mi sono formata come Psicoterapeuta, e ho avuto ancora l’occasione di restare in contatto con Dazzi, il quale ci offriva formidabili lezioni sulla Teoria dell’Attaccamento, di cui è stato uno dei massimi esponenti, mentre continuava a riservarmi un trattamento affettuoso.
L’estrema lucidità con cui pensava, parlava e spiegava, la sua ironia e la sua profondità d’animo hanno rappresentato anche in quegli anni un importante nutrimento per me.
In una recente intervista in memoria del Prof. Carli, sul finale Dazzi ha messo in evidenza come, nonostante i conflitti, caratterizzati a volte da posizioni inconciliabili sul piano politico e accademico, che avevano attraversato il loro rapporto, Carli avesse ultimamente rivisto alcune sue posizioni e fosse giunto ad approvare il modo in cui aveva fatto il preside. A tal proposito Dazzi precisava che non si trattava di un ricordo volto a gettare luce positiva su di sé ma che intendeva mostrare come ci fosse tra loro un elevato livello di scambio, fatto di reciproco rispetto e di reciproca correttezza, e come Carli avesse mantenuto fino in fondo quello stile alto, contribuendo ciò ad individuarlo come una delle persone più importanti del corso di laurea e della Psicologia italiana in generale. Parole, queste, che non v’é dubbio possano riferirsi anche alla sua figura.
I miei personali ricordi di Dazzi dicono certamente di come il suo sguardo gettasse in effetti luce positiva su di me, anche quando io stessa non sapevo guardarmi in quel modo. Ma vogliono raccontare soprattutto di come le sue spiccate doti umane, che in lui si univano mirabilmente ad eccezionali qualità intellettuali, gli consentissero di adattare la sua elevata statura per far sentire accolto e rispettato il suo più giovane e più inesperto interlocutore, a cui poteva capitare di avere l’onore di ricevere la sua benevolenza.