Dott.ssa Barbara Funaro Psicologa Psicoterapeuta PsicoanalistaSpp

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Dott.ssa Barbara  Funaro  Psicologa Psicoterapeuta PsicoanalistaSpp Dr. Barbara Funaro Psicologa Psicoterapeuta Psicoanalista Sessuologa e Criminologa a Milano

Il caso di   aveva solo nove anni.Scomparve un sabato di novembre del 1997.Disse che doveva recuperare dei colori dalla ...
01/06/2025

Il caso di aveva solo nove anni.

Scomparve un sabato di novembre del 1997.
Disse che doveva recuperare dei colori dalla zia.
Una bugia piccola, quasi invisibile. Ma dentro quella bugia c’era tutto.
C’era il dolore, la paura, la vergogna.
Silvestro stava andando da chi lo abusava.
Andrea Allocca, 70 anni, lo aveva attirato nella sua casa. Non era solo.
Con lui c’erano Gregorio Sommese e Pio Trocchia, i suoi due generi.
Tre adulti contro un bambino.
Tre uomini che, per settimane, lo hanno violentato, tenuto sotto ricatto, spogliato della sua infanzia e della sua voce.
Silvestro aveva smesso di chiedere aiuto.
Si era piegato nel silenzio, come fanno molti bambini che subiscono violenza.
Poi, un giorno, aveva provato a dire basta.
Voleva essere lasciato andare.
Non lo hanno lasciato vivere.
Lo hanno ucciso.
E nascosto.
Per anni, il suo corpo è rimasto in una valigia.
Abbandonato, come si abbandona un oggetto da cancellare.
Quando fu ritrovato, il 18 aprile 2005, c’erano le sue scarpette, un orologio, una collanina.
C’era tutto ciò che bastava a sua madre per riconoscerlo.
E il DNA ha confermato quello che il cuore già sapeva.
Sono una psicoterapeuta e criminologa, e conosco le dinamiche profonde di questi legami malati.
Conosco il silenzio dell’abusato, l’onnipotenza dell’abusante, il dolore invisibile che si annida negli interstizi della quotidianità.
Ma ogni volta che leggo, studio o ascolto una storia come quella di Silvestro, non riesco a non pensare a quante volte abbiamo scelto di non vedere.
Andrea Allocca è morto in carcere.
Gregorio Sommese, condannato all’ergastolo per omicidio e violenza sessuale, oggi è libero.
Pio Trocchia, condannato per occultamento di ca****re, ha scontato la sua pena.
Ma Silvestro no.
Silvestro non ha avuto giustizia piena.
Silvestro è rimasto lì, nella valigia, nel tempo interrotto, nel dolore che ancora oggi ci guarda in faccia.

Dobbiamo parlare.
Dobbiamo educare.
Dobbiamo creare spazi dove i bambini possano raccontare senza paura, e gli adulti sappiano riconoscere il non detto.
Perché nessun altro bambino debba più mentire per sopravvivere.
Perché il silenzio non sia mai più una condanna a morte.






Il   di    Il gesto estremo che ha spezzato la vita di Martina non nasce all’improvviso. È il frutto di un mondo interno...
01/06/2025

Il di


Il gesto estremo che ha spezzato la vita di Martina non nasce all’improvviso. È il frutto di un mondo interno disturbato, confuso, dove amore e possesso, dolore e rabbia, realtà e fantasia si mescolano senza confini. Il ragazzo che l’ha uccisa non ha compiuto solo un delitto: ha manifestato un crollo psichico totale, un’esplosione di angoscia non pensabile, non contenibile, non dicibile.
Nel suo universo interno, la ragazza non è mai stata un’altra persona con un’esistenza propria, ma un’estensione del suo essere. Una presenza necessaria per definire se stesso. Quando lei tenta di allontanarsi, lui non vive quel gesto come un addio, ma come un atto di distruzione: senza di lei, lui non sa più chi è. L’abbandono viene vissuto come annientamento. E così reagisce: non lasciando andare.
Le emozioni che lo attraversano ,umiliazione, rabbia, fragilità, non riescono a trasformarsi in pensiero. Restano grezze, roventi, e si riversano sul corpo dell’altro. Il gesto diventa parola, perché la parola, quella vera, non esiste. L’agito è il suo unico modo per “dire” qualcosa. Non riesce a contenere il dolore della perdita, quindi distrugge ciò che glielo provoca.
Quando Martina smette di essere la ragazza che lo ama, diventa per lui una minaccia, un nemico, un oggetto da eliminare. La mente non riesce a integrare la complessità, a tenere insieme amore e rifiuto. Per questo la sua violenza non è solo vendetta: è un tentativo disperato di ristabilire ordine nel caos. Di togliere di mezzo ciò che lo ferisce, come se cancellando l’altro potesse liberarsi del proprio vuoto.

Fame di controllo e fragilità identitaria:
Chi non ha un centro stabile dentro di sé cerca di costruirlo fuori. Martina, per lui, era un’ancora. Quando ha provato a liberarsi, lui ha vissuto quella libertà come una condanna. Non tollerava che lei potesse scegliere, decidere, essere autonoma. Non perché fosse geloso nel senso banale del termine, ma perché il suo stesso equilibrio psichico dipendeva dal tenerla vicina, sottomessa.
La violenza estrema rivela la totale incapacità di concepire l’altro come altro. In quel gesto c’è un delirio di potere e di disperazione: se non posso averti, non devi esistere. Non è amore che uccide, ma una forma primitiva di fusione che non tollera la separazione.
Il profilo psicologico che emerge è quello di una mente senza pelle: vulnerabile, narcisisticamente ferita, incapace di tollerare la frustrazione. Non ha strumenti per contenere la perdita, per accettare il no, per sopportare il vuoto. Il suo gesto non è solo omicidio: è la rappresentazione estrema di una psiche che, non sapendo piangere, devasta.










“A Martina, luce interrotta”Avevi occhi che cercavano il domani,mani gentili, sogni troppo umani.Un cuore giovane, pieno...
01/06/2025

“A Martina, luce interrotta”

Avevi occhi che cercavano il domani,
mani gentili, sogni troppo umani.
Un cuore giovane, pieno di fiducia,
che credeva nell’amore, senza paura né astuzia.

Ma a volte il pericolo indossa sorrisi,
e promette il cielo con gesti incisi.
Lui era lì, il volto noto e vicino,
ma dentro l’anima un vuoto assassino.

Volevi andare, ricominciare,
scappare via per non più tremare.
Ma l’addio, fragile come la seta,
fu letto da lui come una minaccia segreta.

Ti sei fidata, come fanno i puri,
e non pensavi che i “ti amo” potessero diventare muri.
Lì dove c’era amore, ha messo la morte,
rubando la tua voce, chiudendo le porte.

Ora il silenzio pesa, più del pianto,
ma il tuo nome, Martina, lo portiamo intanto
come una stella che non si spegne mai,
una promessa contro chi fa solo guai.

Che nessun’altra debba vivere il tuo inferno,
che il tuo ricordo ci bruci eterno.
Perché l’amore, quello vero e sincero,
non fa mai male. E non uccide davvero.

Barbara Funaro

Il   del   di   32 denunce per abusi sessuali durante visite mediche, non è solo cronaca nera. È una faglia che si apre ...
11/05/2025

Il del di 32 denunce per abusi sessuali durante visite mediche, non è solo cronaca nera. È una faglia che si apre dentro un sistema che dovrebbe proteggere, un crepaccio nell’intimità più profonda, quella che si consegna al medico quando ci si spoglia, nel corpo e nell’anima.
Non erano ignare. Non erano fragili nel senso stereotipato del termine. Erano professioniste: infermiere, medici, donne adulte, istruite. Abituate al linguaggio del corpo, alla scienza, all’ambiente ospedaliero. Donne che sapevano parlare. Ma che, nel silenzio di quelle stanze, non parlavano. Per anni. Alcune, forse ,cercavano un modo per diventare “speciali”. Forse. Non è colpa. È sopravvivenza, è adattamento. È una psiche che tenta di dare senso all’insensato, di prendere il controllo anche solo illudendosi di essere scelta. Come accade in certi legami perversi, dove l’abuso è mascherato da attenzione, da confidenza, da “cura”.
Gli abusi avvenivano in corsia, in ambulatorio, in luoghi dove la fiducia è il primo strumento di lavoro. Non dietro un vicolo buio, non in una trappola da cronaca spicciola. Il carnefice indossava un camice, la maschera perfetta. Aveva il potere di decidere chi vedeva, come, quando, e quanto “approfondire” una visita. Le sue mani erano autorizzate. E le vittime lo sapevano, ma ogni gesto, ogni frase, si mimetizzava nel “protocollo”. Fino al giorno in cui una si è staccata dalla massa, ha parlato. E allora il vaso si è rotto.
Questo è un caso in cui la vergogna si annida non nel corpo esposto, ma nella mente che si interroga: Perché non ho detto niente? Perché sono tornata? Perché l’ho lasciato fare? È il dilemma tragico di molte vittime di abusi da parte di figure di potere. L’abusante si muove nell’ambiguità, sa calibrarsi, sa confondere, mescolare controllo e seduzione, autorità e “premura”. Il medico, in questo caso, si è trasformato in predatore all’interno di un ecosistema che gli ha garantito invisibilità e, forse, complicità passiva.
Ma la psiche delle vittime non è un guscio vuoto. È un campo di battaglia. Non sono state “zitte” per ignoranza. Sono state zitte per paura, per sfiducia, per isolamento. Alcune forse hanno sperato di trarne qualcosa. Ma anche questa ,se fosse è una forma di sopravvivenza. Perché il trauma non è solo ciò che ti accade, ma ciò che sei costretto a diventare per sopportarlo.











Il   di oggi   a CataniaQuando una madre uccide il proprio figlio, l’umanità intera si ferma. È un atto che disorienta p...
30/04/2025

Il di oggi a Catania
Quando una madre uccide il proprio figlio, l’umanità intera si ferma. È un atto che disorienta perché viola l’architettura affettiva più sacra: quella del legame primario, del nutrimento, della protezione. Eppure, quando tale gesto nasce da una struttura psicotica, dobbiamo spogliarci del bisogno di moralizzare e iniziare a comprendere.
In casi come quello accaduto oggi a , il gesto infanticida non è l’epilogo di una cattiveria, ma la manifestazione estrema di una frattura psichica profonda. La donna, secondo le prime informazioni, soffriva di disturbi psichiatrici e di depressione post partum, una delle condizioni più sottovalutate e pericolose della psichiatria perinatale. La depressione post partum, nelle sue forme più gravi, può degenerare in psicosi puerperale, un disturbo rarissimo ma altamente pericoloso, che può comparire anche in donne precedentemente sane. In queste condizioni, il Sé materno implode.
L’identità, già messa sotto pressione dall’intensità della trasformazione materna, si dissolve in delirio, angoscia, confusione. Il neonato, in questi casi, non è più percepito come figlio ma come minaccia, parte di sé persecutoria, estensione del dolore interno. Può essere proiettato come il nemico da distruggere per ritrovare una parvenza di pace, o come vittima da “liberare” dal male. In entrambi i casi, si verifica una dissociazione: la madre non è più cosciente dell’irreparabilità dell’atto. La realtà cede il passo a un universo interno invaso da voci, immagini persecutorie, idee deliranti. Questi quadri si collocano nella categoria delle psicosi affettive con esordio perinatale, e implicano spesso una perdita totale del giudizio di realtà, una frammentazione dell’Io, una regressione massiva alle fasi più primitive dello sviluppo. In termini psicodinamici, l’Io materno viene sommerso dalle parti più arcaiche della psiche: angosce di annientamento, fantasie di morte-fusione, aggressività non integrata. La madre non uccide con consapevolezza morale. Agisce come spinta psichica assoluta, nel tentativo disperato e tragico di sopravvivere al proprio dolore. In questi casi, la prevenzione è tutto. Non basta una diagnosi: serve una rete clinica vigile, multidisciplinare, con sostegno psicologico, supporto sociale, valutazioni continue. E serve soprattutto una cultura che riconosca la maternità non come mito idealizzato, ma come fase di enorme vulnerabilità psicologica.
Oggi una bambina è morta. Ma forse, se avessimo ascoltato prima la sofferenza muta della madre, oggi parleremmo di un’altra storia.
Chi cura la mente deve imparare a riconoscere il buio anche quando sembra amore.









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Sono diventata criminologa non per curiosità, ma per necessità.Perché fin da bambina sentivo che il dolore degli altri a...
27/04/2025

Sono diventata criminologa non per curiosità, ma per necessità.
Perché fin da bambina sentivo che il dolore degli altri aveva una voce, anche quando il mondo faceva finta di non udirla.
E io volevo ascoltarla.
La criminologia per me non è solo uno studio, né un mestiere.
È la risposta a una domanda antica che porto dentro:
perché accade il male?
Perché certe vite si spezzano, certe anime si perdono?
Non mi sono mai accontentata di osservare i fatti. Ho voluto attraversarli. Ho voluto capire non solo il gesto, ma il silenzio che lo precede. Non solo il crimine, ma la solitudine, la frattura invisibile che spesso lo genera.
Essere criminologa è, per me, un atto di coraggio e di rispetto.
È guardare il dolore senza voltarsi.
È dare dignità alle storie spezzate, alle domande senza risposta.
Ogni volto, ogni storia, ogni ferita che incontro non è mai solo un caso. È una chiamata alla responsabilità, alla verità, alla cura. Dentro ogni gesto estremo c’è un grido inascoltato.
Dentro ogni crimine, prima ancora che il sangue, c’è un vuoto che nessuno ha saputo colmare.
La mia passione nasce dal desiderio di portare luce in quei luoghi oscuri che gli altri temono.
Non per giudicare, ma per comprendere.
Non per assolvere, ma per dare un senso. Non per raccontare il male, ma per spezzarne, se possibile, la catena. Essere criminologa è scegliere di vedere,
quando sarebbe più facile chiudere gli occhi.
È scegliere di sentire,
quando sarebbe più comodo restare in silenzio.
Ed è quello che ogni giorno, con ogni studio, con ogni caso, con ogni parola scritta o pensata, io continuo a fare.
Non perché sia facile.
Ma perché sento che è giusto.
Perché la mia passione non è altro che questo:
amare la vita anche dove sembra aver fallito.
E continuare a credere che ogni storia meriti di essere ascoltata.
Anche quella più difficile da raccontare.































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  aveva 22 anni. Aveva sogni, progetti, vita. , 23 anni, era il suo ex fidanzato.Un legame finito, come tanti, che avreb...
27/04/2025

aveva 22 anni. Aveva sogni, progetti, vita.
, 23 anni, era il suo ex fidanzato.
Un legame finito, come tanti, che avrebbe dovuto concludersi nella normalità della distanza.
Invece si è concluso nella tragedia. Tre coltellate al collo.
Un corpo chiuso in una valigia.
Una vita cancellata nel tentativo disperato di negare il dolore.
Ma questo non è solo un omicidio.
È il fallimento di un’intera educazione affettiva. E ‘ il segno di una società che insegna a desiderare, ma non a perdere. Che celebra l’amore come diritto, ma non insegna a sopportare il rifiuto. Mark non ha accettato di essere lasciato. Nella sua mente, il rifiuto non era un’esperienza dolorosa ma tollerabile: era un’umiliazione insostenibile, una frattura narcisistica insopportabile.
Quando il Sé fragile, privo di strumenti di regolazione emotiva, viene attraversato dal dolore del rifiuto, il rischio è che la sofferenza si trasformi in distruzione. Uccidere Ilaria non è stato solo togliere una vita.
È stato cercare, inconsciamente, di cancellare la prova del proprio fallimento affettivo.
Di soffocare il vuoto con il silenzio definitivo. Nascondere il corpo in una valigia, depistare, cancellare i profili social: tutto parla della volontà infantile e disperata di far sparire la realtà invece di affrontarla.
Come un bambino che chiude gli occhi per non vedere ciò che lo spaventa.
Ma il dolore psichico non si elimina occultandolo.
Il dolore ignorato diventa mostro.
Il rifiuto non elaborato diventa violenza. La società ha la sua parte di responsabilità.Perché educa all’onnipotenza, ma non insegna il limite. Perché parla di amore romantico, ma tace sulle ferite dell’amore che finisce. Perché stigmatizza la fragilità, invece di riconoscerla come parte dell’essere umano.
In una cultura che premia solo chi vince, chi perde spesso sceglie la distruzione. Non si nasce assassini. Ci si diventa attraversando deserti emotivi, isolati dal linguaggio, mutilati nella capacità di pensare il dolore.e Ilaria non è morta solo per mano di chi non ha saputo amarla nel distacco. È morta anche per il silenzio che circonda da sempre la salute mentale. Per l’assenza di educazione emotiva. Per la paura di nominare il disagio.
Questo omicidio non è un incidente isolato.
È un monito.
È il volto tragico di una società che deve scegliere:
continuare a ignorare il disagio o imparare finalmente a riconoscerlo.



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La   Leonarda Cianciulli non è una figura criminale qualunque. Il suo nome è indissolubilmente legato a un’immagine dist...
25/04/2025

La
Leonarda Cianciulli non è una figura criminale qualunque. Il suo nome è indissolubilmente legato a un’immagine disturbante e quasi grottesca: quella della madre che, tra il 1939 e il 1940, uccide tre donne e ne utilizza i corpi per farne sapone e dolci. Ma ridurre la sua storia a una macabra cronaca nera sarebbe limitante. Per comprenderla davvero è necessario inoltrarsi nelle pieghe profonde della sua psiche, dove superstizione, delirio, narcisismo e desiderio di controllo si fondono in un’identità disturbata e narcisistica.
Leonarda nasce a Montella nel 1893. L’infanzia è segnata da dolore, rifiuto e stigma: concepita da una madre che la detestava, frutto di uno stupro subito da parte dell’uomo che poi sarebbe diventato suo marito. Questo elemento è cruciale: fin dalla nascita, Leonarda è oggetto di un’investitura negativa, percepita come “bambina maledetta”, e questo messaggio viene da lei interiorizzato profondamente.
Dopo un’adolescenza segnata da tentativi di suicidio e lutti, si sposa contro il volere della madre. Da lì in poi, la sua vita sembra scandita da una serie impressionante di perdite: numerosi figli nati morti o morti in tenerissima età , probabilmente 17. Queste esperienze configurano un vero e proprio trauma cumulativo, in cui ogni perdita sembra riattivare e sommare tutte le precedenti, consolidando un’identità profondamente paranoide e superstiziosa.
A livello strutturale, il suo funzionamento psichico mostra tratti borderline e narcisistici, con momenti di delirio sistematizzato a sfondo magico-religioso. Leonarda sviluppa un pensiero onnipotente: si convince che il sacrificio umano possa placare il destino e salvare l’unico figlio superstite, Giuseppe, che adora in modo assoluto. In questo rapporto madre-figlio si manifesta la matrice più profonda del suo agito criminale.
Nella mente di Leonarda, le tre donne uccise ,Faustina Setti, Francesca Soavi, e Virginia Cacioppo ,non sono semplicemente vittime: diventano offerte sacrificali, strumenti rituali per proteggere il figlio. La logica è delirante, ma perfettamente coerente all’interno del suo sistema mentale. L’omicidio non è un atto impulsivo, ma pianificato e ritualizzato, con una finalità magico-simbolica.
La trasformazione dei corpi in sapone e dolci, spesso interpretata come gesto di macabra teatralità, può invece essere letta come una forma perversa di rimozione e controllo: “trasformare” il corpo è un modo per negarne la morte, per renderlo altro, manipolabile, meno terrificante. È una sublimazione al contrario: non si trasforma l’angoscia in simbolo, ma il corpo reale in oggetto concreto che contiene e placa quell’angosciaa.
Leonarda vive in un mondo dove ogni evento ha una spiegazione simbolica, spesso legata a riti, profezie, letture di mano, maledizioni. In questo senso, la superstizione non è solo un tratto culturale: è un meccanismo difensivo strutturale, che le consente di attribuire senso e controllo a un’esistenza altrimenti caotica e dolorosa.
In psicoanalisi potremmo parlare di un delirio protettivo, in cui la costruzione fantasmatica (uccido per salvare) ha la funzione di proteggere il Sé da un crollo psicotico. Uccidere, per Leonarda, non è un atto di sadismo, ma un gesto “sacro”, in cui la violenza è giustificata da una narrazione che le consente di non soccombere alla perdita.
Tutta la vita di Leonarda ruota intorno alla maternità. Il figlio superstite, Giuseppe, è investito di un valore assoluto, quasi divino. In lui si raccoglie tutta la sua narrazione identitaria. La sua sopravvivenza diventa l’unico obiettivo esistenziale. Non è più solo una madre: è una madre-sacerdotessa, disposta a tutto pur di preservare il figlio dalla morte. In questa dinamica si delinea una identificazione narcisistica totale con il figlio, che assume funzione di prolungamento del proprio Sé grandioso.
Il sacrificio delle tre donne diventa così un atto di amore estremo e distorto, che rivela però la centralità assoluta del proprio vissuto: non si uccide per l’altro, ma per mantenere intatta l’illusione del controllo. In questo senso, Leonarda incarna la madre arcaica divorante, che non riconosce l’altro come soggetto, ma solo come oggetto da usare o annientare.
Leonarda Cianciulli rappresenta un caso clinico di grande interesse, in cui si intrecciano tratti nevrotici, elementi psicotici e difese primitive. Il suo gesto è criminale, ma non semplicemente “folle”: è l’espressione di una struttura psichica organizzata intorno al trauma, alla perdita, alla superstizione come meccanismo di sopravvivenza.
Nel suo racconto in carcere e nella sua autobiografia (“Confessioni di un’anima amareggiata”, scritta nel manicomio giudiziario di Aversa), Leonarda non esprime mai vero rimorso. Il suo linguaggio resta lucido, controllato, privo di scissioni manifeste. Questo dato conferma l’ipotesi di una personalità disturbata ma non delirante in senso psicotico, capace di costruire una narrativa coerente, pur partendo da presupposti completamente distorti.
Il caso della saponificatrice, dunque, non è solo materia da cronaca nera, ma anche da riflessione profonda sul potere distruttivo della perdita non elaborata, sull’onnipotenza narcisistica e sulla maternità come potenziale zona d’ombra, quando viene abitata dal dolore, dalla scissione e dalla paura.













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Antonietta Gargiulo non rappresenta semplicemente una sopravvissuta alla violenza. La sua vicenda, nel suo dolore assolu...
24/04/2025

Antonietta Gargiulo non rappresenta semplicemente una sopravvissuta alla violenza. La sua vicenda, nel suo dolore assoluto, si pone come caso paradigmatico della disintegrazione psichica provocata da un trauma estremo, e al tempo stesso come possibilità di elaborazione e sublimazione di ciò che, per natura, è quasi impossibile da pensare. Il 28 febbraio 2018 non è una data che riguarda solo la cronaca. È il punto di frattura psichica, il momento in cui l’Io viene costretto a confrontarsi con un reale privo di forma, un reale lacaniano che irrompe con tale forza da disorganizzare ogni ordine simbolico.
Antonietta uscì di casa come ogni giorno. Ma quel giorno, il tempo si spaccò. E con esso, anche l’identità. In quel garage, ad attenderla, c’era colui che non era più semplicemente il padre delle sue figlie, ma un oggetto d’amore trasformato in persecutore. È qui che prende corpo un concetto chiave: la scissione dell’oggetto, in cui l’altro ,amato e odiato, non è più conciliabile in un’unità psichica. L’ex compagno la colpì con tre colpi d’arma da fuoco. Non per uccidere immediatamente, ma per infliggerle la più crudele delle pene: sopravvivere alla morte delle figlie.
Martina e Alessia, uccise nel sonno e nella veglia, rappresentano, dal punto di vista psicoanalitico, l’oggetto d’amore primario. Per una madre, i figli non sono solo parte della realtà esterna: sono elementi centrali del Sé narcisistico, prolungamenti identitari e affettivi. In termini freudiani, l’uccisione delle figlie si configura come castrazione estrema del desiderio materno, una mutilazione simbolica del senso della propria esistenza. Qui non è il corpo materno a essere colpito: è la funzione stessa della maternità a essere violata e annientata.
Dopo otto giorni di coma, Antonietta si risveglia. Ma non si risveglia più come soggetto unitario. È entrata nel territorio del sé infranto, in cui l’identità si smarrisce tra l’evento traumatico e l’impossibilità di rappresentarlo. Freud, nella sua teoria sul lutto e la melanconia, ci offre una chiave interpretativa potente: laddove il lutto consente un distacco graduale dall’oggetto perduto, la melanconia trattiene l’oggetto dentro di sé, fino a farlo coincidere con l’Io. In Antonietta si manifesta questo secondo movimento, ma non in forma patologica: l’identificazione con le figlie non è un sintomo, bensì un primo appiglio simbolico per non cadere nel nulla.
Questa presenza interna delle figlie , percepita come voce, come intuizione, come “chiamata a vivere” può essere letta alla luce del pensiero diWinnicott. Le bambine, divenute assenti nella realtà esterna, si trasformano in oggetti transizionali adulti: presenze psichiche che permettono il mantenimento del legame affettivo e l’avvio di una rielaborazione del trauma. Non si tratta di un’allucinazione, ma di una forma altamente simbolica della sopravvivenza psichica: l’illusione creativa del soggetto ferito che inizia a ricostruire il mondo interno.
È a partire da questo punto che Antonietta dà avvio a una vera e propria elaborazione post-traumatica attiva. In opposizione alla rimozione (Freud), alla dissociazione (Janet), o al congelamento dell’affetto (Ferenczi), la sua psiche sceglie la strada più faticosa e insieme più trasformativa: la sublimazione del dolore in parola. Antonietta trasforma il silenzio in testimonianza, l’assenza in memoria viva, il trauma in impegno. La sua resilienza ,che non è adattamento passivo ma resistenza affettiva , si configura come una riscrittura simbolica del reale.
In questo processo, troviamo un chiaro movimento di spostamento identificativo: non più identificazione con l’aggressore (che tanto spesso si manifesta nelle vittime di violenza), ma identificazione con l’oggetto perduto. Antonietta non incarna l’orrore, ma l’amore. Non interiorizza la distruttività, ma la trasforma. È un passaggio clinicamente raro, che possiamo comprendere anche alla luce del pensiero di Julia Kristeva: la madre che elabora il lutto non è colei che dimentica, ma colei che crea nuova significazione a partire dalla perdita.Così, Antonietta si fa madre una seconda volta: non più madre biologica, ma madre della memoria, madre delle parole, madre simbolica per chi non ha potuto salvarsi. Non nega il trauma, non lo sublima interamente. Ma lo attraversa, come si attraversa un deserto, lasciando dietro di sé tracce fertili.
Nel suo cammino, Antonietta compie il gesto psicoanaliticamente più potente che esista: trasforma il reale non simbolizzabile in narrazione condivisa, costruendo uno spazio psichico collettivo in cui il dolore non si ripete in modo cieco, ma si rielabora, si riconosce, si sublima.
Oggi, il suo nome è inciso non solo nella memoria sociale, ma in quella clinica. È il simbolo di una soggettività che ha resistito alla distruzione dell’Io, e che ha trovato nell’amore per le figlie la spinta per tornare a essere soggetto parlante. E in quel parlare, in quel testimoniare, in quel ricordare, ha fatto dell’indicibile un discorso possibile.
Cone direbbe il mio maestro Lacan : “ciò che non può essere detto, deve comunque essere ascoltato.”
E Antonietta, con la sua voce, ci costringe ad ascoltare. A pensare. A non dimenticare.








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A cosa serve un ragazzo che prende tutti 10, se davanti alle lacrime silenziose di un compagno continua a fissare uno sc...
22/03/2025

A cosa serve un ragazzo che prende tutti 10, se davanti alle lacrime silenziose di un compagno continua a fissare uno schermo, incapace di alzare lo sguardo? Se padroneggia ogni formula, ogni codice, ogni algoritmo, ma non sa riconoscere il tremolio di una voce, il peso di un silenzio, il bisogno di una carezza? Se sa scrivere un’equazione impeccabile, ma non trova il coraggio o le parole per dire: “Come stai davvero?”
Stiamo crescendo generazioni iper-performanti, ma emotivamente fragili. Brillanti sulla carta, ma spesso confuse di fronte alle sfide più profonde della vita. Inseguiamo la prestazione, l’eccellenza, il successo a ogni costo. Li riempiamo di lezioni, certificazioni, strumenti per vincere nel mondo. Ma dimentichiamo, troppo spesso, di insegnare loro a stare nel mondo. A starci con gentilezza. A sentire, ascoltare, accogliere.
Sanno tutto di tecnologia, ma poco delle relazioni. Si muovono con destrezza nei labirinti digitali, ma si smarriscono nei meandri delle emozioni. Sono connessi con il mondo intero, ma disconnessi da sé stessi e dagli altri.
Eppure, prima di diventare brillanti, dovrebbero imparare a essere umani. Prima di essere leader, medici, ingegneri, consulenti, dovrebbero essere capaci di empatia. Perché non esiste vera intelligenza senza cuore. Non esiste futuro senza relazioni vere.
La scuola, la famiglia, la società tutta hanno il compito,e la responsabilità di educare non solo menti lucide, ma anche anime aperte. Di allenare i giovani alla bellezza della fragilità, al valore dell’ascolto, al potere trasformativo di un gesto gentile.
Perché la vera eccellenza non è quella che accumula riconoscimenti, ma quella che riconosce l’altro. Non quella che trova la risposta giusta, ma quella che sa fare la domanda necessaria.
E la vera intelligenza , quella che ci salverà, non sarà mai solo artificiale. Sarà emotiva. Sarà relazionale. Sarà quella che, di fronte a un dolore, non clicca “ignora”, ma sceglie di restare. Con il cuore, non con un link.

C’è chi costruisce muri, chi indossa corazze, chi si blinda dietro l’arroganza di un’identità performante, plasmata su a...
20/02/2025

C’è chi costruisce muri, chi indossa corazze, chi si blinda dietro l’arroganza di un’identità performante, plasmata su aspettative e riconoscimenti esterni. E poi c’è chi si spoglia. Chi si lascia attraversare dalla vita senza paura di mostrarsi fragile. Perché la vera forza sta lì, nella capacità di esistere senza bisogno di dimostrare nulla.
Lo vedi e ti colpisce subito. Il corpo esile, quasi evanescente, sembra sfidare la gravità, eppure è ben piantato a terra. Non è debolezza, è essenzialità. Il superfluo è stato eliminato, la sua presenza è pura, diretta, disarmante. Si dipinge il viso di bianco e gli occhi di nero, quasi a marcare un confine tra il sé e il mondo. Forse una maschera, forse una protezione. O forse solo un modo per dire: non voglio fare la guerra, non mi interessa vincere. La sua musica è un antidoto alla società dell’iper-produttività, dell’ansia da prestazione, dell’efficienza a tutti i costi. Viviamo immersi in una cultura che premia la resistenza, che celebra la fatica come un valore, che misura il successo in base alla capacità di sacrificare sé stessi sull’altare della performance. Siamo stanchi, frustrati, insoddisfatti. Corriamo su una ruota che non porta da nessuna parte, senza sapere per chi, per cosa. E soprattutto: per quale motivo.
Ma lui no. Lui si è fermato. Ha scelto di non stare al gioco, di non farsi schiacciare dal peso delle aspettative, di non vivere secondo un copione scritto da altri. Ha capito che il vero atto di ribellione non è resistere, ma lasciarsi andare. Non è dimostrare, ma essere.
E la fragilità? La paura? Ci sono. Come in tutti noi. Solo che lui non le nasconde. Lui le lascia esistere, le trasforma in suono, in parole, in storie. Perché la vera autenticità non è la perfezione, ma l’imperfezione abbracciata.
Nel mondo di chi si prende troppo sul serio, di chi si misura in ore lavorate, in obiettivi raggiunti, in produttività sfrenata, lui ha cantato con Topo Gigio. Ha ricordato a milioni di persone che la vita non è solo correre, dimostrare, accumulare. È fermarsi. Guardarsi intorno. Inciampare. Accorgersi che sotto quel sasso sta nascendo un fiore.

https://www.barbarafunaropsicologa.it/paura-psicoterapia-milano.html

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