Marcello Florita Psicoterapeuta

Marcello Florita Psicoterapeuta Psicologo, Psicoterapeuta Psicoanalista relazionale, riceve a Milano in zona Missori e Conciliazione

Sono uno Psicologo e Psicoterapeuta ad indirizzo analitico relazionale. Autore di numerosi pubblicazioni scientifiche internazionale e nazionale, e di due saggi sulla psicoanalisi ("L'intreccio" e "Alice, il porcospino e il fenicottero"). Svolgo principalmente l'attività libero professionale in vari studi e sono consulente dell'Ospedale San Raffaele. Visita il mio sito per visionare il mio CV e ra

ccogliere altre informazioni. http://www.marcelloflorita.it/Psicologo_Milano/Psicologo_Milano_Curriculum.html

Così riflettevo, e il Padiglione d'oro mi sembrava un elegante vascello sul mare del tempo. (...) Oltre il sentiero di g...
29/07/2025

Così riflettevo, e il Padiglione d'oro mi sembrava un elegante vascello sul mare del tempo. (...) Oltre il sentiero di ghiaia scorreva un canale d'acqua chiara, e bianche ninfee vi scivolavano silenziose. (...) Fra la fresca verzura, le tegole del tetto del tempio risplendevano come se sopra all'edificio fosse posato, aperto, un gigantesco libro rilegato. Che mai poteva significare la guerra in quel momento? In certi luoghi, in certi attimi mi sembrava che la fosse un oscuro incidente immaginario esistente soltanto nella coscienza degli uomini.
("Il padiglione d'oro" di Yukio Mishima)

Leggendo degli attacchi a Gaza, delle bombe a grappolo dell'Iran, delle guerre in Yemen ho avuto la medesima sensazione. Quando siamo di fronte alla bellezza di ciò che ci circonda, la guerra sembra veramente un'incidente lontano dai luoghi e dal tempo. Un'incidente non casuale perché forse intimamente radicato nell'animo umano. Certo, ci sono gli interessi economici, ma poi cos'altro. Torniamo al romanzo. Il Padiglione d’oro, cioè il tempio Kinkaku-ji a Kyoto, uno dei simboli del , è stato incendiato da un monaco il 2 luglio 1950. Il fine era distruggerlo, disintegrarlo. Il romanzo di galleggia sapientemente tra un fatto reale e il mondo interno del famoso monaco.
Forse c'è una relazione tra la e la guerra? Di primo acchito sembrano due estremi opposti, ma chissà non siano legati da un filo invisibile che li collega.
La bellezza può essere qualcosa che ci rimanda alle nostre imperfezioni, ai nostri limiti. Il monaco, nella storia di Mishina, è balbuziente e socialmente impacciato. La sua percezione d'infermità lo rende incapace di vivere con naturalezza i rapporti con gli altri e di esprimersi: ciò che è semplice per gli altri (parlare, amare, desiderare) per lui diventa un tormento. Ogni volta che si confronta con la bellezza (del Padiglione), questa sua inadeguatezza diventa più evidente e dolorosa.
-ji Foto di Marcello Florita.

Vi segnalo un evento sulla    dove interverrò.🎬   all’aperto di mare📅 Martedì 1 luglio, piazza Cenni di Cambiamento🎥 Pro...
27/06/2025

Vi segnalo un evento sulla dove interverrò.
🎬 all’aperto di mare

📅 Martedì 1 luglio, piazza Cenni di Cambiamento
🎥 Proiezione: “Papà ha brucato i biscotti” di Jeffrey Zani

Diventato padre, Jeffrey scivola in un’inattesa spirale di crisi e si sente senza vie d’uscita: reagisce prendendo in mano la telecamera e realizzando un video diario personale come tentativo di auto terapia.

Marcello Florita, psicoanalista SIPRe e autore del romanzo “Come respira una piuma” sulla paternità in condizioni complesse.

🕤 Ore 20:45 – Presentazione del film
A cura di Germogli Urbani, un progetto nato dalla collaborazione tra SIPRe Milano e Psicologo al Parco, per coltivare benessere psicologico e relazioni nei contesti urbani.

🎧 A seguire, proiezione del film in cuffia.

🎟️ Biglietto online €5 (+ prevendita €1) oppure in cassa la sera dell’evento a €5
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Vi aspettiamo!
Corso di Psicologia e Neuropsicologia Perinatale
SIPRe - Società Italiana Psicoanalisi della Relazione

Camilla è un’infermiera, anzi una sarta.Qualche settimana fa eravamo nelle Terapia Intensiva Neonatale dell'ospedale San...
13/06/2025

Camilla è un’infermiera, anzi una sarta.
Qualche settimana fa eravamo nelle Terapia Intensiva Neonatale dell'ospedale Sant'Anna di Torino. Siamo passati tra i reparti, osservato bimbi nati prematuri, sgualciti accucciati dentro incubatrici. Li abbiamo visti respirare affannosamente, muoversi impercettibilmente e attivare allarmi. Tra le varie attività abbiamo anche assistito alla stimolazione del cavo orale. Camilla è l'infermiera che ce l'ha mostrata. Compito: inumidire un cottonfioc con il latte di mamma, farlo annusare e strofinarlo sulle labbra della piccola Anna. Voi direte, cosa c'è di interessante in questa terapia? La terapia ha l'obiettivo di promuovere la maturazione del cavo orale e allenare alla suzione, ma il punto non è cosa fa, ma COME Camilla lo fa. Curva sull'incubatrice parla con una voce sottilissima e calda preparando Anna ad ogni momento. "Anna sei pronta?", "Anna ora assaggerai il latte di mamma", "stanca?", "Anna grazie per averci provato". Anna si stanca, gira impercettibilmente la testa, Camilla la ringrazia. Difficile parlare ad un bambino di meno di un chilo che, apparentemente, non dà risposte, che, apparentemente, non sembra un bambino. Lei no, lo guarda e ci parla con un rispetto, una cura commuovente. E poi ci sono le sue azioni. Sfiorare il labbro minuscolo con un bastoncino cotonato al ritmo di un bimbo pretermine è un'impresa; non per lei. Tutto lento, morbido, etereo. Sembra non spostare aria, ma muoversi al suo ritmo. Sembra seguire la trama di Anna, quasi immobile, evanescente. Non uno spigolo, non un gesto oltre. Ogni singola mossa sussisteva di per se stessa: come una cerimonia. Una celebrazione dell'incontro. Vederla chinarsi e alzarsi, e riavvicinarci lentamente, per poi distanziarsi per lasciar riposare Anna, mi ha fatto pensare ad una sarta.
Il padre, un po' più in là, la osserva. Noi come lui. Non vediamo più l'incubatrice o una bimba minuscola inerme, ma, osserviamo una bimba, viva e reattiva, ricamata dalle mani sapienti di Camilla. Un ricamo che la lega al mondo. Ogni sarta è un po' una visionaria, vede l'abito prima degli altri, e lo vede nella sua straordinarietà quando, agli occhi di noi pragmatici, sembra solo un tessuto inerme con qualche brandello di filo cadente. Non sta facendo una terapia, sta celebrando la vita (di Anna) nel rispetto e nell'ascolto di come è.
Camilla è una sarta, cuce vite con il filo invisibile della relazione.
(Un ringraziamento speciale a tutti gli operatori dell’ospedale Sant’Anna di Torino)
AOU Città della Salute e della Scienza di Torino

La maternità è anche la semplicebastevolezza dell'esserci una cosa che è tutte le cose.(«il lavoro di una vita» R.Cusk)B...
11/05/2025

La maternità è anche la semplice
bastevolezza dell'esserci
una cosa che è tutte le cose.
(«il lavoro di una vita» R.Cusk)

Buona festa della Mamma!

- Per me, - disse, - Chibi è una buona amica a forma di gatto! Mi parlò della massima di un filosofo, il quale sosteneva...
02/05/2025

- Per me, - disse, - Chibi è una buona amica a forma di gatto! Mi parlò della massima di un filosofo, il quale sosteneva che l'osservazione è il fulcro dell'amore che non scade nel sentimentalismo. Mi disse anche che ogni tanto annotava su un quadernone i giorni passati con Chibi.
(“Il gatto venuto dal cielo” di H.Takashi)

Cosa sia l’amore è da sempre un affare controverso. Che sia complesso e diverso per ognuno sono due considerazioni facilmente condivisibili. Takashi sottolinea un’altra qualità del buon amore, quella di saper osservare. Non cercare un specchio che ci dia un valore, come spesso accade nella nostra società, ma trattare l’altro come altro da se’ da conoscere e’ una forma profonda d’amore. Questo vale per i nostri figli, ma anche per il partner. Osservare, annotare, incuriosirsi dell’altro e, naturalmente, osservare anche ciò che l’altro muove in noi. L’altro sul quale investiamo ci fa uscire dallo sfondo, e ci rende meno scontati, nel bene e nel male. L’amore è una potente lente che ci permette di coglierci e osservarci in ciò che siamo tramite il nostro reagire al cospetto dell’altro.


Foto di Marcello Florita

Bambini con divise codificate, zaini identici e pettinature omologate. La cultura dell’infanzia in Giappone è un campo a...
28/04/2025

Bambini con divise codificate, zaini identici e pettinature omologate. La cultura dell’infanzia in Giappone è un campo affascinante in antropologia, perché intreccia valori tradizionali, ideologie educative moderne e pratiche quotidiane. A differenza del mondo occidentale, dove l’infanzia è contemplata come un momento di costruzione della propria identità come individuo indipendente e a sé stante, in Giappone l’infanzia è vista come un periodo cruciale per imparare a stare nel gruppo (shūdan seikatsu - vita collettiva). Le scuole materne e primarie puntano fortemente sulla coesione, sulla cura degli altri, sull’ordine e sulla cooperazione. Per esempio, nelle scuole si educa a coalizzarsi e a collaborare per pulire gli ambienti e tenerli in ordine (i bimbi puliscono i pavimenti, o riassettano le aree comuni). Più che l’individualismo o la creatività (valori più tipici dell’educazione occidentale), si valorizza la disciplina interna e il senso del “noi”. Questo riflette un modello culturale relazionale dell’identità, dove il bambino “diventa persona” in quanto PARTE del gruppo, non per affermazione individuale. Le scuole giapponesi (fin da quelle per l’infanzia) curano aspetti che altrove sono gestiti a casa. I bambini puliscono la scuola da soli, gestiscono il pranzo, prendono responsabilità collettive. Questo rafforza l’idea che la scuola è una micro-comunità, con regole proprie, che educa alla cittadinanza. Alcuni antropologi (M.White) notano che questo sistema instilla una moralità sociale “dal basso”, basata sull’esperienza quotidiana più che su punizioni esterne. Si può dunque dire che c’è una distinzione interessante: l’autonomia non è libertà individuale assoluta, ma è resa possibile da un sistema collettivo e prevedibile. È autonomia “in rete”. E qui parte la nostra riflessione. Sebbene i giapponesi abbiano categorie di pensiero diverse, si può dire che esse siano patologiche? Quanto delle nostre teorie dello sviluppo sono legate a fattori culturali? Quanto i fattori culturali influenzano i costrutti delle ricerche scientifiche in questo ambito? Soprattutto in una società come la nostra, il nostro compito, da professionisti del settore, e di essere molto attenti a non universalizzare le teorie altrimenti si rischia di appiattire il concetto di diversità con quello di patologia.
Foto di Marcello Florita

Vi assicuro che non passa inosservata la testa di un enorme Godzilla che imperioso spadroneggia i grattacieli di Tokyo. ...
23/04/2025

Vi assicuro che non passa inosservata la testa di un enorme Godzilla che imperioso spadroneggia i grattacieli di Tokyo. Sembra l’ennesima trovata del Giappone dalle tinte fumettistiche, ma in questo caso bisogna andare oltre, e coglierne un senso profondo e psicologico.
Primo fatto. il Giappone, come tutti sapete, è ha subito 2 attacchi da bombe nucleari a Hiroshima e Nagasaki.
Secondo fatto. Dopo i bombardamenti, il Giappone è stato sconfitto e occupato dagli Stati Uniti per 7 lunghi anni, nei quali gli USA hanno imposto una importante censura.
Terzo fatto. Nell’atollo Bikini (in acque sicure) gli Usa svolgono un esperimento atomico con una bomba nucleare 1000 volte più potente di quelle sganciate sul Giappone. “Lucky Dragon N°5” è il nome del peschereccio investito dalla nube atomica ed è a 160km di distanza. Dei 23 pescatori uno muore dopo poco per le radiazioni.
Da qui nasce Godzilla. La censura Usa, unita al trauma del nucleare non hanno permesso al popolo giapponese di mettere in parole il trauma del nucleare. Mancavano parole, alcune venivano prese dall’infanzia, come DON (fragore), e la società si è vista negare dalla censura la possibilità di rifletterci, dialogare. I giapponesi non hanno avuto la forza elaborativa per decifrare questo trauma collettivo.
Godzilla nasce da qui. Non è un semplice mostro, ma il mostro nel trauma inaffrontabile. Nasce dalla necessità di decifrare il nucleare e le paure di annichilamento totale. Non c’è possibilità di elaborazione senza l’opportunità di parola e confronto. Godzilla ci ricorda questo.
Nel 1954, mesi dopo l’esperimento USA, esce il film Godzilla di Honda Ishiro e finalmente il Giappone mette in immagini e parole il trauma del mostro potente e distruttivo, che ha annichilito e devastato i giapponesi. Tutti pensano ad un bel film, alla solita lotta tra bene e male. Godzilla sul grattacielo non è un manga, è l’emblema di ciò che disse in radio una donne che p***e i genitori per il nucleare: “non lasciare che le mie lacrime siano la fine della storia”.
Abbiamo bisogno di pensarle e raccontarle le storie per renderle meno mostruose, per farle finire..

Nella cultura giapponese esistono due termini, honne (本音) e tatemae (建前) , che sono centrali nella comprensione della cu...
21/04/2025

Nella cultura giapponese esistono due termini, honne (本音) e tatemae (建前) , che sono centrali nella comprensione della cultura giapponese, e della loro storia e che ci raccontano qualcosa del nostro funzionamento. Honne : indica i veri sentimenti, le opinioni personali autentiche che una persona può tenere per sé o condividere solo con chi ha un rapporto stretto. Tatemae: è il “fronte” ufficiale, cioè il comportamento esterno e le opinioni espresse pubblicamente, spesso dettati dalle aspettative sociali, dalla cortesia e dalla necessità di mantenere l’armonia. Tatemae nasce come strumento per evitare conflitti, salvare la “faccia” altrui (concetto di “kao”) e mantenere una convivenza pacifica. Naturalmente questa è solo una delle derivazioni del collettivismo sfrenato dei giapponesi, dove l’armonia del gruppo deve prevalere sul singolo, al contrario di ciò che avviene nelle società individualisistiche occidentali.

Non a caso anche nella comunicazione, i giapponesi tendono ad essere indiretti, con sfumature, pause e sottintesi al fine di evitare lo scontro.

Eppure i giapponesi nascono come un popolo tutto fuorchè pacifico. Fino al periodo Edo (1603–1868), il Giappone era segnato da conflitti interni costanti, dominati da clan e dalla casta dei samurai. Dopo l’unificazione sotto Tokugawa Ieyasu,si impose una pace forzata, mantenuta tramite controllo sociale rigido e valori di obbedienza, rispetto e autocontrollo. In un certo senso, l’armonia divenne una necessità politica e fondamentale per la sopravvivenza. Il trauma della II Guerra Mondiale e le devastazioni atomiche sono confluite in una nuova identità nazionale orientata verso la pace e la diplomazia sancite dall’articolo 9 della costituzione con il ripudio della guerra: questo ha influenzato anche la mentalità collettiva, accentuando il desiderio di evitare ogni forma di scontro, anche interpersonale.

Questi valori sono rimasti nel substrato culturale e si sono trasformati, con la modernizzazione, in forme di auto-censura emotiva e repressione del confronto aperto: spade e bombe sono state sostituite da linguaggio ambiguo ,e da honne e tatemae, cioè da estremizzare la distanza tra ciò che si pensa e come ci si comporta.

Anche qui nasce la cultura dei manga e anime: trasformarsi in cartoni animati, cartonati viventi per allontanare gli spettri inconsci della morte e della guerra. Il bisogno di bere per lasciarsi andare è uno degli effetti estremi di questo autocontrollo radicato e profondo. Questa è patologia!? Il sistema vivente si organizza sempre per la sopravvivenza.

Foto dal viaggio in Giappone.

Maternal Gatekeeping: cos’è e perché riguarda anche noiIl termine maternal gatekeeping può essere tradotto in italiano c...
14/04/2025

Maternal Gatekeeping: cos’è e perché riguarda anche noi
Il termine maternal gatekeeping può essere tradotto in italiano come "custodia materna" o, più precisamente, "controllo materno dell’accesso alla genitorialità". Si riferisce a quei comportamenti – spesso inconsapevoli – attraverso cui una madre o gli operatori limitano o valorizzano poco il coinvolgimento del padre nella cura dei figli.
In Italia, negli ultimi decenni, i padri sono diventati sempre più presenti fin dalla nascita: li vediamo in sala parto, nei reparti di neonatologia, nelle file alle vaccinazioni, nei consultori. Non a caso dagli anni 80 in poi, i padri passano il 60% di tempo in più per stare con il proprio figlio. Eppure, la cultura collettiva fatica ancora a riconoscerli come co-protagonisti nella cura dei figli (se ci pensate parlare di centri materno infantili...ne è un esempio lampante al pari dei risicati giorni di congedo per i ).
Spesso vengono ancora considerati dei comprimari, quasi “assistenti” della madre, invece che genitori a pieno titolo. Non è raro che, persino nei contesti sanitari o scolastici, il padre venga guardato con stupore quando è da solo con il neonato, come se fosse un’eccezione invece che una norma. Il maternal gatekeeping è spesso anche negli occhi degli operatori e lavorare sul nostro sguardo appare un obiettivo quanto mai importante. Un effetto di questo è pensare il padre solo come colui che deve occuparsi della madre e dei suoi vissuti, svilendo il coinvolgimento individuale nel rapporto con il bambino e le eventuali sofferenze.
È importante sottolineare che il maternal gatekeeping non è una colpa, ma spesso il riflesso di una cultura che continua a rappresentare la madre come caregiver esclusiva, con l'effetto di una eccessiva responsabilizzazione della donna e uno svilimento dei vissuti paterni. Per cambiare questa narrazione, serve che anche le istituzioni – dalla sanità alla scuola – inizino a rivolgersi davvero a entrambi i genitori, e non solo alla madre. NOI OPERATORI dobbiamo e possiamo fare tantissimo, il nostro sguardo inclusivo e attento può avere un effetto enorme, nel coinvolgere, valorizzare e accogliere i padri e la cogenitorialità, che una risorsa centrale nelle famiglie nucleari (con le sole coppie) moderne.
La genitorialità è una danza a due, e solo se entrambi possono danzare senza ostacoli, il bambino potrà crescere con equilibrio.
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La solitudine è questa situazione un po' br**ta, un po' ridicola, un po' aggressiva di un uomo seduto al tavolo di un ri...
04/04/2025

La solitudine è questa situazione un po' br**ta, un po' ridicola, un po' aggressiva di un uomo seduto al tavolo di un ristorante turistico: l'immagine di una persona incompleta, tanto goffa da sembrare stupida o arrogante. Leo deve incominciare a difendere questa sua solitudine. Non deve permettere che gli altri lo vedano come un atomo dalle valenze aperte, come qualcuno immiserito dalla mancanza di un compagno, di un amico, di un amore. La solitudine è anche scomodità.
(...)
Nei ristoranti è pressato dalla gente in coda solo perché gli altri sono in due e lui, solo, sta occupando un piccolo tavolo. Negli alberghi le camere singole sono, in genere, le più strette e le più piccole: i sottotetti o le mansardine della servitù. E per giunta c'è sempre un supplemento da pagare.
La solitudine impietosisce gli altri. A volte lui sente lo sguardo indiscreto della gente posato sulla sua figura come un gesto di una violenza inaudita. Come se gli altri lo pensassero cieco e gli si accostassero per fargli attraversare la strada. Certe premure lo offendono più dell'indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice. Si vede come un lato del corpo sanguinante, una cicatrice aperta dalla quale è stata separata l'altra metà.
("Camere separate" di Tondelli)

Vi lascio questo spunto di Tondelli sulla solitudine nella nostra società, con una domanda di fondo: è veramente il qualcuno-cosa che ci manca a non renderci felici?

Il pensiero rigido e inscatolato è inutile, soprattutto nei momenti di emergenza, mentre proprio di fronte a momenti dov...
02/04/2025

Il pensiero rigido e inscatolato è inutile, soprattutto nei momenti di emergenza, mentre proprio di fronte a momenti dove ci sono grandi sfide professionali ed etiche (come in epoca COVID) sono fondamentali competenza, CREATIVITA’ e coraggio.
“Credo che sia molto utile chiederci cosa significa per noi diventare genitori” di S.
Parto da queste due premesse (la prima citando un articolo scientifico che mette a fuoco le competenze necessarie nei momenti di emergenza-crisi, e la seconda è una riflessione di una giovane studentessa) per mettere a fuoco due elementi fondamentali di un professionista che lavora con le persone: conoscere se stessi e la creatività.

Sono molto contento di avere iniziato questa nuova avventura in Università con una classe coraggiosa e generosa che fin da subito si è messa in gioco, capendo il valore del riflettere su di sé. Ascoltarsi per aiuta ad uscire da scatole interne e , e dunque promuovere la possibilità di essere creativi nella cura dell’altro. Iniziare il ciclo di docenze all’università ha proprio l’obiettivo di uscire da qualsiasi contenitore rigido, sia istituzionale che formativo. Significa lasciare il banco e diventare protagonisti della propria formazione.

Insomma solo partendo da sé, leggendosi e ascoltandosi, si può arrivare ad accedere a cogliere l’altro, starci a fianco, e CREARE un modo (ogni volta unico e sartoriale) per migliorare la qualità della sua esperienza.

Ringrazio tutte le future ostetriche per la fiducia!

Sempre di più pensavo all'essere umano che chiamavo padre. Lo avevo sovente di fronte a me, e con lui discorrevo.Soltant...
27/03/2025

Sempre di più pensavo all'essere umano che chiamavo padre. Lo avevo sovente di fronte a me, e con lui discorrevo.
Soltanto dopo la sua morte compresi come, da vivo, si fosse assunto il compito di proteggermi dalla morte. Ma da quando lui era mancato, erano cadute tutte le barriere tra la morte e me, lo spazio era più largo e la visuale più aperta: era ormai inevitabile che io scorgessi l'oceano della morte. (...) Con il suo vivere mi aveva protetto. Non che lui ne fosse consapevole, non era una questione di sollecitudine umana, o di affetto tra genitori e figli, ma il risultato del semplice fatto che si fosse padre e figlio, il senso più genuino di questo rapporto.
("Ricordi di mia madre" di Inoue Yasushi)

In queste settimane ho tenuto diverse formazioni in giro per l'italia (Bergamo, Milano e Roma) e il focus è stato molto spesso il ruolo del e l'importanza di includerlo nella cura della prole. In questo stralcio del romanzo di Inoue Yasushi, l'autore coglie un ruolo simbolico spesso centrale della figura paterna. Non protezione in senso stretto, ma una barriera simbolica tra noi, da figli, e la morte. Una riflessione che condivido con piacere.

Indirizzo

Via Caravaggio N 4
Milan
20144

Orario di apertura

Lunedì 08:30 - 20:45
Martedì 08:30 - 20:45
Mercoledì 08:30 - 20:45
Giovedì 08:30 - 20:45
Venerdì 08:30 - 20:45
Sabato 08:30 - 13:30

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