16/10/2025
Chi segue questa pagina sa che non mi occupo di attualità.
Ma questa bruttissima storia la voglio condividere perché possa nel sua tragicità essere di monito per chiunque.
Un’altra donna che aveva paura di morire e che lo aveva detto, lo aveva ripetuto, lo aveva confidato. Ma nonostante tutto, non è bastato.
Le frasi pronunciate da quell’uomo — “se mi lasci ti ammazzo e ammazzo tua madre” — non sono “sfiati di rabbia”, non sono “minacce a caldo”.
Sono pre-annunci di morte, segnali chiarissimi di una psicopatologia possessiva e predatoria, che troppo spesso viene scambiata per gelosia, o peggio ancora, per amore malato.
In realtà, qui l’amore non c’è mai stato.
C’è controllo, dominio, coercizione, sadismo relazionale.
C’è un soggetto che trasforma la relazione in un campo di prigionia affettiva, che usa la paura come catena, la violenza come linguaggio e la minaccia come unico modo per sentirsi “vivo”.
Le doppie chiavi dell’appartamento, le botte, i tentativi di buttarla dal balcone, il controllo ossessivo: sono segnali inequivocabili di una progressione letale.
Eppure, ancora una volta, la società sembra non aver voluto vedere.
Quando una donna dice “ho paura che mi ammazzi”, quella frase non va mai derubricata a paranoia, a esagerazione, a momento di crisi.
Va presa alla lettera.
Perché troppo spesso — come in questo caso — è l’ultima richiesta di aiuto che ascoltiamo prima del silenzio definitivo.
Pamela Genini non è morta “per amore”.
È stata uccisa da un uomo che confondeva l’amore con il possesso, la frustrazione con il diritto, la rabbia con l’identità.
Ed è tempo di cominciare a chiamare tutto questo per quello che è: violenza di genere, sistemica, reiterata, e prevedibile.
Non è follia improvvisa.
È una logica criminale lucida e coerente, costruita nel tempo, sotto gli occhi di tutti.
E noi, ancora una volta, siamo arrivati troppo tardi.