10/11/2025
A volte non è la curiosità a spingerci a controllare tutto.
È la paura.
La paura che, mentre noi stiamo fermi, gli altri vadano avanti.
Che qualcosa accada e noi restiamo esclusi.
Che la vita scorra altrove, mentre la nostra sembra in pausa.
La FOMO (fear of missing out) non è solo un effetto dei social: è un riflesso antico del cervello, lo stesso che si attiva quando rischiamo l’esclusione dal gruppo.
Per la mente, essere “fuori” significa essere in pericolo.
Ecco perché basta vedere una storia, un messaggio o una notizia per sentire quella scarica sottile, quell’urgenza a esserci, a non mancare, a “sapere tutto”.
È una forma moderna di ipervigilanza relazionale.
Un modo con cui il cervello tenta di proteggersi dal sentirsi irrilevante.
Ma così facendo, finisce per alimentare la stessa ferita che teme: quella del non sentirsi mai abbastanza.
Il paradosso della FOMO è che nasce dal bisogno di connessione, ma genera distanza.
Più cerchiamo di esserci ovunque, meno siamo presenti davvero.
La mente si frammenta, il corpo resta teso, la calma diventa un’esperienza rara.
Imparare a tollerare di “non esserci” è un passo di maturità emotiva.
Significa fidarsi che la propria vita non si misura da ciò che si perde, ma da ciò che si sceglie di abitare.
Che il valore non si costruisce nell’esserci sempre, ma nel saper restare dove ha senso stare.
Essere fuori da qualcosa non è sempre una perdita.
A volte è il segno che si sta imparando a esserci, finalmente, per sé.