Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano

Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano Studio di Psicoterapia Milano

Sono una psicologa - psicoterapeuta impegnata in una cultura del benessere accessibile a tutti e che aiuti i cittadini a riconoscere l'importanza del prendersi cura di sé anche in termini preventivi.

Psicoanalisi e EMDR: due visioni, un possibile dialogo(contenuto per addetti ai lavori)La psicoanalisi tradizionale e l’...
02/08/2025

Psicoanalisi e EMDR: due visioni, un possibile dialogo
(contenuto per addetti ai lavori)

La psicoanalisi tradizionale e l’EMDR sembrano, a prima vista, parlare due lingue diverse. La prima si muove nel territorio dell’inconscio simbolico, lascia che il soggetto emerga nella parola, con un terapeuta che aspetta il suo ritmo e non dirige alcuna traiettoria. La seconda lavora su protocolli strutturati, su reti neurali e memorie disfunzionali, con un impianto clinico più definito e apparentemente più previsionale.

Eppure, al di là delle differenze, esiste un possibile spazio di integrazione. L’EMDR può essere letto non solo come tecnica, ma come cornice terapeutica che, se ben compresa, permette una profonda rielaborazione dell’esperienza emotiva – anche laddove la parola, da sola, non basta. La psicoanalisi, dal canto suo, valorizza il tempo simbolico e simbolizza ciò che emerge, pur quando il materiale inconscio appare disturbante.

Aprirsi a questo dialogo non è un tradimento della psicoanalisi. Non si abbandona una cornice teorica, né si cede a una logica dell’efficacia come unico parametro. È piuttosto il riconoscimento che il soggetto è complesso e sfugge a ogni ortodossia. E che, a volte, proprio l’eccessiva coerenza interna di alcuni modelli teorici rischia di diventare autoreferenziale, più fedele a se stessa che al paziente. Non sono pochi i colleghi che, in nome di una coerenza teorica, decidono di non voler nemmeno considerare ciò che non appartiene al loro particolare linguaggio: una difensiva forma di chiusura. Ogni apertura e integrazione è invece una forma rispettabile di intelligenza.

Non si tratta di forzare un’alleanza, ma di riconoscere che il soggetto è complesso e sfugge a ogni ortodossia. E che forse, nel rispetto delle differenze, alcune integrazioni cliniche non solo sono possibili, ma necessarie.

Gianni Liotti e la dissociazione: uno sguardo clinico alle radici del séParlare del pensiero di Gianni Liotti significa ...
01/08/2025

Gianni Liotti e la dissociazione: uno sguardo clinico alle radici del sé

Parlare del pensiero di Gianni Liotti significa confrontarsi con uno dei contributi più profondi e articolati alla comprensione della mente traumatizzata. Psichiatra e psicoterapeuta, Liotti ha dedicato gran parte della sua opera a indagare il legame tra attaccamento, emozioni primarie e sviluppo della coscienza. In particolare, la sua riflessione sulla dissociazione rappresenta un punto di svolta per chi lavora in ambito clinico.

Liotti non intende la dissociazione semplicemente come “un vuoto di memoria” o un sintomo episodico: per lui, si tratta di un vero e proprio meccanismo di organizzazione dell’esperienza soggettiva, che si attiva precocemente in risposta a relazioni affettive percepite come minacciose o incongrue. È in particolare l’attaccamento disorganizzato — quella condizione in cui la figura di accudimento è al tempo stesso fonte di protezione e di pericolo — a porre le basi per una mente che, per sopravvivere, deve scindersi.

La dissociazione, in questo senso, non è un’anomalia della mente, ma una strategia adattiva: il bambino spezza l’esperienza, frammenta gli stati del sé e costruisce rappresentazioni separate, che non possono integrarsi tra loro. Crescendo, queste “parti” restano come tracce dissociative nella coscienza, dando origine a sintomi che vanno ben oltre la semplice dimenticanza: senso di estraneità da sé, automatismi, emozioni che sembrano non appartenere alla propria storia.

Questo tipo di lettura, complessa, ma clinicamente preziosa , mostra quanto la dissociazione sia intrecciata alla storia relazionale, e quanto sia importante riconoscerne i segnali non solo nei grandi traumi, ma anche nelle microfratture dell’attaccamento precoce.

Il linguaggio è forse un po’ tecnico, ma l’intento è divulgativo: offrire uno sguardo su un pensiero che ha cambiato il modo di comprendere la mente traumatizzata.

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Abbandonare il mito della prestazione per cedere all’inciampo
30/07/2025

Abbandonare il mito della prestazione per cedere all’inciampo

Labubu e la logica del desiderioQualche giorno fa mi sono fermata davanti a una fila lunghissima, davanti a un negozio P...
28/07/2025

Labubu e la logica del desiderio
Qualche giorno fa mi sono fermata davanti a una fila lunghissima, davanti a un negozio Pop Mart.
Tutti aspettavano un piccolo pupazzo chiuso in una scatola che non mostra cosa contiene.
Mi ha colpito l’intensità dell’attesa, quasi sacra, come se in quella scatola ci fosse qualcosa di magico, di unico.
E mi sono chiesta: cosa desideriamo davvero quando desideriamo un oggetto così?

Il fascino della mancanza
Il meccanismo della blind box, non sapere cosa troverai , riattiva il desiderio nel suo stato più autentico: quello che nasce dal vuoto e dall’attesa.
In psicoanalisi, il desiderio non riguarda mai l’oggetto in sé, ma il sogno di colmare una mancanza interna.
Labubu non è solo un pupazzetto: è l’illusione di trovare qualcosa di irripetibile, qualcosa che ci faccia sentire davvero speciali.

Il gioco con l’inconscio
Labubu non è “bello” nel senso classico. È strano, quasi disturbante, ma anche tenero.
Questa ambivalenza ci affascina perché ci rimanda a parti di noi che non sappiamo guardare, quelle più contraddittorie e imperfette.
Possederlo è come dire: “Guardo il mio mostro interiore e lo accetto.”

Un rito collettivo
Le code, i video di unboxing, gli scambi online: tutto questo è un rito che crea appartenenza.
Non desideriamo mai solo l’oggetto. Desideriamo essere visti mentre desideriamo.
È il riconoscimento degli altri che trasforma quel pupazzo in un simbolo condiviso.

Forse Labubu ci ricorda che siamo più vivi quando aspettiamo, quando desideriamo qualcosa che non possiamo controllare. Quando apparteniamo.
E forse, senza accorgercene, cerchiamo proprio questo: un modo per sentire di nuovo quella vibrazione del desiderio che da bambini ci sembrava naturale.

Non sempre ci si ammala subito dopo il traumaQuando accade qualcosa di traumatico, l’effetto non è sempre immediato.Molt...
27/07/2025

Non sempre ci si ammala subito dopo il trauma

Quando accade qualcosa di traumatico, l’effetto non è sempre immediato.

Molte persone si aspettano che un trauma si manifesti subito, con sintomi evidenti, reazioni forti, crisi acute. Ma spesso non è così.

Il cervello può mettere in atto meccanismi molto sofisticati per contenere l’impatto: congelamento emotivo, dissociazione, iperfunzionalità, anestesia. Il corpo e la mente vanno avanti, come se nulla fosse accaduto. E per un po’, può funzionare.

Poi, magari anni dopo, qualcosa si incrina. Un evento apparentemente secondario – una perdita, una separazione, una malattia, l’inizio di una terapia – riattiva una memoria che non era mai davvero stata elaborata. E il sistema comincia a cedere.

È allora che emergono sintomi: ansia, panico, disturbi somatici, senso di vuoto, difficoltà nelle relazioni. E spesso la persona si chiede: “Perché adesso?”.

La risposta, a volte, sta proprio lì: nel tempo trascorso.
Il fatto che i sintomi arrivino tardi non rende meno reale ciò che è successo.
Semplicemente, è il momento in cui il sistema non può più tenere tutto dentro.

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L’eredità emotiva” di Galit Atlas: un libro che ci riguarda tutti “Quando il dolore non elaborato delle generazioni prec...
25/07/2025

L’eredità emotiva” di Galit Atlas: un libro che ci riguarda tutti

“Quando il dolore non elaborato delle generazioni precedenti continua a vivere dentro di noi”

C’è una domanda che chi lavora in ambito clinico si pone spesso: quanto di ciò che sentiamo davvero ci appartiene? Quante delle nostre paure, dei nostri silenzi, delle nostre fragilità non sono il frutto di ciò che abbiamo vissuto direttamente, ma l’eco di un dolore che ci è stato trasmesso?

Nel suo libro L’eredità emotiva, la psicoanalista Galit Atlas porta il lettore dentro questa domanda. Con uno stile diretto ma profondo, racconta le storie dei suoi pazienti e intreccia il lavoro clinico con la propria storia personale, mostrando come il passato familiare possa vivere nel corpo e nella mente delle generazioni successive.

Non si tratta solo di memoria, ma di trasmissione emotiva inconscia: eventi non detti, traumi rimossi, segreti, omissioni che attraversano il tempo e si depositano nel mondo interno di figli e nipoti, sotto forma di ansia, senso di colpa, difficoltà relazionali o una sensazione indefinita di “essere fuori posto”.

Atlas parla di “fantasmi” familiari. Non nel senso metaforico, ma come presenze psichiche reali, che chiedono ascolto. Il libro non offre soluzioni rapide, ma un invito a guardare con lucidità e compassione (in senso clinico, non retorico) ciò che ci portiamo dentro e che forse non è nostro.

È un testo che tocca chi è in terapia, chi fa terapia, ma anche chi non ha mai varcato una stanza di analisi. Perché ognuno, prima o poi, si trova a fare i conti con qualcosa che non capisce e che sembra non avere origine nel presente.

Se c’è un’eredità che vale la pena riconoscere, è proprio questa: quella che non si vede, ma si sente. E che solo guardandola negli occhi possiamo smettere di trasmettere.

L’ho consigliato molte volte, in terapia e fuori.
Perché è uno di quei libri che mettono a fuoco ciò che spesso si intuisce ma non si riesce a dire.

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ereditàemotiva

Quando sei psicologa, ma fuori dalla stanza non sei mai nel posto giustoOsservo spesso, nella vita quotidiana, dinamiche...
22/07/2025

Quando sei psicologa, ma fuori dalla stanza non sei mai nel posto giusto

Osservo spesso, nella vita quotidiana, dinamiche interessanti nel modo in cui le persone si rivolgono a chi fa il mio lavoro. Soprattutto quando accade fuori dalla stanza di terapia, in contesti informali, relazionali, apparentemente neutri.

Ti chiedono un parere proprio perché sei psicologa. Ti cercano, ti ascoltano, ti riconoscono (formalmente) come professionista… ma solo finché lo sguardo che offri non si discosta troppo dal loro. Appena introduci complessità, appena non confermi, il riconoscimento si ritira in fretta.

“Parli da psicologa.”
“Questa è teoria, non è la vita vera.”
“Tu non hai figli (se non li hai) certe cose non le puoi capire.”

Tradotto: chi sei per dirlo?

E così, in un attimo, sei troppo professionista per parlare da persona, ma troppo poco esperta come persona per poterti esprimere davvero, perché non hai vissuto quell’esperienza. Una doppia squalifica, attivata nel momento stesso in cui provi a portare uno sguardo diverso.

È la confusione dei ruoli che investe chi fa questo lavoro.

Fuori dal setting, il confine tra ruolo e persona si fa sottile, e lo sguardo dello psicologo viene accolto solo se rassicura, e rifiutato appena mette in moto qualcosa.

Se davvero potesse parlare solo chi ha attraversato ogni esperienza, una professione come la nostra non potrebbe nemmeno esistere. Perché allora non si potrebbe accompagnare chi ha subito una molestia, chi ha perso un figlio o un genitore troppo presto, chi convive con un trauma profondo, chi si sveglia ogni giorno con un’ansia che non sa spiegare. Chi è malato.

Il compito dello psicologo non è identificarsi, non è fondersi con ciò che l’altro vive, e non è, soprattutto, collassare nel ruolo che gli viene proiettato addosso.

La sua funzione è un’altra: stare fuori quanto basta per poter vedere, abbastanza vicino per contenere, abbastanza distante per pensare.
Sono strumenti specifici che si apprendono dopo una lunga formazione.

A volte, prima di chiedere un parere, può essere utile chiedersi che tipo di risposta cerchiamo: un conforto vicino al nostro sentire o uno sguardo che aiuti a spostarlo un po’ più in là. Sapere cosa cerchiamo aiuta chi ascolta a restare nel posto giusto.

È una di quelle domande che non si portano subito in seduta, ma che iniziano a comparire dopo un po’.Quando la terapia s...
22/07/2025

È una di quelle domande che non si portano subito in seduta, ma che iniziano a comparire dopo un po’.
Quando la terapia sembra rallentare, quando non ci sono cambiamenti evidenti, quando si resta con la sensazione di non sapere bene dove si stia andando.

A volte non prende nemmeno la forma di una frase chiara.
È più un’inquietudine, un fastidio sottile, il dubbio che tutto questo non stia servendo davvero.

Non riguarda solo il dolore, ma il modo in cui molte persone sono state abituate a vivere il tempo e il valore delle cose.
Cresciamo in una cultura dove ogni sforzo deve produrre un risultato.
Ogni investimento deve portare qualcosa.
Ogni tempo deve essere utile.

Anche la terapia, a volte, viene guardata così:
sto cambiando abbastanza? ho detto qualcosa di importante? mi sento meglio?

Succede spesso che, a fine seduta, qualcuno chieda: “secondo lei è servito?”
Come se fosse necessario valutare il lavoro fatto, assegnare un senso a quel tempo.
E capita anche che si arrivi in seduta cercando di pensare in anticipo a cosa dire, per rendere l’incontro produttivo, per non “sprecarlo”.

Ma la cura psicologica non funziona con gli stessi criteri.
Non ha una tabella di marcia.
Non si sviluppa “seduta dopo seduta” secondo un piano lineare.
È un processo lento, soggettivo, spesso silenzioso.
A volte i suoi effetti si vedono a distanza, in altri contesti, in momenti inaspettati.
Come se qualcosa lavorasse sotto traccia e riemergesse più avanti, come un attrezzo che si attiva quando serve.

Per chi è abituato a risolvere, a controllare, a non perdere tempo, questo può risultare difficile.
Stare in uno spazio che non offre risposte immediate può generare insicurezza, impazienza, il desiderio di interrompere.

Eppure anche il dubbio “e se fosse tutto inutile?” fa parte del percorso.
Racconta molto più di quanto sembri: la fatica ad affidarsi, il bisogno di conferme, la difficoltà a lasciarsi tempo.
Accogliere anche questa parte, portarla dentro la seduta, è già un modo di stare nella terapia.
Non tutto deve avere un effetto visibile per avere senso.

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C’è chi vive l’ansia come un’urgenza improvvisa.E chi la vive come un sottofondo costante.Non si tratta solo di agitazio...
18/07/2025

C’è chi vive l’ansia come un’urgenza improvvisa.
E chi la vive come un sottofondo costante.

Non si tratta solo di agitazione. È come se qualcosa dentro restasse in ascolto. Sempre un po’ in anticipo sul pericolo.
Anche quando apparentemente va tutto bene, il corpo è già in allerta: scruta, trattiene, regola.
Il cervello prova a spiegarselo, ma è il sistema nervoso a decidere.

Molto spesso questa attivazione non nasce da ciò che accade oggi, ma da esperienze vissute in cui non c’è stato modo di sentirsi al sicuro.
Il corpo non dimentica. Mantiene il segnale attivo, come se qualcosa potesse riaccadere.

Nelle slide ho cercato di raccontare questo processo in modo semplice.
L’EMDR è uno degli strumenti che usiamo per aiutare il sistema a distinguere tra passato e presente.
Non per “eliminare l’ansia”, ma per permettere al corpo di accorgersi che adesso si può respirare.

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Professionisti dell’ascolto, ma per chi?Un post un po’ polemico ma “ tratto da una storia vera”A volte leggo un libro sc...
16/07/2025

Professionisti dell’ascolto, ma per chi?
Un post un po’ polemico ma “ tratto da una storia vera”

A volte leggo un libro scritto da un collega e mi colpisce. Per come tocca certe esperienze, per il modo in cui racconta il lavoro clinico, per le parole che riescono a dire qualcosa che sento vicino.
Mi viene naturale pensare che possa essere utile anche in terapia: come spunto, come rinforzo, come ponte tra sedute.
E prima di consigliarlo, cerco confronto. Scrivo. Una domanda, una riflessione, il desiderio di scambio tra professionisti che condividono lo stesso campo.

Ma spesso non arriva nessuna risposta.
Nemmeno un cenno.

Capisco bene che non si possa rispondere sempre. Che ognuno abbia i suoi tempi, i suoi limiti.
Ma quando il silenzio è costante e viene da colleghi che parlano pubblicamente di relazione, ascolto e dialogo, qualcosa stona.
Stona fortemente.
Perché il rischio è che il discorso sull’ascolto si trasformi in facciata, e non in pratica quotidiana.

È come se i libri fossero aperti, ma le persone chiuse.
Come se l’ascolto valesse solo per chi guarda da lontano: chi ammira, chi paga, chi resta nella posizione del fan.
Non per chi cerca un confronto reale, da pari.

E allora mi chiedo: che ascolto è, quello che non contempla il confronto tra colleghi?
Che tipo di relazione portiamo nelle nostre stanze, se fuori da lì non siamo disposti nemmeno a stare in contatto?

Perché si può essere professionisti dell’ascolto stimati, seguiti e autorevoli eppure non allenarsi mai a stare davvero nella relazione.
E la relazione non è quella che si dichiara nei convegni o nei libri.
È quella che si pratica. Anche nel piccolo gesto di una risposta.

Questa frase, così comune, contiene molto più di quel che sembra.Spesso è il modo in cui prende forma una rinuncia: la r...
15/07/2025

Questa frase, così comune, contiene molto più di quel che sembra.

Spesso è il modo in cui prende forma una rinuncia: la rinuncia a riconoscere la propria sofferenza, a legittimare un disagio che non ha segni evidenti, a chiedere aiuto senza sentirsi in colpa.
Dietro, c’è quasi sempre una paura: quella di esagerare, di essere visti come fragili, di chiedere troppo.
Ma c’è anche qualcosa di più profondo.

Lo dicono spesso persone abituate a non essere viste, a tenere tutto dentro, a funzionare anche quando qualcosa dentro si è spento.
Lo dicono persone cresciute in ambienti dove l’affetto era condizionato dalla prestazione, dove il dolore doveva essere “serio” per essere ascoltato, dove ogni fragilità veniva trasformata in un compito da superare.
Chi ha imparato presto a non disturbare, a farsi bastare quello che c’è, a rispondere alle aspettative più che ai propri bisogni, tende a minimizzarsi.

Così, tutto ciò che non rientra in una soglia visibile, un’inquietudine persistente, un malessere sfumato, il senso di non essere nel posto giusto, viene svalutato. Anche da chi lo vive.
In terapia, questo si traduce spesso in un’esitazione iniziale: “Non so se ho davvero bisogno… magari non è abbastanza grave.”

Ma la cura non è riservata a chi ha vissuto eventi estremi.
Non c’è una graduatoria del dolore, né una soglia da superare per meritare ascolto.

Esiste piuttosto una sofferenza soggettiva, reale anche quando è invisibile agli altri.
E il bisogno di comprensione, di uno spazio sicuro in cui poter finalmente dire: “Mi sento così, anche se non so bene da dove viene.”

Legittimare questo bisogno è già una forma di cura.
Non serve una diagnosi, un trauma definito, un racconto spettacolare.
Serve riconoscere che stare male, anche “solo un po’”,è comunque una fatica.
E che prendersene cura è una scelta di responsabilità verso di sé. Un primo passo. A volte il più difficile.

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La chimica della felicità non è un trucco. È biologia che può essere ascoltata.Nel linguaggio comune si parla spesso di ...
11/07/2025

La chimica della felicità non è un trucco. È biologia che può essere ascoltata.

Nel linguaggio comune si parla spesso di “ormoni della felicità”: dopamina, serotonina, ossitocina, endorfine. Ma non si tratta di scorciatoie né di sostanze che si attivano a comando. Sono molecole reali, il cui equilibrio è il risultato di un sistema complesso, che coinvolge la nostra storia affettiva, i legami, il corpo, il contesto.

La dopamina è associata alla motivazione, al desiderio e al piacere anticipatorio. Non è solo una sensazione piacevole: è anche ciò che ci spinge a cercare, a progettare, a raggiungere un obiettivo. Un sonno regolare e il riconoscimento dei propri piccoli risultati possono favorirne la regolazione.

La serotonina ha un ruolo centrale nella stabilità dell’umore, nella memoria e nella regolazione emotiva. Esporsi alla luce naturale, trascorrere tempo all’aperto, recuperare ricordi significativi e ripetere esperienze piacevoli può contribuire a sostenerne la produzione.

L’ossitocina è implicata nella costruzione di legami sicuri. Si attiva nei gesti di cura, nel contatto, nel riconoscimento reciproco. Non è solo la molecola dell’affetto, ma anche della fiducia, dell’appartenenza e della regolazione relazionale.

Le endorfine agiscono sulla percezione del dolore e generano una sensazione di benessere fisico. Il movimento, il canto, la risata e alcune attività creative che coinvolgono il corpo possono favorirne la produzione.

Nessuna di queste sostanze è un rimedio in sé. Ma comprendere come funzionano può aiutare a osservare il legame tra ciò che viviamo e l’equilibrio che il nostro sistema nervoso tenta di mantenere.

Anche la felicità, a modo suo, ha un corpo. E può essere ascoltata.

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Milan
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