Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano

Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano Studio di Psicoterapia Milano

Sono una psicologa - psicoterapeuta impegnata in una cultura del benessere accessibile a tutti e che aiuti i cittadini a riconoscere l'importanza del prendersi cura di sé anche in termini preventivi.

A volte non è la curiosità a spingerci a controllare tutto.È la paura.La paura che, mentre noi stiamo fermi, gli altri v...
10/11/2025

A volte non è la curiosità a spingerci a controllare tutto.
È la paura.

La paura che, mentre noi stiamo fermi, gli altri vadano avanti.
Che qualcosa accada e noi restiamo esclusi.
Che la vita scorra altrove, mentre la nostra sembra in pausa.

La FOMO (fear of missing out) non è solo un effetto dei social: è un riflesso antico del cervello, lo stesso che si attiva quando rischiamo l’esclusione dal gruppo.
Per la mente, essere “fuori” significa essere in pericolo.
Ecco perché basta vedere una storia, un messaggio o una notizia per sentire quella scarica sottile, quell’urgenza a esserci, a non mancare, a “sapere tutto”.

È una forma moderna di ipervigilanza relazionale.
Un modo con cui il cervello tenta di proteggersi dal sentirsi irrilevante.
Ma così facendo, finisce per alimentare la stessa ferita che teme: quella del non sentirsi mai abbastanza.

Il paradosso della FOMO è che nasce dal bisogno di connessione, ma genera distanza.
Più cerchiamo di esserci ovunque, meno siamo presenti davvero.
La mente si frammenta, il corpo resta teso, la calma diventa un’esperienza rara.

Imparare a tollerare di “non esserci” è un passo di maturità emotiva.
Significa fidarsi che la propria vita non si misura da ciò che si perde, ma da ciò che si sceglie di abitare.
Che il valore non si costruisce nell’esserci sempre, ma nel saper restare dove ha senso stare.

Essere fuori da qualcosa non è sempre una perdita.
A volte è il segno che si sta imparando a esserci, finalmente, per sé.

La deformazione della comunicazione di tipo gaslighting è una forma di manipolazione psicologica sottile ma molto potent...
05/11/2025

La deformazione della comunicazione di tipo gaslighting è una forma di manipolazione psicologica sottile ma molto potente.
Consiste nel mettere in discussione la percezione, la memoria o la lucidità dell’altro, fino a farlo dubitare di sé stesso.

Definizione
Il gaslighting è una strategia comunicativa manipolatoria in cui una persona nega, distorce o falsifica i fatti per indebolire la fiducia dell’altro nella propria realtà interna.
Il termine deriva dal film Gaslight (1944), in cui un marito altera piccoli elementi dell’ambiente domestico per far credere alla moglie di stare impazzendo.

Come si manifesta
Non sempre è plateale: spesso è fatta di micro–negazioni e reinterpretazioni del reale.
Esempi tipici:
“Non ho mai detto quella cosa.”
“Ti stai inventando tutto, sei troppo sensibile.”
“Sei tu che ricordi male.”
“Non è successo così, te lo sei immaginato.”

Il messaggio implicito è: la tua percezione è sbagliata, la mia è quella giusta.

Effetto sulla vittima
Nel tempo produce confusione, auto–dubbio, riduzione dell’autostima e una crescente dipendenza dal punto di vista dell’altro.
Può generare una dissociazione sottile: lo scollamento tra ciò che si sente e ciò che si pensa di “dover sentire”.
È una forma di violenza psicologica che mina la capacità di fidarsi dei propri sensi, delle proprie emozioni e della propria mente.

Differenza rispetto ad altri tipi di comunicazione disfunzionale
Non è un semplice malinteso o una discussione.
Nel gaslighting c’è una intenzionalità, anche inconscia, nel mantenere l’altro in una posizione di dubbio e sottomissione, così da preservare un controllo relazionale.

gaslighting

Alcuni bambini crescono con addosso un compito che non è il loro.Diventano grandi troppo in fretta, perché qualcuno deve...
30/10/2025

Alcuni bambini crescono con addosso un compito che non è il loro.
Diventano grandi troppo in fretta, perché qualcuno deve prendersi cura della famiglia.

Questo fenomeno si chiama parentificazione.
Il figlio assume ruoli da adulto: gestisce la casa, i fratelli, o diventa il sostegno emotivo del genitore. È un’inversione dei compiti, che lo abitua a mettere i bisogni altrui sempre davanti ai propri.
Da adulto, chi è stato parentificato spesso diventa affidabile, capace, instancabile. Ma dentro porta un vuoto: fatica a riconoscere i propri limiti, sente colpa se si mette al centro, vive la cura di sé come un lusso che non merita.

C’è però una forma ancora più profonda: l’inversione dei ruoli di attaccamento.
Qui non si tratta solo di responsabilità pratiche o emotive, ma del cuore stesso del legame. Il bambino diventa la “base sicura” del genitore: è lui a rassicurare, proteggere, calmare. In questo rovesciamento, il bisogno più naturale, essere accudito, rimane senza risposta.
Da adulto, chi ha vissuto questa esperienza sviluppa spesso una sensibilità estrema verso l’altro, ma anche una ferita sottile: la paura di essere un peso, la tendenza a “salvare” chi ama, la difficoltà a fidarsi davvero di qualcuno che possa prendersi cura di lui.

Sono due facce diverse dello stesso dolore: crescere senza aver potuto essere figli.
Il corpo registra presto questa inversione e la mente costruisce schemi che sembrano forza, ma che nascono dal bisogno di sopravvivere.

In terapia, il lavoro è distinguere:
dove finisce la forza conquistata e dove comincia la ferita rimasta aperta.
E restituire al bambino, finalmente, il diritto di ricevere cura senza doverla guadagnare.

23/10/2025

22/10/2025
Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini...
18/10/2025

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini e gesti premurosi che si trasformano in controllo.

Molte donne non vedono il confine che si sposta: prima giustificano, poi si adattano, poi tacciono, finché non distinguono più il timore dall’affetto; lì nasce una prigione invisibile, saldata nella mente.

La violenza psicologica non esplode, corrode: scava, erode l’autostima e la percezione della realtà; quando la paura diventa normale il cervello non riconosce più il pericolo e cerca equilibrio dove c’è distruzione; è il punto in cui la dipendenza prende il posto della libertà.

Non denunciare non significa non voler reagire: è l’esito di un addestramento alla sottomissione, una manipolazione che alterna punizioni e false tregue finché la calma viene scambiata per amore.

La clinica lo chiama legame traumatico: un meccanismo simile a una dipendenza in cui il sollievo momentaneo rinforza l’attaccamento a chi fa del male, un cortocircuito neurobiologico che mantiene vivo il vincolo anche di fronte all’evidenza.

Chi opera nella salute o nella sicurezza conosce questi schemi: non sono dettagli ma indicatori di rischio; eppure troppe donne arrivano in pronto soccorso o centri antiviolenza e vengono liquidate come “poco chiare”, “ambigue”, “confuse”, come se la confusione non fosse parte della violenza stessa.

Il Codice Rosso non è una formalità: è la linea che separa la prevenzione dal rimpianto; quando non scatta non è un errore tecnico ma un fallimento culturale; significa che la paura non è stata riconosciuta, che la voce di una donna è stata filtrata da scetticismo, stanchezza o indifferenza; significa che lo Stato è arrivato tardi, ancora una volta.

Ogni volta che una segnalazione resta sospesa, che una richiesta d’aiuto non genera una rete di protezione, si costruisce un pezzo di quella violenza che poi ci si limita a commemorare.
E non basta più indignarsi a posteriori.
Serve competenza, responsabilità, tempestività.
Perché il Codice Rosso deve scattare prima del sangue, non dopo.
Altrimenti, più che un protocollo, resta una promessa mancata.

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini...
18/10/2025

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini e gesti premurosi che si trasformano in controllo.

Molte donne non vedono il confine che si sposta: prima giustificano, poi si adattano, poi tacciono, finché non distinguono più il timore dall’affetto; lì nasce una prigione invisibile, saldata nella mente.

La violenza psicologica non esplode, corrode: scava, erode l’autostima e la percezione della realtà; quando la paura diventa normale il cervello non riconosce più il pericolo e cerca equilibrio dove c’è distruzione; è il punto in cui la dipendenza prende il posto della libertà.

Non denunciare non significa non voler reagire: è l’esito di un addestramento alla sottomissione, una manipolazione che alterna punizioni e false tregue finché la calma viene scambiata per amore.

La clinica lo chiama legame traumatico: un meccanismo simile a una dipendenza in cui il sollievo momentaneo rinforza l’attaccamento a chi fa del male, un cortocircuito neurobiologico che mantiene vivo il vincolo anche di fronte all’evidenza.

Chi opera nella salute o nella sicurezza conosce questi schemi: non sono dettagli ma indicatori di rischio; eppure troppe donne arrivano in pronto soccorso o centri antiviolenza e vengono liquidate come “poco chiare”, “ambigue”, “confuse”, come se la confusione non fosse parte della violenza stessa.

Il Codice Rosso non è una formalità: è la linea che separa la prevenzione dal rimpianto; quando non scatta non è un errore tecnico ma un fallimento culturale; significa che la paura non è stata riconosciuta, che la voce di una donna è stata filtrata da scetticismo, stanchezza o indifferenza; significa che lo Stato è arrivato tardi, ancora una volta.

Ogni volta che una segnalazione resta sospesa, che una richiesta d’aiuto non genera una rete di protezione, si costruisce un pezzo di quella violenza che poi ci si limita a commemorare.
E non basta più indignarsi a posteriori.
Serve competenza, responsabilità, tempestività.
Perché il Codice Rosso deve scattare prima del sangue, non dopo.
Altrimenti, più che un protocollo, resta una promessa mancata.

Ci sono momenti in cui non abbiamo fame di cibo, ma di calma.Di una tregua dal rumore interno, da una tensione che non s...
17/10/2025

Ci sono momenti in cui non abbiamo fame di cibo, ma di calma.
Di una tregua dal rumore interno, da una tensione che non si riesce a nominare.

La fame emotiva nasce lì, dove l’emozione non trova un canale per essere espressa.
È il modo con cui il cervello tenta di regolare uno stato interno troppo intenso: tristezza, solitudine, ansia, rabbia, senso di vuoto.
Attraverso il cibo si attiva un sollievo immediato perché il sistema nervoso associa il gesto del nutrirsi a un’esperienza di sicurezza.
È la memoria implicita del corpo, quella che ricorda anche quando la mente non sa spiegare.

Il problema è che la calma che porta con sé è breve.
Finito quel momento, resta il senso di colpa, la vergogna, il bisogno di controllo.
E così il corpo diventa teatro di un conflitto antico: quello tra il bisogno di consolazione e il tentativo di reprimerlo.

La fame emotiva non è un difetto di volontà, ma una strategia di sopravvivenza appresa.
Nasce spesso in contesti in cui le emozioni non potevano essere accolte, o dove l’amore era legato al fare, al compiacere, al trattenere.
Quando non era possibile chiedere aiuto, il corpo ha trovato un modo per calmarsi da solo.

In terapia, questo comportamento non va eliminato, ma ascoltato.
Dietro l’atto di mangiare senza fame c’è quasi sempre un messaggio che non ha trovato parole:
un bisogno di sicurezza, di conforto, di riconoscimento.

Il lavoro terapeutico consiste nel restituire a quel bisogno un linguaggio nuovo : aiutare il corpo e la mente a trovare strade diverse per regolare l’emozione, senza punirsi per averne cercata una.
Non si tratta di “smettere di mangiare”, ma di imparare a nutrire ciò che davvero ha fame.

QUANDO LA PAURA ROVINA L’AMORENelle relazioni capita di sentirsi vulnerabili.Per qualcuno, però, ogni gesto dell’altro d...
16/10/2025

QUANDO LA PAURA ROVINA L’AMORE

Nelle relazioni capita di sentirsi vulnerabili.
Per qualcuno, però, ogni gesto dell’altro diventa un campo minato: un messaggio non risposto subito, un’espressione distaccata, una serata in cui l’altro sembra meno presente.

E allora scatta la paura.
La paura di non essere amati davvero, di poter essere facilmente sostituiti, di non contare abbastanza.

Questa insicurezza porta a vivere il rapporto come una continua verifica: “mi ama davvero?”, “mi sta rifiutando?”, “c’è qualcun altro?”.
Così, invece di godere della vicinanza, ci si trova prigionieri del dubbio e della frustrazione.

Da dove nasce tutto questo?
Spesso da esperienze precoci in cui la fiducia non ha potuto radicarsi: genitori emotivamente incoerenti, rifiuti subiti, legami segnati dall’imprevedibilità. Il cervello, che registra queste memorie, continua a cercare segnali di pericolo anche quando non ci sono.

Il risultato è un amore in allerta, in cui ogni silenzio pesa come una minaccia.
Eppure, distinguere tra ciò che appartiene alla nostra storia e ciò che riguarda davvero il presente è il primo passo per liberarsi da questa trappola.

Perché non tutti i silenzi sono rifiuto.
Non tutta la distanza è tradimento.
A volte è la nostra ferita a parlare più forte della realtà.

E imparare a riconoscerla significa tornare a sentire la relazione per quello che è: uno spazio vivo, non un tribunale in cui si misura ogni gesto.

Una relazione sana non è quella dove tutto fila liscio, ma quella in cui puoi respirare davvero.Non devi pensare cento v...
16/10/2025

Una relazione sana non è quella dove tutto fila liscio, ma quella in cui puoi respirare davvero.
Non devi pensare cento volte prima di parlare,
né controllare ogni parola per paura di scatenare qualcosa.
Non vivi in punta di piedi, cercando di prevedere l’umore dell’altro o di evitare di deluderlo.

Quando una relazione è sana, anche il corpo lo riconosce.
Si rilassa, il battito si regola, la mente smette di analizzare ogni dettaglio.
Non ti senti sotto esame, non provi quella tensione costante che ti fa domandare se hai detto troppo, o troppo poco.

È un legame che regola invece di trattenere.
La presenza dell’altro diventa un punto fermo, non una minaccia.
Puoi dire “non mi va”, “non sono d’accordo”, “oggi ho bisogno di stare per conto mio”
senza paura che questo metta in discussione l’amore o il rispetto reciproco.

Una relazione sana si riconosce anche da questo:
dalla possibilità di essere autentici senza paura di conseguenze.
Di poter dire la verità, anche quando è scomoda.
Di non dover scegliere tra sincerità e appartenenza.

È la sensazione di essere in un posto sicuro, anche quando qualcosa non va.
Quella che in psicologia chiamiamo base sicura:
la possibilità di affidarsi al legame senza perdere se stessi.
Da lì diventa possibile esplorare, esprimersi, perfino sbagliare,
perché l’altro non è un giudice, ma una presenza stabile.

Le relazioni sane non eliminano il conflitto, ma lo rendono gestibile.
Permettono di parlare, di spiegarsi, di riparare.
E la riparazione, più della perfezione, è ciò che costruisce fiducia.

In una relazione sana c’è spazio per la libertà.
Non quella che allontana, ma quella che lascia respirare.
Puoi avere momenti tuoi, desideri tuoi, pensieri tuoi,
senza che diventino una minaccia per il legame.

È in quella libertà che il corpo si calma.
Perché sa di non dover più difendersi,
e può finalmente fidarsi.

Indirizzo

Via Moscova 60
Milan
20121

Orario di apertura

Lunedì 09:30 - 21:00
Martedì 09:30 - 21:00
Mercoledì 09:30 - 21:00
Giovedì 09:30 - 21:00

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