23/05/2025
Nathania Zevi, chapeau!
"Essere ebrei oggi significa portare sulle spalle una doppia, direi quasi insopportabile, responsabilità: quella di tentare di vivere, per quanto semi normalmente, e spiegare. Spiegare sempre.
Spiegare che essere ebrei non equivale a sedere sugli scranni del governo di Israele, di questo governo di Israele, che è - peraltro - uno dei (tanti) governi che Israele ha avuto. Che la parola sionista non solo non è sinonimo di nazista ma tantomeno di pensiero violento. Che Israele per noi è legame profondissimo, riferimento, non dittatura ideologica, non vincolo che ci obbliga a conformarci ad un’unica opinione; cosa che, ovviamente, per la sua medesima storia e conformazione dialogica, il popolo ebraico non potrebbe mai avere.
Occorre spiegare, per quanto assurdo e fuori luogo, diverse volte al giorno, che anche noi ebrei critichiamo, discutiamo, ci spingiamo (talvolta l’un l’altro) al dissenso da sempre — perché il dibattito è parte del nostro DNA, da secoli prima che la parola “democrazia” entrasse nei dizionari politici.
Ma oggi no. Oggi ci viene chiesto di ridurre tutto a un sì o un no. O sei con o sei contro. E se sei ebreo, allora prima dimmi, o meglio ancora dillo pubblicamente: sei contro Netanyahu? Contro il governo? Contro l’occupazione? Come se la tua identità fosse subordinata a un test di purezza politica o umana.
Come se ogni ebreo fosse funzionario non richiesto, mai eletto, di una nazione intera, di cui magari non ha il passaporto. Come se fossimo tutti imputati in un processo collettivo, dove si può essere assolti solo denunciando pubblicamente qualcosa o qualcuno.
Ma chi lo chiede non capisce — o finge di non capire o sentire — che la vera forza del popolo ebraico è sempre stata - e lo è ancora oggi - la voce molteplice. Il Talmud non è un codice. È un dialogo infinito, fatto di opinioni divergenti, anche contraddittorie.
In Israele, le proteste - da anni - non si contano. La piazza è viva, la critica è feroce, molto più che in Europa, i confronti davanti ad ogni tavola dello Shabbat spesso accesissimi.
Lo stesso vale per noi ebrei della diaspora, sgomenti, proprio come tutti, di fronte a una guerra che si protrae e alle sofferenze di tutti, TUTTI, anche dei civili di Gaza, anche dei civili di Gaza, certo.
La pensiamo in tanti modi diversi, come è ovvio. Come è normale, come è umano. Il nostro spirito critico è vivo.
Ma tutto questo, questa pluralità, queste nostre legittime individualità, sembrano non interessare, sparire, confondersi in una massa indistinta - eppure tanto funzionale - contro cui si punta talvolta un dito e sempre, sempre il punto interrogativo.
Perché non mi chiedono ogni giorno cosa penso dell’attualità, della politica, della cronaca italiana?
Non lo chiedono (non dirò chiedete, perché commetterei lo stesso errore di chi, più volte al giorno, si riferisce a me come VOI, mentre sono ancora un IO, come tutti) perché agli ebrei non si concede il lusso della complessità. Si pretende una sola voce. Un solo pensiero. Una dichiarazione di innocenza preventiva.
Ecco perché rifiuto di dover dimostrare quotidianamente la mia distanza da Israele, come rifiuto di dover quotidianamente dimostrare la mia distanza o la mia vicinanza a tante cose, a partire da ciò che Israele ha rappresentato per me, una garanzia di sopravvivenza per gli ebrei nel mondo, e molto altro.
Non mi dissocio, perché non ho nulla da cui dissociarmi, ma sono disponibile a discutere, a parlare, sempre. Come dovrebbero esserlo tutti. Noi pensiamo. Noi protestiamo. Noi litighiamo su questo e quel punto, come sempre, viviamo in dialogo.
Non rimarrò asserragliata né imbarazzata, di fronte a domande o silenzi, o alla paura, e non chiederò il permesso per essere tra coloro che, a loro volta, e a schiena dritta, si interrogano sul prossimo.
Non è un privilegio ma un diritto, come lo è per tutti gli altri. Quando una minoranza è costretta a giustificarsi, spiegarsi, per esistere, la democrazia ha già perso qualcosa.
Questo clima che da mesi m***a sta producendo un veleno sottile: la diffidenza. E vorrei combatterlo sapendo di avere a fianco tanti di voi.
Nessuno, più di un altro, deve essere osservato, misurato, testato. Ogni sua parola passata al vaglio per capire se è “abbastanza critico”, “abbastanza lontano”, “abbastanza non conforme”.
Serve una riflessione vera, collettiva, prima che il punto di non ritorno venga superato, è appena successo a Washington"