13/07/2025
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“La degenerazione dei “METODI YOGA”: come l’ego, personale e dei ttc, ha colonizzato l’unità"
- Chi inventa un metodo personale non ha capito lo Yoga. E chi lo segue senza chiedersi dove stia andando, lo sta perdendo. -
C’è una cosa che va detta con forza: chi oggi propone un “metodo personale” non sta evolvendo lo Yoga, semplicemente non ne ha compreso la portata.
Non è una colpa, ma una distorsione sistemica: ignoranza.
Eppure il danno che produce è reale. Perché ogni volta che si lancia una nuova scuola, un nuovo approccio, una nuova filosofia applicata allo Yoga, si prende un frammento e lo si spaccia per tutto. Si chiude una finestra, e la si vende come panorama.
Lo Yoga non è uno spazio espressivo. Non è un campo libero da coltivare col proprio stile. È un processo rigoroso di osservazione impersonale, che richiede – prima di tutto – la disponibilità a perdere l’attaccamento alle proprie forme. E questo, per molti insegnanti, è un passo troppo scomodo: implicherebbe uscire dall’autorappresentazione, rinunciare al proprio orto personale e mettersi realmente a servizio di una disciplina più grande del proprio nome.
Così accade che, pur di non affrontare una trasformazione cognitiva reale, ci si rifugi nella pratica corporale. Si costruiscono format corporei, lezioni suggestive, pacchetti esperienziali, e si cercano a posteriori testi antichi che legittimino quell’operato, come se le parole di un trattato potessero giustificare ciò che nasce, in realtà, da una paura di fondo: perdere la propria centralità.
Chi crea un metodo e lo chiama Yoga, di fatto, sta facendo una cosa molto precisa: sta proteggendo il proprio io attraverso una struttura didattica che lo mantiene visibile. Sta difendendo le proprie limitate comprensioni cercando di giustificare.
E chi vi aderisce senza chiedersi quale sia il fondamento teorico, sta accettando di essere nutrito da un’apparenza. Il problema non è la creatività – il problema è quando la creatività si finge verità.
Lo Yoga, invece, non ha bisogno di espressione: ha bisogno di coerenza. È una disciplina di reintegrazione, non una galleria personale. È un cammino tracciato per disattivare l’identificazione, non per rafforzarla con un nome nuovo, un brand, o una narrazione.
E allora chiediamoci: se il Sūtra I.2 ci dice che lo Yoga è citta-vṛtti-nirodhaḥ – la cessazione delle modificazioni del campo mentale – come può uno stile personale, con nuovi esercizi, nuovi obiettivi, nuove prospettive, coincidere con questa definizione?
È evidente: non può.
Ma ciò che colpisce è che questa frattura è visibile a chiunque sia disposto a osservare. Basta guardare la quantità di “scuole” nate negli ultimi vent’anni. Cercate l'elenco degli stili su Wikipedia! Ognuna con il suo “approccio”, con la sua “metodologia”. Ma nessuna con la reale volontà di dissolvere le distorsioni cognitive. Al contrario, molte di esse fomentano l’identificazione col corpo, col ruolo, col gruppo, con l’appartenenza. E lo fanno con gentilezza, con parole accoglienti, con musiche rilassanti, con community “consapevoli”. Ma la direzione è sempre la stessa: fuori dall’osservatore, dentro l’identificazione.
Eppure lo Yoga nasce per fare l’opposto. Per riportarti indietro. Per sottrarre tutto ciò che hai usato per raccontarti, e condurti a ciò che resta quando tutto tace. L’osservatore.
Chi lo ha compreso non sente il bisogno di affermare un proprio metodo. Sente piuttosto la responsabilità di non interferire. Non cerca di essere originale, ma di essere trasparente. Di rendere chiaro, non sé stesso, ma ciò che permette la chiarezza. E per fare questo serve una sola cosa: onestà epistemologica.
Quella stessa onestà che manca ogni volta che, per legittimare una prassi, si cercano appigli testuali che non si sono realmente compresi. Ogni volta che si citano Sutra o testi senza sapere come leggerli, ma solo per difendere il diritto a fare lezione nel proprio modo. Questo non è studio. Non è trasmissione. È autoconservazione dell’ignoranza.
E allora che si abbia il coraggio di dirlo: se un approccio lavora sul corpo, sulle emozioni, sulle sensazioni, che si dichiari propedeutico allo Yoga, "corso sulle mie comprensioni personali che spero vadano in direzione dello Yoga con sorriso" e non “Yoga” in senso proprio. Solo così si può ristabilire una linea etica. Solo così l’allievo può tornare a vedere. Solo così lo Yoga smette di essere teatro.
Chi inventa un metodo personale non è un innovatore. È, spesso, un resistente. E lo Yoga, che è un processo di resa intelligente, non può passare attraverso chi lo vive come campo di affermazione personale.
Ma a ben vedere, il vero nodo non è la moltiplicazione delle forme, quanto il fatto che la maggior parte di chi oggi insegna Yoga non ha mai voluto veramente essere trasformato cognitivamente. La trasformazione richiede fatica, richiede resa, richiede uno smontaggio progressivo delle proprie rappresentazioni mentali. E, soprattutto, richiede di rinunciare alla centralità del proprio operato.
Per questo, molti si rifugiano nella pratica fisica. È più accessibile. È meno rischiosa. Permette di costruire percorsi, di fidelizzare studenti, di generare consenso. Ma questo non è Yoga: è una pedagogia della superficie. Una trasmissione laterale che non taglia mai il nucleo. Un modo elegante di evitare l’unica cosa che conta: l’osservazione impersonale dei propri contenuti interni.
Proprio per sostenere queste architetture fragili, si è sviluppata negli anni una tendenza preoccupante: quella di sacralizzare testi che non si sono compresi utilizzandoli per avvalorare il proprio dire davanti alla giustificata ignoranza di un avventore ma così friabili davanti ad una persona che domina la teoria della Darshana chiamata yoga.
È così che opere come la Haṭha Yoga Pradīpikā – nate come fasi propedeutiche – diventano fondamenti assoluti.
Ma la Pradīpikā è esplicita: haṭha-yogaṃ prathamaṃ puruṣārtha-sādhakaṃ rāja-yogasya janakaṃ haṭha-vidyām udāhṛtam (I.2) – “L’Haṭha Yoga è il primo mezzo per realizzare il fine dell’essere umano ed è indicato come la porta di accesso al Rāja Yoga.”
Essa non è il fine, è la soglia.
È una mappa tecnica che prepara il campo, non che lo chiude. E usarla come base per sistemi esclusivamente corporei, senza dichiararne la funzione preparatoria, è un atto intellettualmente disonesto ed al contempo la dichiarazione che la propria scuola persegua uno spazio che non è propriamente Yoga dove è invece necessaria la conoscenza degli Yoga Sutra e non attraverso un loro studio parziale come spesso avviene nei ttc di tutto il mondo.
In realtà, se davvero si volesse comprendere la struttura dello Yoga, bisognerebbe iniziare dalla sua funzione epistemica. Lo Yoga, nella sua formulazione più precisa, non è un sistema di pratiche, ma una scienza dell’attenzione. Non è adattabile: è ordinatore. Non è educativo: è decostruttivo. Non mira a renderti “più presente” o “più sensibile”, ma a condurti al punto in cui l’osservazione si disidentifica dal contenuto.
In questo senso, il principio discriminante (viveka) non è una qualità astratta, ma una soglia cognitiva precisa. Il Sūtra II.26 – viveka-khyātiḥ aviplavā hānopāyaḥ – non ci offre un’idea, ma una condizione operativa: solo una discriminazione ininterrotta può condurre alla cessazione dell’ignoranza. E la discriminazione non si compie aderendo a un metodo, ma riconoscendone la struttura interna.
È qui che la funzione del formatore si mostra per quello che dovrebbe essere: non un creatore, non un innovatore, ma un disattivatore. Qualcuno che ha visto abbastanza da non voler più inserire se stesso nel processo. Qualcuno che ha compreso che ogni nuova forma rischia di diventare una deviazione se non è attraversata da un’intelligenza ordinante.
E d’altra parte, anche il praticante ha una responsabilità. Ogni volta che accetta una proposta senza interrogarsi sulla sua funzione, rafforza il meccanismo dell’identificazione. Non tutto ciò che produce esperienza produce comprensione.
Non tutto ciò che emoziona, orienta. L’esperienza sensibile non è di per sé discriminante. Lo diventa solo quando l’attenzione sa riconoscere il principio che l’attraversa.
Questa è la vera questione: ciò che oggi chiamiamo Yoga è spesso solo contenitore. È narrazione, tecnica, coreografia. Ma il principio si è ritirato. L’osservatore è stato sostituito dall’adesione. E ogni volta che questo accade, il processo non conduce a libertà, ma a sofisticata dipendenza.
Lo yoga non ti coccola, si prende cura delle tue resistenza.
Ritornare al principio non significa negare le forme. Significa vedere attraverso di esse. Non adattare lo Yoga a sé, ma lasciarsi ridefinire dai suoi criteri. Non educare la mente a esprimersi meglio, ma guidarla alla sua funzione naturale: osservare senza trattenere.
L'opera di personalizzazione nello yoga riconosce il personale disagio e ti permette di riappropriarti di ciò che le definizioni autoprodotte e/o accolte ti hanno tolto mutilandoti a livello cognitivo.
Questa è la resa più difficile: rinunciare a costruire un ruolo nel mondo dello Yoga, per permettere allo Yoga di costruire in noi la chiarezza.
E allora non resta che una domanda:
Ciò che stai praticando… ti restituisce all’osservatore, o ti racconta meglio il tuo personaggio?
Solo la risposta a questa domanda distingue lo Yoga dalla sua rappresentazione.
E nessuno può rispondere per te.