09/06/2023
Quando un paziente entra per la prima volta nella stanza d’analisi, non sa quale sia “la sua diagnosi”.
Arriva con un disagio, con un sintomo, con una difficoltà che gli appare insuperabile. Ma non conosce aprioristicamente il nome, quell’etichetta, che possa identificare il suo problema.
E sebbene, alcune volte (meno di quanto si pensi, in verità), i pazienti arrivino con il bisogno di dare un’identità al proprio malessere, la maggior parte delle volte accade che ci si “dimentichi” di etichettare quello stesso malessere. Perché l’obiettivo diventa quello di sentirlo, attraversarlo e dargli un significato. Non necessariamente un nome.
Alle volte, però, accade proprio il contrario.
A più riprese, nel corso della psicoterapia con un mio paziente, sono stata da lui sollecitata affinché gli fornissi una diagnosi. Mi ha insistentemente chiesto di includere le sue difficoltà in un manuale diagnostico.
E così, abbiamo lavorato su questo. Sulla sua richiesta. Sull’importanza che rivestisse, per lui, sapere di avere esattamente “quel” problema. Sul motivo per cui volesse specificarlo dandogli un nome, appunto.
Eppure, nonostante sentissi che fosse per lui realmente ed esageratamente importante avere quel nome, tutte le volte che ne parlavamo sembrava fosse piuttosto una ripicca, del tipo “Sto qua a posta. Hai il dovere di dirmelo!”.
Tuttavia, per lungo tempo questo bisogno non era riaffiorato. Sembrava quasi che la brama di dare un nome al proprio malessere si fosse ormai acquietata.
Poi, durante una seduta, mi aveva chiesto quando avrebbe potuto “fare a meno della terapia” e, così, avevamo iniziato ad immaginare insieme come sarebbe stato salutarsi. Come sarebbe stato camminare con le proprie gambe, lì fuori.
Ma da quel preciso momento in poi, aveva ripreso a chiedermi quale fosse la sua diagnosi. Quale fosse il nome del suo disturbo.
In tutta onestà, non riuscivo a spiegarmi come mai avesse ripreso proprio in quella occasione a riformularmi questa domanda. Faticavo a cogliere il nesso tra la fantasia di terminare la psicoterapia e il bisogno di andar via di lì con un’etichetta identificativa relativamente al disagio che lo aveva condotto da me.
Illuminante -mentre riflettevamo insieme a riguardo- fu una sua frase.
Mi disse: “Io e lei sappiamo di cosa parliamo qui dentro… ma fuori non lo sanno. E se io dicessi qual è la mia diagnosi, forse gli altri mi capirebbero”.
Una frase precisa. Senza sbavature. Coerente con la paura di dover fare a meno della certezza di capirsi, di sintonizzarsi, di esserci.
Quella certezza che aveva trovato nella stanza d’analisi, ma che sapeva di non trovare lì fuori.
In questa frase si leggevano paura e rabbia.
Immaginarsi fuori dalla stanza d’analisi, sprovvisto del supporto contenitivo della psicoterapia, aveva attivato in lui la paura di non riuscire a far fronte alle minacce del mondo esterno.
D’altro canto, io non gli avevo facilitato di certo il compito “omettendo” quella diagnosi. E, dunque, era arrabbiato con me.
Sapere di avere proprio “quel” preciso problema. Rientrare nel quadro sintomatologico di “quella” specifica diagnosi. Attribuirsi “quella” etichetta per poter dire agli altri di “essere” quel disturbo. Questo, solo questo gli avrebbe dato la certezza che (anche) gli altri avrebbero potuto capirlo. Lì fuori.
Quel nome, quella descrizione, avrebbe rappresentato un po’ la “coperta di Linus” che lo avrebbe protetto dagli attacchi del mondo esterno.
“Io sono questo disturbo. Adesso lo sapete e non potete far altro che capirmi”. Questo gli avrebbe permesso di dire, la diagnosi.
Solo così, anche lì fuori, avrebbe potuto avere con sé un pezzetto della psicoterapia. Solo così, anche lì fuori, avrebbe avuto la comprensione che aveva trovato nella stanza d’analisi. Solo così avrebbe avuto un po’ meno paura di lasciare la “mano sicura della madre” -la psicoterapia- per affrontare autonomamente il mondo.
Così. Solo così, avrebbe potuto farcela. Il mio giovane paziente. A soli 16 anni.
Dott.ssa Maria Teresa Allemma • Psicologa-Psicoterapeuta