10/11/2025
I numeri della violenza di genere restano spietati, anno dopo anno. Eppure, di fronte a quel rosso che continua a tingere le cronache, abbiamo visto solo leggi più dure, procedure più rapide, indignazioni pubbliche a orologeria. Si è cercato di frenare il dramma delle donne uccise perché donne, mostrando ai potenziali assassini lo spauracchio della pena più severa.
Eppure, strano a dirsi, non ha funzionato.
Siamo proprio sicuri che la paura sia un buon maestro?
Quando abbiamo promesso al nostro bambino di quattro anni che, se si fosse lavato i denti senza protestare, avrebbe potuto scegliere la favola della buonanotte, è servito?
No!
E nemmeno quando abbiamo urlato alla nostra bambina adolescente di mettere in ordine la sua camera non tra "cinque minuti" ma adesso, o quando abbiamo tolto il cellulare al ragazzo che ha preso 5 a latino perché preferisce passare i pomeriggi alla Playstation piuttosto che con Seneca.
Le punizioni, le sanzioni, le facce scure… non cambiano davvero i comportamenti ma di questo sembriamo dimenticarci ogni volta che parliamo di violenza. Continuiamo a pensare che basti alzare la voce o inasprire le pene per cambiare le cose. E così ci raccontiamo che “almeno qualcosa si è fatto”, anche se nulla è cambiato. È una forma di autoassoluzione collettiva: possiamo dormire tranquilli, perché ci siamo indignati al momento giusto.
Solo che la violenza non si estingue per decreto, né si corregge con la minaccia. Non dovrebbe servire il carcere a dire a un uomo che non può uccidere la donna che lo lascia. Dovrebbe bastare la consapevolezza che amare non è possedere, che l’altro non è un oggetto.
Educazione, non deterrenza.
E qui veniamo al punto.
C’è un modo per prevenire la violenza, non solo reprimerla: si chiama educazione sessuoaffettiva.
Già nel 2010 alcune ricerche italiane avevano mostrato che percorsi di questo tipo, somministrati nelle scuole, modificano i fattori di rischio e rafforzano quelli protettivi in ragazzi e ragazze. Tradotto: funziona.
Perché la violenza di genere non è un destino, ma un costrutto culturale e relazionale. Si può riconoscere, studiare, smontare, contrastare.
Ma serve volontà politica e sociale. E la prevenzione, si sa, non fa propaganda.
Educare al rispetto, alla reciprocità, alla libertà affettiva significa intervenire là dove la violenza nasce: nella rappresentazione distorta dell’altro e nella confusione tra amore e possesso. Significa aiutare gli adolescenti a leggere i segnali di un legame sano, a comprendere che la gelosia non è una prova d’amore, che la dipendenza non è tenerezza.
E soprattutto, che dire “ti amo” non è mai dire “sei mio”.
Qualcuno dirà che sono temi troppo complessi per i ragazzi. Ma chi ha mai guardato davvero un dodicenne sa che non è un cucciolo inconsapevole: ha già sofferto, già amato, già sperimentato la rabbia e la delusione. È sommerso di domande, spesso solo, immerso in un caos di emozioni che nessuno gli aiuta a mettere in ordine.
L’educazione sessuoaffettiva serve proprio a questo: a dare un linguaggio al vissuto, a rendere pensabili le emozioni, a costruire un pensiero critico sui sentimenti.
Sì, anche a prevenire la violenza.
Non tutta, certo, ma quella parte che nasce dall’ignoranza emotiva, dalla mancanza di strumenti interiori, da una cultura che ancora confonde forza con dominio.
Ridurrebbe i femminicidi?
Ridurrebbe la componente culturale e patriarcale che li alimenta, e sarebbe già un passo enorme.
Perché, è bene dirlo, la violenza contro le donne si nutre tanto del machismo quanto dell’educazione alla rinuncia e alla colpa che ancora viene insegnata alle bambine. Su questo si può lavorare, eccome. Serve tempo, ma è possibile. Per contrastare la violenza servirebbe una visione ampia, che tenga insieme scuola, famiglia, salute mentale, formazione degli adulti, sostegno alla genitorialità, politiche di cura e accesso ai servizi.
Serve una società che si pensi come corresponsabile.
Perché se la nostra unica risposta al femminicidio è “carcere a vita”, allora sì, una pena proporzionale dovremmo meritarla anche noi, come società che non educa, non ascolta e non cambia.
La violenza di genere non è un mistero. È un fenomeno umano, culturale e sociale.
E come tale, può essere trasformato.
Non con la paura ma con la conoscenza, la relazione e la responsabilità.