Gianfranco Ricci - Psicologo

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IL TRAMONTO DI IRVIN YALOMCosa significa invecchiare per un terapeuta? In che modo gli anni che passano incidono sulla s...
13/11/2025

IL TRAMONTO DI IRVIN YALOM

Cosa significa invecchiare per un terapeuta? In che modo gli anni che passano incidono sulla sua capacità di aiutare i pazienti?

Irvin D. Yalom è da decenni una figura di riferimento per la psicoterapia, in ambito esistenziale e non solo. Autore generoso e creativo, Yalom è autore di saggi e romanzi che mettono al centro un modello di psicoterapia basato sulla centralità della relazione.

Nel suo ultimo lavoro, scritto insieme al figlio Benjamin, intitolato “L’ora del cuore” (2025), Yalom, oramai ampiamente superati i 90 anni, si interroga sulla propria pratica di psicoterapeuta.

Racconta Yalom:
“quando avevo da poco compiuto ottant’anni, mi ero reso conto che la mia memoria cominciava a perdere colpi… Con il progredire di questa condizione, cominciai a pensare che forse non ero più in grado di offrire una terapia a lungo termine, come avevo fatto per quasi sessant’anni. Invece di intraprendere terapie aperte che a volte durano tre o quattro anni, decisi di porre il limite di un anno, stabilito in anticipo, per tutti i nuovi pazienti”

Porre un limite alla durata della terapia è pratica comune in molti approcci basati su percorsi standardizzati oppure su rigidi protocolli di intervento.
Tuttavia, davanti alla difficoltà di produrre risultati clinici significativi, lo stesso Freud, nel celebre caso chiamato “l’uomo dei lupi”, decise di porre un limite alla terapia analitica. Nel caso di Freud, il limite temporale imposto alla terapia aveva lo scopo di stimolare il paziente a lavorare più intensamente in seduta, favorendo il suo coinvolgimento nel trattamento.

Tuttavia, gli anni per Yalom continuavano a passare, imponendogli nuovi cambiamenti nella sua pratica di terapeuta; prosegue Irvin:

“quando stavo per compiere 87 anni, cominciai a rendermi conto che per ricordare i dettagli dei pazienti dipendevo sempre di più dai riassunti… Ero in difficoltà, e cominciai a mettere in discussione il valore della cura che era in grado di offrire. Sentivo di avere ancora molto da dare, ma era chiaro che, in tutta coscienza, non potevo impegnarmi in un lavoro continuativo con dei pazienti, sia pur entro i limiti di un anno.”

L’avanzare dell’età costringe Yalom ad un ulteriore cambiamento; al centro della sua esperienza vi era l’idea difficile da metabolizzare di porre fine alla propria pratica.
Come mettere da parte l’attività che per oltre sessant’anni ha scandito ogni giorno della propria vita?

Si chiede Yalom: “chi avrei potuto essere, se non uno psicoterapeuta? A dire la verità ero arrabbiato e profondamente spaventato. Non ero pronto a sentirmi così vecchio, così inutile. Il pensiero di lasciarmi la terapia alle spalle era come rassegnarsi a un rapido declino, seguito nel giro di poco tempo dalla morte inevitabile”.

Il racconto di Yalom rappresenta una vivida testimonianza del lutto inevitabile legato al passare degli anni e all’avvicinarsi della morte.

Come sopravvivere? Come conciliare i limiti dell’età con il proprio desiderio?

Conclude Yalom:
“me ne venni fuori con un’idea non convenzionale. Forse potevo incontrare le persone per un’unica consultazione, della durata di un’ora. Nel corso di quell’ora avrei offerto loro tutto quello che potevo -intuizione, guida, una presenza cordiale e tollerante - e in seguito, se necessario, avrei potuto mandarli da un collega che fossi in armonia con le loro questioni…”

Yalom decide di mettere di nuovo al centro della propria pratica un suo pilastro fondamentale: la centralità del “qui ed ora” come orizzonte della propria pratica.

Questo ultimo (davvero ultimo?) lavoro di Yalom costituisce una preziosa occasione di riflessione su come ciascun uomo, terapeuta o paziente, sia chiamato a trovare la propria personale “soluzione” davanti alle sfide della propria vita.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Irvin Yalom – “Il dono della terapia”;
-Irvin Yalom – “L’ora del cuore”;
-Irvin Yalom – “Psicoterapia esistenziale”.

JACQUES LACAN E L’“ORIGINE DU MONDE”“L’Origine du monde” di Gustave Courbet è uno dei dipinti più scandalosi e noti nell...
10/11/2025

JACQUES LACAN E L’“ORIGINE DU MONDE”

“L’Origine du monde” di Gustave Courbet è uno dei dipinti più scandalosi e noti nella storia dell’arte. Prima di Courbet, le altre rappresentazioni anatomiche femminile avevano solo uno scopo descrittivo anatomico; ne sono un esempio le raffigurazioni di Leonardo del 1510.

L’opera era stata commissionata nel 1866 dal diplomatico ottomano Khalil Bey; la p***e due anni dopo, a causa del gioco d’azzardo, che costrinse il diplomatico a mettere all’asta la sua collezione.

Tuttavia, “L’Origine du monde” non era tra le opere in vendita; l’opera quindi scomparve per 44 anni, fino al 26 novembre 1912, quando una certa “Madame Viale” vendette un dipinto di Courbet alla galleria Bernheim-Jeune a Parigi. Quel dipinto è descritto nel contratto di vendita come un “paesaggio—riva del mare (castello-fortezza)”.

In realtà era anche la copertura di un contenitore che nascondeva “L’Origine du monde” (già il suo primo proprietario, Khalil Bey, era solito nascondere il quadro sotto un velo verde, per sottrarlo alla vista degli spettatori).
Nel giugno 1913, Hatvany acquistò entrambe le opere dalla galleria.

I tesori di Hatvany sopravvissero alla rivoluzione ungherese del 1918. Confiscati dal governo, i capolavori furono restituiti al proprietario dopo la caduta della repubblica rossa.
Durante il periodo tra le due guerre, la villa di Hatvany era un luogo di ritrovo per artisti e visitatori illustri a Budapest, tra cui Thomas Mann.

Tutto cambiò negli anni ’30, quando l’Ungheria cadde sotto l’influenza della Germania. Nel 1942, dopo il primo bombardamento di Budapest da parte degli Alleati, Hatvany comprese finalmente il pericolo per la sua collezione. Depositò oltre 300 capolavori della collezione nelle casseforti di tre banche di Budapest, a nome di due dipendenti.
Il destino dei dipinti rimase misterioso fino alla fine della Guerra Fredda. Solo durante la perestrojka, alla fine degli anni ’80, si scoprì che alcuni tesori di Hatvany erano nascosti in un museo in Russia.

I tentativi di Hatvany e degli ufficiali ungheresi di persuadere l’amministrazione militare sovietica a recuperare i capolavori rubati non ebbero successo. Nel 1946, Hatvany fu contattato da un ufficiale sovietico, apparentemente ungherese di nascita. L’ufficiale disse al barone che era disposto a restituirgli i dipinti in cambio di un’adeguata ricompensa.

Hatvany riscattò dieci tele, “liberate” dalle casseforti delle banche di Budapest dalle truppe sovietiche, tra cui “L’Origine du monde” di Courbet.

L’anno successivo, Hatvany lasciò l’Ungheria. Gli fu concesso il permesso ufficiale di esportare un solo dipinto della sua collezione, un’opera priva di valore artistico secondo i funzionari culturali. Si trattava proprio di “L’Origine du monde”. Hatvany trascorse gli ultimi anni a Parigi e in Svizzera.

Nel 1955, “L’Origine du monde” fu venduta all’asta per 1,5 milioni di franchi. Il nuovo proprietario fu lo psicoanalista Jacques Lacan.

L’opera è stata probabilmente acquistata da Jacques Lacan e sua moglie Sylvia Bataille nel 1955 grazie all’aiuto del pittore André Masson e di George Bataille.

Nella sua casa di campagna Lacan, in una dependance che aveva trasformato in studio, era solito mostrare ai suoi ospiti “il suo Courbet” con un rituale molto preciso: Lacan teneva infatti l’opera nascosta dietro ad un pannello scorrevole incastrato nella cornice.

Lacan molto orgoglioso della sua opera, che sicuramente ha mostrato ad artisti come Pablo Picasso e Marcel Duchamp.

Oggi si trova al Musée d’Orsay.

Tutti hanno voluto “nascondere” il quadro a sguardi indiscreti; perché? In gioco non c’è solo l’anatomia di un corpo, ma la dimensione pulsionale del vedere e il divieto che la regola. L’opera mette al centro proprio lo sguardo e la posizione soggettiva di chi osserva.

Si tratta di un quadro o di una finestra aperta su un momento di intimità? Siamo semplici osservatori o involontari vo**ur?

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
- Gallimard – Centre Pompidou-Metz – “Lacan Expo”;
- Fabrice Masanès – “Gustave Courbet 1819-1877: The Last of the Romantics: Unsentimental Realism”;
- Gustave Courbet - “Il realismo. Lettere e scritti”.

QUANTO DURA LA PSICOTERAPIA SECONDO FREUD?Molti criticano la psicoterapia e la psicoanalisi per la lunga durata della cu...
07/11/2025

QUANTO DURA LA PSICOTERAPIA SECONDO FREUD?

Molti criticano la psicoterapia e la psicoanalisi per la lunga durata della cura. Quanto dura una psicoterapia secondo Freud? Ed oggi invece? È davvero un processo sempre lungo o addirittura “interminabile”?

Le analisi agli inizi del Novecento solitamente avevano una durata molto breve: i primi pazienti di Freud, si sottoponevano a trattamenti intensivi (circa cinque o sei sedute a settimana) della durata di alcune settimane, solo in certi casi di alcuni mesi.

I pazienti di Freud raggiungevano Vienna da tutta Europa per sottoporsi all’analisi, interrompendo per alcune settimane il regolare corso della loro vita.

Queste prime analisi, molto brevi rispetto a quelle di oggi, furono molto utili per il progresso della psicoanalisi: la scienza analitica si è sviluppata proprio a partire dai problemi emersi nel lavoro quotidiano con i pazienti.

Nell’articolo “Avvio del trattamento” (1913), Freud spiega l’importanza del “tempo preliminare” della cura; si tratta di un periodo di circa una o due settimane, necessario per poter capire se è possibile svolgere una vera e propria analisi.

Se l’interruzione del trattamento si verifica nelle prime sedute, indica Freud:

“in tal modo si risparmia al malato la penosa impressione di un tentativo di guarigione non riuscito.
Si è trattato appunto soltanto di un sondaggio per imparare a conoscere il caso e per decidere se fosse adatto alla psicanalisi.”

Terminato il periodo preliminare, lo psicoanalista dovrebbe avere un’idea più precisa del paziente e può iniziare il vero e proprio trattamento, a partire dalla diagnosi che orienta la cura.

Negli ultimi decenni, nella comunità analitica c’è consenso sull’allungamento dei tempi della terapia.

Quali fattori influenzano la durata di una terapia?

Per comprenderlo, è necessario considerare numerosi fattori:

-il “ritmo di lavoro”: già Freud indicava come fosse necessario trovare nella motivazione e nella capacità di lavoro analitico del paziente il fattore più importante per prevedere la durata del trattamento.
Ogni paziente infatti è diverso ed è necessario capire la sua motivazione a guarire.

-il desiderio di sapere: perché si sceglie di fare un’analisi? Ogni paziente porta con sé una domanda diversa. “Mettere a fuoco” la domanda del paziente è un aspetto centrale del trattamento.

-che posto occupa l’analisi nella vita del paziente? È importante che l’analisi sia per il paziente una priorità. Se il paziente rifiuta di dedicare energia e impegno sarà difficile superare le inevitabili resistenze che rendono l’analisi difficile e complessa.

Possiamo dire che in analisi abbia un maggior peso il tempo “logico” ed “emotivo”, piuttosto che quello “cronologico”, così da mettere in luce quanto tempo davvero dura una psicoterapia.

Come finiscono le analisi? Freud ha dedicato un’opera a questo tema (“Analisi terminabile ed interminabile”), senza tuttavia giungere ad una risposta conclusiva.

Quando finisce un’analisi?

Esploriamo alcune delle conclusioni possibili del lavoro analitico nell’articolo completo.

Per approfondire:

-Sigmund Freud – Tecnica della Psicoanalisi (1911-1912);
-Sigmund Freud – Analisi terminabile ed interminabile;
-Paul Roazen – Freud al lavoro.

CARISSIMO DOTTOR JUNG…Per comprendere a fondo una teoria è necessario esplorare anche la vita e le vicende di chi la ha ...
06/11/2025

CARISSIMO DOTTOR JUNG…

Per comprendere a fondo una teoria è necessario esplorare anche la vita e le vicende di chi la ha elaborata. In psicoanalisi è molto difficile separare nettamente le idee dalle esperienze di chi ha sviluppato certi concetti ed ipotesi.

Ad esempio, è evidente che il complesso di Edipo abbia le proprie radici nel difficile rapporto di Sigmund Freud con il proprio padre; così anche le idee di Jung nascono non solo da una grande vivacità intellettuale ma anche dalle complesse esperienze di vita dello psicoanalista svizzero.

Le vite di questi pionieri tuttavia sbiadiscono dietro i grandi libri di teoria e le biografie istituzionali che cercano di restituire un’immagine spesso filtrata e difensiva.

Per questo risultano particolarmente preziose le testimonianze di coloro che hanno conosciuto in prima persona grandi personaggi come Freud, Jung, Lacan…

Sandra Petrignani, nel suo romanzo “Carissimo Dottor Jung” (2025), cerca di farci vivere l’atmosfera delle ultime settimane di vita di Carl Gustav Jung. Oramai anziano e consapevole, grazie ai propri sogni, della prossimità della fine, il padre della psicologia analitica fa il bilancio della sua esistenza, dedicata alla sua ricerca sull’inconscio.

Petrignani ci offre la possibilità di cogliere un momento decisivo nell’esperienza di qualsiasi Scuola: il passaggio di testimone tra il fondatore ed i suoi eredi.

Nelle pagine del romanzo si alternano figure che hanno raccolto l’eredità di Jung, portando avanti le sue ricerche; nelle stanze della torre di Bollingen ecco apparire Jolande Jacobi, Marie-Luise Von Franz e una vecchia paziente di Jung, chiamata dal Maestro “Lady Morgana”, desideroso di incontrare un’ultima volta il suo analista.

Il romanzo segue quindi un doppio binario: da una parte le ultime settimane di vita di Jung e dall’altra le ricerche di una giovane scrittrice romana, Egle, appassionata della vita e delle opere dello psichiatra svizzero.

L’intreccio tra questi due racconti ci permette di entrare nella vita pulsante di un uomo, con tutte le sue contraddizioni, capace di imprimere un segno indelebile nella nostra cultura.

Come afferma Jung, nella sua biografia:
“un mio libro è sempre opera del destino. Quando si scrive si va incontro a qualcosa di imprevedibile”

Intrecciare biografia e teoria è l’unico modo per rendere giustizia ad un percorso pionieristico di ricerca, i cui effetti sono presenti nonostante gli oltre sessant’anni che ci separano dalla morte di Carl Gustav Jung (1961).

Il libro è ricco di molteplici aneddoti ed episodi reali che hanno costellato la suggestiva esperienza del circolo più vicino a Jung, tra ricerca della verità inconscia e passioni umane.

Articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Sandra Petrignani – “Carissimo Dottor Jung”;
-Carl Gustav Jung – “Sogni, ricordi, riflessioni”;
-Thomas B. Kirsch – “Gli Junghiani. Una prospettiva storica e comparata”.

Copia realizzata da Materico del ritratto di Sigmund Freud del 1936 di Wilhelm V. Krausz, conservato a Vienna
05/11/2025

Copia realizzata da Materico del ritratto di Sigmund Freud del 1936 di Wilhelm V. Krausz, conservato a Vienna

IL TEST DI RORSCHACH A NORIMBERGAAlla fine della Second Guerra Mondiale, gli Alleati decisero di processare i gerarchi t...
03/11/2025

IL TEST DI RORSCHACH A NORIMBERGA

Alla fine della Second Guerra Mondiale, gli Alleati decisero di processare i gerarchi tedeschi e giapponesi. Gli orrori commessi sui campi di battaglia e nei lager erano senza precedenti e avevano sconvolto tutto il mondo.

Già nel 1943 venne presa la decisione di sottoporre a processo, a guerra finita, i leader tedeschi responsabili ancora vivi.

Tra gli aspetti più interessanti del “Processo dei principali criminali di guerra” svolto a Norimberga (città simbolo della dittatura nazista), occupa un posto di rilievo l’utilizzo del “Test di Rorschach”.

Hermann Rorschach aveva ideato una tecnica proiettiva di grande efficacia, capace di offrire preziose indicazioni cliniche sul funzionamento psichico dei pazienti. Invitando ad associare liberamente davanti alla presentazione di una serie di tavole con delle macchie d’inchiostro, Rorschach era stato in grado di cogliere informazioni su aspetti fondamentali della mente come il funzionamento affettivo, relazionale e l’esame di realtà.

Il test di Rorschach ha avuto un profondo impatto sulla psicodiagnostica, diventando il principale “metodo proiettivo”: le macchie d’inchiostro, di forma ed aspetto vago, spingono l’osservatore ad no sforzo psichico di costruzione di senso; per dare un senso alle forme si mobilita la proiezione di materiale che proviene dal mondo interno del paziente.

Il test ideato da Hermann Rorschach ha suscitato grande interesse negli psicoanalisti, soprattutto junghiani e nord americani, per la sua capacità di offrire una vera e propria “radiografia” della psiche inconscia del paziente.

In poche parole, le macchie d’inchiostro permettono di cogliere la modalità nella quale il paziente “vede il mondo” e lo dota di una certa forma e significato.

Nelle fasi iniziali del processo, lo psicologo militare americano Gustave Gilbert condusse una serie di colloqui con gli imputati. In seguito, insieme al collega Douglas Kelley, Gilbert ha somministrato il test di Rorschach ai gerarchi sottoposti a processo.

I risultati?

Da un mero punto di vista formale, dall’analisi quantitativa dei protocolli emerse con chiarezza la piena capacità di intendere e di volere degli imputati: non si poteva rintracciare alcuna forma di vizi di mente; gli indici erano nella norma statistica della popolazione di riferimento.

Da questo punto di vista sembrerebbe allora possibile avvalorare la tesi di Hannah Arendt, la filosofa autrice de “La banalità del male”: ciò che sconvolge dei crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale sarebbe l’apparente ordinarietà degli uomini che li hanno commessi.

Tuttavia, ad un’analisi più attenta dei protocolli, incrociando dati biografici con gli strumenti offerti dalla psicoanalisi, è possibile ottenere un quadro più chiaro; lo psichiatra e psicoanalista Salvatore Zizolfi osserva:

“l’interpretazione dei test di Rorschach di Norimberga, e delle personalità psicopatiche in generale, non può non avvantaggiarsi delle concezioni della psicoanalisi moderna sulle perversioni, che sole permettono di illuminare adeguatamente l’analisi delle verbalizzazioni, dei comportamenti e dei contenuti.
Solo così è possibile valorizzare, nei protocolli dei gerarchi nazisti, una serie di indici psicodiagnostici che rinviano, coerentemente e concordemente, agli aspetti strutturali delle organizzazioni perverse di personalità: la propensione alla menzogna; l’aggressività e la violenza nascoste e mentite; il deterioramento delle imago paterna e materna; … l’erosione dei confini dell’Io; l’obbedienza cieca, il servilismo e l’opportunismo; l’erosione del sentimento di realtà e il diniego della realtà; … l’affermarsi di un nuovo mondo: il mondo alla rovescia, il mondo fecale, il mondo della morte”

Al netto del grande valore storico, i protocolli raccolti a Norimberga da Gilbert e Kelley presentano numerose criticità: l’eccezionale contesto della somministrazione del test; il peso delle barriere linguistiche tra inglese e tedesco; l’assenza, all’epoca della somministrazione, di una rigorosa cornice teorica ed empirica di riferimento per il test; il peso incalcolabile del transfert e del controtransfert.

Si tratta quindi di uno strumento straordinario utilizzato in circostanze uniche, su soggetti fuori dal comune. Tutti questi elementi ci permettono di contestualizzare e relativizzare il valore clinico di questi protocolli.

Nonostante questo, resta l’incredibile vicenda di un incontro tra Storia, Giustizia e Psicologia.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Gustave Gilbert – “Nuremberg Diary”;
-Niels Peter Nielsen e Salvatore Zizolfi – “Rorschach a Norimberga”;
-Damion Searls – “macchie di inchiostro: storia di Hermann Rorschach e del suo test”.

Cari Amici,oggi siete diventati 14.000.Grazie per dare anima ogni giorno a questa pagina.Con affetto,Vostro Dottor Gianf...
30/10/2025

Cari Amici,
oggi siete diventati 14.000.

Grazie per dare anima ogni giorno a questa pagina.

Con affetto,
Vostro Dottor Gianfranco Ricci

LA TORRE DI JUNGCarl Gustav Jung è stato uno dei padri della “psicologia del profondo”, un vero e proprio pioniere dell’...
30/10/2025

LA TORRE DI JUNG

Carl Gustav Jung è stato uno dei padri della “psicologia del profondo”, un vero e proprio pioniere dell’esplorazione dell’inconscio.

La sua vita fu interamente dedicata allo studio della psiche attraverso le lenti dell’antropologia, della religione, della letteratura e della mistica. Separatosi da Freud, attraversò una profondissima crisi personale: Jung scelse di “sprofondare negli abissi” della propria psiche per confrontarsi con i propri fantasmi interiori.

Si ritirò sul lago di Zurigo, a Bollingen, per vivere e lavorare in solitudine. Qui iniziò la costruzione di una torre.

Racconta Jung:
“Avevo cominciato la prima torre nel 1923, due mesi dopo la morte di mia madre. Queste date hanno un senso, perché, come vedremo, la Torre è legata ai morti. Fin dal principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò.”

In prima persona, aiutato dal cugino e pochi amici, Jung diede corpo ad un primo edificio: lo psicoanalista attraverso quell’opera cercava di ““dare una qualche rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere. O, per dirla diversamente, dovevo fare una professione di fede in pietra.”

Nei progetti di Jung la torre doveva essere una sorta di edificio primitivo; negli anni venne arricchita con edifici aggiuntivi, incisioni, immagini scolpite nella roccia.

Nel suo libro di memorie, Jung afferma che la torre “doveva essere una costruzione rotonda, con un focolare al centro e cuccette lungo le pareti. Più o meno avevo in mente una capanna africana, dove il fuoco, circondato da pochi sassi, arde nel mezzo…”

Una delle epigrafi più famose della torre riporta “Vocatus atque non vocatus, Deus aderit”: “invocato o meno, il dio si manifesta”. Con questa massima Jung indicava in modo preciso quanto per il soggetto l’esperienza dell’inconscio e della propria emotività possa prendere due strade: la via consapevole dell’individuazione oppure il subire passivamente l’irruzione dell’inconscio sulla scena della vita.

L’evoluzione psichica di Jung si rifletteva direttamente nell’espansione progressiva del progetto iniziale della torre: “Mi resi conto che dovevo costruire una vera casa a due piani, e non una semplice capanna, accoccolata, per così dire, al suolo”, testimonia Jung.

Scrive Jung:
“Dopo la morte di mia moglie nel 1955, sentii l’intima obbligazione di diventare ciò che sono. Per esprimermi col linguaggio della casa di Bollingen, mi resi conto a un tratto che la piccola sezione centrale, così acquattata, così nascosta fra le due torri, rappresentava me stesso o il mio io. Perciò, in quell’anno stesso, aggiunsi a questa sezione un altro piano. Prima non avrei potuto farlo; l’avrei considerato una presuntuosa ed enfatica affermazione di me stesso; adesso invece rappresentava la superiorità della coscienza raggiunta con la vecchia età. Con ciò, a un anno dalla morte di mia moglie, l’edificio era compiuto. Avevo cominciato la prima torre nel 1923, due mesi dopo la morte di mia madre. Queste date hanno un senso, perché, come vedremo, la Torre è legata ai morti. Fin dal principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò.”

Il lavoro psichico di esplorazione dell’inconscio si accompagna a quello giornaliero di lavoro della pietra e del legno: in continuità con una tradizione che risale fino a Platone, Jung fa i conti con la totalità, insieme psichica e corporea, dell’esperienza di sé.

Prosegue Jung:
“Mi dava la sensazione di essere rinato nella pietra. Mi appariva come un’attuazione di ciò che prima avevo solo intuito e una rappresentazione dell’individuazione, un monumento “aere perenni”.
Questo ha avuto un effetto benefico su di me, come una accettazione di ciò che sono. Naturalmente durante i lavori di costruzione non feci mai queste considerazioni; avevo costruito la casa un po’ per volta, seguendo sempre le concrete esigenze del momento: potrei anche dire di averla costruita in una specie di sogno.
Solo in seguito vidi che cosa era sorto e che era riuscita una figura significativa: un simbolo della totalità psichica. Si era sviluppato come se un vecchio seme fosse germogliato.”

Alla fine della sua vita, lo psicoanalista poteva quindi vedere nella pietra la realizzazione di un progetto più ampio, frutto delle diverse fasi della sua vita.

Conclude Jung:
“Nel 1950 eressi una specie di monumento di pietra per esprimere ciò che la Torre significa per me. […] Mi venne in mente, anzitutto, un verso latino dell’alchimista Arnaldo di Villanova (morto nel 1313). Lo scolpii nella pietra. Tradotto suona così:

Qui sta la comune pietra
Il cui prezzo è assai modesto.
Quanto più è disprezzata dagli stolti,
tanto più è amata dai saggi!”

L’articolo completo è disponibile.

Per approfondire:
-Carl Gustav Jung – “Ricordi, sogni, riflessioni”;
-Sandra Petrignani – “Carissimo Dottor Jung”;
-Aniela Jaffé – “In dialogo con Carl Gustav Jung”.

EUTANASIAIl dibattito pubblico italiano sul tema del “fine vita” fatica a raggiungere una posizione condivisa. I veti de...
27/10/2025

EUTANASIA

Il dibattito pubblico italiano sul tema del “fine vita” fatica a raggiungere una posizione condivisa.
I veti delle diverse forze politiche costituiscono un importante ostacolo alla promulgazione di una legge che offra una risposta a coloro che soffrono senza speranza di guarigione.

Non sono molti gli intellettuali a spendersi attivamente per contribuire al dibattito su questo tema di civiltà; tra questi spiccano le interessanti considerazioni offerte da due psicoanalisti: Umberto Galimberti e Massimo Recalcati.

Pur affrontando il tema da vertici differenti, i due analisti sottolineano la necessità di raggiungere questo fondamentale obiettivo di civiltà: una legge che riconosca il diritto ad una fine dignitosa per coloro che soffrono di malattie incurabili.

Osserva Umberto Galimberti:

“Perché obbligare una persona che soffre come un cane, che invoca la morte, perché non gliela concedete? Rispondono: “perché la vita è un dono di Dio”.
Benissimo: se uno mi fa un dono, l’utilizzo di questo dono non dipende da chi me lo ha donato. Il dono è mio, me lo gestisco io. Questa è la mia vita.
Chiedo a coloro che animano il “Movimento per la vita di decidersi: quando uno nasce, deve nascere naturalmente… oggi rimane opposizione alla fecondazione assistita, che sia omologa oppure eterologa, peggio se è gestazione per altri; cioè niente tecnica. Quando invece uno muore tecnica à go go.
Lasciamolo morire. Se allora uno nasce per natura, lo stesso principio vale anche per la morte.”

Galimberti fa propria una concezione profondamente laica e basata sul concetto di autodeterminazione: offrire al soggetto la libertà di scegliere cosa fare della propria vita.

Veniamo ora alle parole di Recalcati.
In una recente intervista, pubblicata su “La Repubblica” (08/07/2025) , lo psicoanalista afferma:

“Manca nel nostro Paese una legge sul fine vita… Di questa legge esiste una esigenza collettiva tanto ampia quanto sistematicamente misconosciuta dalla politica… salvo rarissime eccezioni, per esempio quella di Marco Cappato.

La legge 219 sul biotestamento non può essere sufficiente. Il suicidio assistito rimane in ogni caso fuori legge con la conseguenza che i medici e tutti coloro che lo favoriscono sono esposti a pesanti rischi penali. Per questa ragione migliaia di italiani sono costretti all’esilio in Svizzera o al suicidio solitario.

Serve al contrario una Legge che riconosca a chi è sconfitto dalla malattia e non ha più speranze né di guarigione né, soprattutto, di una vita dignitosa, il diritto di scegliere di morire anticipando la cosiddetta morte naturale. Ma si può pensare davvero che coloro che estenuati da una malattia che non lascia scampo e che magari li ha consumati crudelmente per anni o addirittura decenni, non abbiano desiderato profondamente di continuare a vivere?
Che cosa li avrebbe spinti se non il desiderio di vita a sostenere la lotta impari contro la tragedia della malattia? E poi che cosa significa davvero “vivere”? Significa essere semplicemente vivi? Vivere coincide davvero con questa visione brutalmente materialistica della vita come mero respiro vitale, come mera sopravvivenza? Si può ridurre l’essere dell’uomo al suo corpo biologico? Non è questa una opzione rozzamente materialistica?

Non si dovrebbe invece lasciare al soggetto sofferente la decisione relativa alla sua capacità di resistenza, alla sua capacità di sopportare un’esistenza mutilata e oppressa da una sofferenza che esclude ogni possibilità terapeutica e ogni possibile speranza di miglioramento?

Una legge sul fine vita non sancirebbe un diritto alla morte, ma quello a una vita dignitosa in grado di decidere il suo termine. In questo senso essa dovrebbe accompagnarsi a un potenziamento delle cure palliative per rendere l’eventuale decisione di porre fine alla propria vita la più libera possibile. Riconoscere il diritto alla resa non sponsorizza la morte come soluzione, ma tiene conto dei limiti umani della vita. La resa di chi decide per la propria morte di fronte all’inesorabilità del male non è un atto di viltà ma una presa d’atto di una sconfitta drammatica che merita tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà. Come si fa a non capire? Come si fa a imporre ad altri la nostra misura della vita? Come si può costringere altri a vivere una vita che non è più la loro e che assomiglia giorno dopo giorno sempre più alla morte? In questo senso la dichiarazione di resa deve poter essere sovrana…

Con la conseguenza che la nostra civiltà ha completamente smarrito la grammatica della resa. L’idea stessa che ci si possa arrendere alla sventura e all’atrocità di una malattia che non lascia scampo, l’idea che ci si possa congedare con dignità dal tempo del mondo, può apparire intollerabile, quasi oscena. Eppure, è proprio nella resa che risuona una verità profonda. Non sempre il desiderio di vivere può trovare la gioia della sua affermazione. Non si ammala solo chi non vuole vivere. Si ammala anche chi vorrebbe vivere ancora. È una cattiva psicologia quella che vorrebbe sopprimere il carattere fatale del male.”

Le parole di Recalcati insistono sulla dimensione della dignità come elemento essenziale per umanizzare l’esperienza della vita: non si tratta semplicemente della dimensione biologica della vita, del corpo vivente; in gioco è ciò che rende umana la vita, in salute è in malattia.

Recalcati propone di recuperare la dignità che accompagna la dimensione della resa, intesa come limite intrinseco alla dimensione umana: non tutto è possibile all’uomo e non tutte le malattie possono guarire; tuttavia, al soggetto resta la possibilità di conservare, anche nella fine, il valore della propria esperienza.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
Recalcati – “A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo”;
Spinsanti – “Scelte etiche ed eutanasia”;
Furnari – “Alle frontiere della vita eutanasia ed etica del morire”.

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Naples

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