
14/09/2025
Grazie a tutti per ieri sera. Trascrivo qui di seguito il passaggio che abbiamo letto dopo la meditazione:
La comunità monastica buddhista è il prerequisito affinché il buddhismo possa esistere in una determinata società. […] Nella società tradizionale buddhista l’unico modo che ha il laicato per conoscere gli insegnamenti del Buddha è entrare a contatto con la comunità monastica. Il Sangha vive quell’insegnamento, lo conserva nelle scritture e lo tramanda alla comunità più ampia. Non c’è buddhismo senza il Sangha. Col Vinaya si prova quindi, in questo senso, a fare del Sangha una comunità stabile e funzionante: grande importanza è infatti attribuita all’unità comunitaria e alla risoluzione delle dispute. Stando alle regole ivi riportate, non c’è un vero e proprio capo all’interno del Sangha, e l’autorità risiede nel consenso e nelle sentenze dei più anziani. La gerarchia formale del Sangha si basa sull’anzianità di servizio, calcolata a partire dall’ora e dal giorno dell’ordinazione. Se il Sangha sopravvive in diverse culture da più di due millenni è grazie al successo del Vinaya, che ha costruito un sistema forte abbastanza da impedire la disgregazione della comunità, ma in grado di adattarsi con flessibilità a situazioni più specifiche.
Nel buddhismo la vita monacale è necessaria alla vita spirituale, e non a caso uno dei principali ambiti della disciplina monastica è proprio lo stile di vita che conduce alla realizzazione del cammino tracciato dal Buddha. È forse più difficile misurare il successo del Vinaya in questo frangente, poiché ahimè non vi sono dati statistici sul numero di ‘santi’ che ha incoraggiato, siano essi bodhisattva, ‘coloro che sono entrati nel flusso’, ‘coloro che fanno ritorno una sola volta’, ‘coloro che non fanno ritorno’, o arhat. Benché in certi contesti si tenda ormai a considerare quella dell’arhat una condizione impossibile da raggiungere, l’opinione diffusa che, ad esempio, il monaco thailandese Ajahn Mun, morto nel 1949, fosse tale è prova del fatto che l’illuminazione è ancora un’aspirazione reale per molti monaci buddhisti. […]
Lo stile di vita del monachesimo buddhista si fonda su un rapporto di fiducia tra i monaci e i loro sostenitori. Accettando il sostegno che la comunità laica garantisce con vestiti, cibo e alloggi, il monaco sottoscrive una specie di contratto sociale, e diventa sua responsabilità vivere in un certo modo, cioè vivere una vita santa e spirituale (brahmācarya) al meglio delle sue possibilità. Se il buddhismo è impensabile senza il Sangha, questo è impensabile senza il sostegno laico. Alla luce di tale contratto, i testi si sforzano di riconoscere l’inappropriatezza di certi comportamenti, come passare il tempo a giocare e divertirsi, o dilettarsi con l’astrologia e con le varie forme di divinazione. Sembra che il punto non sia tanto condannare queste pratiche in quanto tali, ma rinforzare piuttosto il principio secondo il quale un monaco buddhista accetta il sostegno della comunità laica con l’obiettivo di praticare la vita spirituale, ed è degno di tale aiuto solo nella misura in cui si impegna a mettere in atto gli insegnamenti del Buddha, e non per via delle sue abilità di medico o di astrologo. È per questo che mentire rispetto ai propri raggiungimenti spirituali vuol dire compromettere il rapporto di fiducia che si instaura con la comunità laica. Qualora il carico postogli sulle spalle fosse troppo oneroso, un monaco può sempre consolarsi con un detto del Buddha: se si è anche solo per un brevissimo istante rimasti assorti nella meditazione sulla gentilezza amorevole, allora il cibo delle elemosine non è andato sprecato.
Rupert Gethin, I fondamenti del buddhismo, Ubaldini, 2024.