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Genitore disinteressato e assente: conseguenze legaliPubblicato da “La legge per tutti”  il 30 Maggio 2022Cosa fare cont...
30/05/2022

Genitore disinteressato e assente: conseguenze legali
Pubblicato da “La legge per tutti” il 30 Maggio 2022

Cosa fare contro un padre che si disinteressa del figlio, non lo va a trovare e non gli ha mai pagato gli alimenti.
A carico dei genitori non esiste solo l’obbligo di mantenere economicamente i figli. C’è anche il dovere di prendersene cura, assisterli, partecipare ai momenti più importanti della loro vita, non far mancare loro l’affetto che solo un padre o una madre può dare. Le conseguenze legali per il genitore disinteressato e assente sono particolarmente gravi. Ecco alcune importanti informazioni di cui tenere sempre conto.
Obbligo di mantenimento: in cosa consiste?
I genitori devono garantire ai figli lo stesso tenore di vita di cui essi godono. Non devono far mancare nulla di quanto necessario non solo alla sopravvivenza (vitto e alloggio) o alla salute (spese mediche) ma anche all’istruzione, alla vita di relazione sociale (gite scolastiche, feste) e al divertimento (sport, riunioni con amici).
Il mantenimento è a carico tanto del padre quanto della madre, in proporzione alle rispettive capacità economiche, sia che questi siano sposati che conviventi. L’obbligo non viene meno neanche in caso di separazione della coppia, con l’unica differenza che, in tale ipotesi, il genitore convivente fa la propria parte in via diretta, ossia acquistando tutto ciò che serve ai figli; invece il genitore non convivente provvede alla propria quota tramite un assegno mensile determinato di comune accordo con l’altro genitore o, in caso contrario, liquidato dal giudice. Per quanto invece riguarda le spese straordinarie – quelle cioè imprevedibili, che sorgono saltuariamente (come quelle mediche o le tasse universitarie) – la ripartizione avviene tra i due genitori in misura paritaria (salvo differente quantificazione da parte del tribunale).
Mantenimento: fino a quando?
Il mantenimento è dovuto finché i figli sono minorenni e, una volta maggiorenni, fino a quando non raggiungono le condizioni per poter rendersi autonomi da un punto di vista economico. Il che significa che essi devono seguire un programma formativo volto ad acquisire una capacità lavorativa e fin quando dura tale fase hanno diritto al mantenimento. Una volta ottenuti gli strumenti per poter diventare autosufficienti o nel caso in cui il figlio non si dia da fare per formarsi allora il mantenimento viene meno.
Secondo la Cassazione, raggiunti i 30/35 anni (ma anche prima per chi non ha voluto frequentare l’università), si può presumere che lo stato di disoccupazione del figlio spenda da sua inerzia, ragion per cui viene meno il diritto al mantenimento.
Cosa succede se il genitore non mantiene il figlio?
L’omesso mantenimento dei figli costituisce un illecito penale: il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ragion per cui il genitore che si disinteressa di versare gli alimenti può essere denunciato.
Contro di lui inoltre si può agire in via civile per ottenere il pagamento del dovuto anche tramite una trattenuta sulla busta paga, autorizzata dal giudice e notificata direttamente al suo datore di lavoro.
Obbligo di mantenimento: da quando parte?
Indipendentemente da quando arriva la sentenza del giudice a quantificare l’importo del mantenimento, l’obbligo di provvedere ai bisogni del figlio scatta dalla nascita di questi, sicché la sentenza del tribunale avrà valore retroattivo e il genitore inadempiente sarà tenuto a versare gli alimenti sin dal primo giorno di vita del neonato.
Conseguenze legali per il genitore assente e disinteressato
Il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un danno, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella Costituzione un elevato grado di riconoscimento e di tutela.
Come chiarito più volte dalla giurisprudenza , il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio (sia esso nato da una relazione di fatto o da un matrimonio) integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano nella Costituzione la loro consacrazione ufficiale.
Tale condotta costituisce un illecito civile e consente al figlio – così come al genitore con lui convivente nel caso in cui il primo sia minorenne – di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti proprio per via della carenza affettiva. Questo perché, come anticipato, la responsabilità genitoriale sorge al momento della nascita del figlio giacché deriva dal fatto della procreazione e quindi, non cessa per effetto della separazione o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Il danno va comunque provato nel suo ammontare dal figlio danneggiato, secondo il principio generale dell’onere della prova, ricorrendo anche a indizi, attraverso cui il giudice ben può dedurre la lesione sulla base di un principio di probabilità.
La contestazione comunque deve riguardare fatti precisi, specifici e circostanziati, non mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale e ipotetico.
La Cassazione ha consolidato la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale.

Concessioni demaniali marittime: i recenti approdi giurisprudenzialiUn’analisi della disciplina, delle pronunce e della ...
26/05/2022

Concessioni demaniali marittime: i recenti approdi giurisprudenziali
Un’analisi della disciplina, delle pronunce e della dottrina sul regime giuridico e sull’uso dei beni pubblici

Da Altalex avv. Di Giancarlo Marino

Pubblicato il 26/05/2022

Negli ultimi decenni la disciplina dei beni pubblici è stata oggetto di una oculata rivisitazione da parte della giurisprudenza e della dottrina al fine di conformarla al nuovo volto del diritto amministrativo improntato alla piena trasparenza, concorrenza ed efficienza dell’azione amministrativa.
Come è noto la disciplina dei beni pubblici è enucleata nel codice civile agli artt. 822 ss. c.c. oltre che in speciali disposizioni di legge; più nello specifico il codice civile suole distinguere la proprietà dei beni pubblici in tre macrocategorie: i beni demaniali; i beni del patrimonio indisponibile; i beni del patrimonio disponibile.
Nelle prime due categorie vi rientrano i beni tassativamente indicati dal codice civile muniti di una sorta di “destinazione funzionale” all’interesse pubblico che ne connota il regime giuridico differenziandolo da quello sancito dei beni privati che seguono le regole della piena disponibilità, alienabilità e pignorabilità.
Difatti, sia i beni demaniali sia quelli del patrimonio indisponibile non sono alienabili, usucapibili, pignorabili e devono appartenere allo Stato o ad altro ente pubblico (c.d. requisito di soggettività pubblica). Inoltre, tali beni sono altresì assoggettati a specifiche regole sull’uso del bene: uso diretto della pubblica amministrazione; uso collettivo a favore dell’intera popolazione; uso particolare a favore di un privato attraverso il procedimento autorizzazione; uso eccezionale tramite il provvedimento di concessione; uso promiscuo che avvantaggia sia la collettività che la pubblica amministrazione.
Viceversa, i beni del patrimonio disponibile, quali ad esempio il denaro pubblico, sono soggetti alle regole classiche sancite dal codice civile.
Ora, con il passare degli anni si è assistito ad un progressivo sgretolamento dei tratti distintivi dei beni pubblici, di tal che la dottrina usa più precisamente il termine di “proprietà pubblica” in modo da evidenziare che di pubblicistico vi è solo la titolarità formale del bene.
Invero, tale rivoluzione copernicana trae la sua origine dal procedimento di privatizzazione della pubblica amministrazione e dalla nascita dei c.d. common goods ovvero quei beni, anche dal carattere immateriale, funzionali al pieno ed armonioso sviluppo dell’uomo ex artt. 2, 42 Costituzione.

Più nello specifico la privatizzazione, prima formale e poi sostanziale, ha fatto venir meno il requisito della necessaria titolarità del bene ad una pubblica amministrazione in quanto, ciò che conta è che sul bene sia impresso un vincolo di destinazione funzionale al pubblico interesse.
Ciò è confermato dal passaggio da pubbliche amministrazioni al paradigma societario da parte delle Poste Italiane o delle Ferrovie dello Stato che, nonostante la privatizzazione, detengono beni con finalità pubblicistica.
Anche il requisito dell’incommerciabilità è venuto meno grazie ai processi di “cartolarizzazione” dei beni pubblici tramite i quali le pubbliche amministrazioni alienano onerosamente il bene ad una società terza che procederà alla vendita del bene ai privati. In ogni caso, è doveroso sottolineare che il bene pubblico, seppur divenuto di proprietà del privato acquirente, comunque manterrà la sua destinazione agli interessi pubblicistici che verranno tutelati attraverso l’esercizio del potere di vigilanza e di sanzione da parte dell’amministrazione competente.
Infine, crolla anche il dogma dello ius excludendi per i beni a vocazione collettiva funzionali all’armonioso sviluppo dell’essere umano: i c.d. beni collettivi o common goods.
Questi vengono definiti quali beni a vocazione ontologicamente collettiva che, data la scarsità naturale, devono essere soggetti a precise regole di uso al fine di evitarne il depauperamento; in questa categoria vengono annoverati i beni culturali, naturali ed immateriali quali le bellezze storiche, il paesaggio, l’ambiente, l’aria le spiagge.
In questa sede è importante sottolineare il regime giuridico dei beni pubblici.
Come è stato accennato la proprietà del bene pubblico può appartenere allo Stato oppure ad un privato; nel primo caso, dato che si tratta di proprietà pubblica sostanziale, allo Stato compete un potere organizzativo concernete le modalità di uso e sfruttamento del bene nei limiti della destinazione funzionale del bene.
Viceversa, quando il bene pubblico appartiene ad un privato, lo Stato deve, non solo organizzare il modo di uso del bene, ma anche esercitare un potere di vigilanza o sanzionatorio nel caso in cui il privato si renda inadempiente rispetto alla destinazione pubblica del bene.
La concessione di beni
Lo strumento principe per attribuire l’uso esclusivo di un bene ad un privato è rappresentato dal provvedimento di concessione.
La concessione di beni viene definita quale species del più ampio genus dei provvedimenti ampliativi della sfera del privato, portatore di un interesse legittimo pretensivo, finalizzata ad una più efficiente gestione della “cosa pubblica” sulla scorta dei principi di buon andamento, economicità ed effettività ex art. 97 Cost. Più precisamente il provvedimento concessorio viene annoverato quale esempio di “accordo amministrativo” ex art. 11 l. 241/90 mediante il quale una pubblica amministrazione ed un privato concordano il contenuto del provvedimento, al quale accede un negozio di diritto privato riguardante gli aspetti economici, tramite il quale al privato viene trasferito l’uso del bene, dei poteri autoritativi e, al contempo, viene specificata la destinazione economica del bene.
Alla luce di tali considerazioni, appare evidente la differenza con altri istituti similari quali le autorizzazioni, le concessioni di lavori e di servizi e gli appalti.
L’autorizzazione è un provvedimento amministrativo attivo volto a rimuovere un limite pubblicistico all’esercizio di diritti, facoltà e poteri del privato di cui è già titolare. Secondo l’impostazione giurisprudenziale dominante nel caso di provvedimento autorizzatorio la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere un giudizio con un limitato tasso di discrezionalità rappresentato dall’assenza di pregiudizi per l’interesse pubblico dall’emanazione del provvedimento favorevole al privato.
Viceversa, nel caso di concessioni e di appalti finalizzati all’erogazione di lavori o servizi la pubblica amministrazione emana un provvedimento traslativo\costitutivo di una utilità che non apparteneva al privato. In tali casi l’amministrazione procedente attribuisce diritti e poteri al privato esercitando una ampia discrezionalità tecnica ed amministrativa attraverso la procedura enucleata dal codice dei contratti pubblici.
Le concessioni demaniali marittime
Alla luce delle considerazioni sopra esposte si può procedere all’analisi dello specifico tema delle concessioni demaniali marittime oggetto di un vivo dibattito giurisprudenziale in ragione dei plurimi interventi legislativi finalizzati a prorogare le concessioni già in vigore nel nostro paese.
Prima del recepimento della direttiva CE nr. 123/2006 la concessione di beni pubblici avveniva attraverso un provvedimento c.d. “fiduciario” con il quale la pubblica amministrazione attribuiva il diritto di gestione al privato senza lo svolgimento di un procedimento di evidenza pubblica a monte.
Inoltre, veniva assicurato al privato\gestore un diritto di insistenza che consisteva in un diritto di prelazione sul bene nel caso di nuova scelta del concessionario alla scadenza del contratto.
La c.d. direttiva Bolkestein l’Unione Europea ha sancito la necessità di procedure idonee per l’attribuzione di beni ai privati in piena conformità ai principi di libertà di stabilimento e di concorrenza ex art. 1 direttiva CE nr. 123/2006 e art. 49 TFUE.
Più nello specifico l’art. 12 dell’anzidetta direttiva sancisce che qualora il numero di autorizzazioni sia limitato in ragione della scarsa quantità delle risorse naturali, gli Stati membri applicano una procedura di selezione per la selezione dei candidati potenziali che sia munita dei caratteri di piena pubblicità, trasparenza e non discriminazione.
L’art. 12 della direttiva del 2006 ha comportato la riforma dell’art. 37 del codice della navigazione che assicurava il diritto di preferenza al precedente concessionario in caso di rinnovo, oltre ad aver imposto alle pubbliche amministrazioni l’espletamento di seri provvedimenti di selezione del concessionario.
Tuttavia, già dal 2009 il governo aveva disposto una serie di proroghe delle concessioni già in vigore, prima dal 2009 sino al 2015, poi sino al 2020 e, da ultimo, sino al 31.12.2033.
La questione delle proroghe delle concessioni demaniali marittime e lacuali ha destato un vivo dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla compatibilità con i principi del libero stabilimento e della piena concorrenza ex art. 49 TFUE e artt. 1 e 12 della direttiva CE nr. 123 del 2006.
Più nello specifico il TAR Lecce ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in merito ad una serie di quesiti: se la pubblica amministrazione possa disapplicare la norma interna; se sia direttamente applicabile la direttiva Bolkestein; cosa succede ai rapporti pendenti e quali siano le conseguenze per i privati.
Gli interventi dell’Adunanza Plenaria del 2021 tra poteri conformativi e primato del diritto dell’Unione Europea
Con le sentenze nr. 17 e 18 del 2021 l’Adunanza Plenaria ha sancito che le norme che hanno disposto la proroga automatica delle concessioni sono soggette a disapplicazione, anche da parte delle pubbliche amministrazioni, poiché in contrasto con gli artt. 49, 101 TFUE e con l’art. 12 della direttiva Bolkestein. Inoltre, la pubblica amministrazione non deve agire in autotutela al fine di eliminare gli effetti delle proroghe in quanto cessano automaticamente gli effetti della l. 126 del 2020 in qualità di legge-provvedimento.
Infine, l’adunanza Plenaria ha stabilito, mediante il ricorso al prospective overruling, la scadenza delle proroghe il 31.12.2023 al fine di porre un pronto adeguamento al diritto europeo entro un termine proporzionale all’espletamento di nuove gare. In ogni caso, al precedente concessionario spetta un indennizzo per lesione dell’affidamento e per le opere nel frattempo costruite sul bene demaniale.
Entrando nel merito delle pronunce in oggetto, la Plenaria ha spiegato che la proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniali marittime effettuata con la legge del 2020 mina irrimediabilmente la libertà di stabilimento e la libera circolazione di servizi, con conseguente danno al mercato, tutelate dagli artt. 49, 56 TFUE.
A tal proposito il Consiglio di Stato ha precisato che i beni del demanio siano ontologicamente collegati ad un interesse transfrontaliero per la loro conformazione, ubicazione e vocazione turistica anche alla luce del fatto che il patrimonio costiero italiano risulta essere uno dei beni naturalistici più attrattivi del mondo.
Ed invero, secondo l’Adunanza Plenaria non vi sono dubbi che l’art. 12 della direttiva Bolkestein, nonostante usi il termine “autorizzazione” si riferisca, invece, a qualsiasi atto amministrativo che attribuisca un vantaggio patrimoniale al privato con ciò ricomprendendo al suo interno anche le concessioni di beni.
Viene altresì sottolineato che l’art. 12 della direttiva trova applicazione per le concessioni marittime e lacuali in quanto il concetto di “scarsità naturale delle risorse” debba essere inteso in senso relativo, sia a livello qualitativo che quantitativo, poiché i dati del Ministero delle Infrastrutture evidenziano come sia potenzialmente limitato l’ingresso di nuovi operatori economici nella gestione dei beni per via della scarsità delle spiagge rispetto a quelle oggetto di proroghe.
Ancora si specifica che l’art. 12 della direttiva nr. 123 del 2006 ha efficacia diretta nel nostro ordinamento in quanto “self-executing” proprio in ragione della disciplina di dettaglio che, in definitiva, non lascia margini di manovra agli Stati membri che sono, di conseguenza, obbligati all’espletamento di procedure di evidenza pubblica trasparenti, non discriminatorie e pubbliche.
Proprio alla luce delle considerazioni sopra esposte l’Adunanza Plenaria ritiene di non essere obbligata a sollevare la questione innanzi alla Corte di Giustizia poiché la conseguenza logica della diretta efficacia della direttiva del 2006 è la disapplicazione della normativa interna sia per il giudice che per la pubblica amministrazione.
Rispetto agli effetti conformativi delle sentenze della Plenaria sono stati enucleati i seguenti principi di diritto.
Innanzitutto, si ritiene che la legge che ha prorogato le concessioni sino al 2033 è auto-esecutiva in qualità di legge-provvedimento; di conseguenza, gli atti della P.A. che abbiano prorogato le singole concessioni non devono essere oggetto di autotutela poiché si tratti di atti amministrativi di mera conferma di un effetto legale.
Tuttalpiù l’amministrazione può evidenziare l’inefficacia della legge-provvedimento rendendo pubblica tale decisione.
Inoltre, l’interpretazione adottata dal Consiglio di Stato ha efficacia retroattiva e colpisce, allora, anche tutte le concessioni che sono stato oggetto di giudicato al fine di piena attuazione ai principi di libertà di stabilimento ed effettiva concorrenza ex artt. 49, 56 TFUE e art. 12 direttiva CE nr. 123 del 2006.
In ragione della pregnanza degli interessi economici in gioco e considerata la portata dirompente della disapplicazione in toto della legge nazionale in tema di proroghe, la Plenaria ha fatto ricorso al c.d. “Prospective overruling” per modulare gli effetti temporali della propria decisione. Così facendo è stato previsto uno iato temporale necessario all’espletamento di nuove procedure di evidenza pubblica per le concessioni demaniali marittime e lacuali nell’attesa di un futuro intervento del legislatore. Difatti, l’Adunanza Plenaria ha sancito che le concessioni in atto produrranno i propri effetti fino al 31 dicembre 2023 e che, nel caso di scadenza del predetto termine, esse cesseranno di produrre qualsivoglia effetto giuridico.
Infine, il Consiglio di Stato “invita” le pubbliche amministrazioni ad indire nuove gare per la concessione di beni demaniali sancendo, altresì, dei principi che queste possono seguire nel loro espletamento.
Nello specifico si invita le PPAA a considerare il legittimo affidamento maturato dai concessionari uscenti concedendo a questi un congruo indennizzo in base alle circostanze del caso concreto (ad esempio tenendo conto degli investimenti infrastrutturali dei privati per la miglior gestione del bene).
Inoltre, nell’espletamento dei bandi di gara le pubbliche amministrazioni possono attribuire punti aggiuntivi ai concessionari uscenti che abbiano mostrato profili di particolare esperienza e professionalità.
Le critiche dottrinali
L’intervento dell’Adunanza Plenaria ha avuto un impatto mediatico e dogmatico senza precedenti tanto che in dottrina si è parlato di “para-creazionismo giurisprudenziale” sotto molteplici profili.
Invero, già all’indomani delle pronunce della Plenaria numerose sono state le critiche portate avanti dalla dottrina.
Ora, parte della dottrina dubita seriamente dell’interpretazione sulla direttiva Bolkestein patrocinata dal Consiglio di Stato in ragione di una pluralità di argomenti letterali e sistematici.
In primo luogo, viene osservato che il concetto di “autorizzazione” richiamato all’art. 12 della direttiva debba essere interpretato in senso stretto ovvero riferibile solo a quei provvedimenti che rimuovono un limite pubblicistico di una facoltà appartenente al privato e non anche alle concessioni di beni demaniali.
Inoltre, si precisa che anche l’interpretazione sul concetto di “scarsità naturale” risulta essere errata in quanto tale concetto deve essere inteso solo in senso naturalistico e non giuridico rispetto al patrimonio costiero già oggetto di proroghe. Del resto, dato che l’Italia ha una conformazione geografica tale da vantare un vasto territorio costiero, ricco di spiagge e golfi, e fuor dubbio che tali beni non siano “scarsi”.
Altra parte della dottrina ha sottolineato, invece, che la direttiva nr. 123 del 2006 non abbia efficacia diretta nel nostro ordinamento poiché è sprovvista dei requisiti necessari per ritenerla dettagliata. Difatti una direttiva è auto-esecutiva quando risulta talmente dettagliata, in tutte le sue parti, che non lasci margini discrezionali agli Stati membri in ordine alla sua concreta attuazione; grado di precisione e determinatezza che manca nella direttiva nr. 123 del 2006 in quanto vengono lasciati certi margini di discrezionalità agli Stati membri.
Ebbene, tale dottrina richiama diversi articoli della direttiva in oggetto evidenziano il dato semantico utilizzato dal legislatore europeo: “gli Stati membri rispettato, adottano” lasciando così intendere che gli Stati possono conformarsi ai principi in essa contenuti con margini di discrezionalità.
Le critiche più aspre che sono state mosse dalla dottrina riguardano gli effetti conformativi delle sentenze emanate dall’Adunanza Plenaria.
Più nel dettaglio parte della dottrina ravvisa uno “straripamento delle funzioni giurisdizionali” in quanto sono state emanate “sentenze-delega” nella quale l’Adunanza Plenaria ha esercitato una funzione legislativa.
Ciò si desume, in particolare, dalla portata dell’annullamento parziale della legge sulle proroghe con la sostituzione surrettizia del termine, fissato dal legislatore nel 2033, e ridotto al 2023; termine questo che non ha alcuna base legale in quanto, come è noto, la funzione legislativa è ad appannaggio esclusivo del legislatore.
Sebbene tale dottrina riconosca che il Consiglio di Stato ben possa modulare gli effetti dell’annullamento, soprattutto al fine di salvaguardare interessi pubblici rilevanti, ciò non può condurre alla modifica di un atto legislativo.
Le medesime considerazioni valgono, altresì, per la parte della sentenza dove vengono fissati sia i criteri di liquidazione dell’indennizzo sia i criteri per l’assegnazione dei punti aggiuntivi ai precedenti concessionari.
In fine, la dottrina ritiene necessario un immediato intervento del legislatore che si conformi ai principi europei della libertà di stabilità e della libera circolazione dei servizi tramite la riduzione dei termini delle proroghe e mediante la fissazione dei criteri di attribuzione di punteggi aggiuntivi per le future gare.
In definitiva, la tematica delle concessioni demaniali marittime rappresenta oggi un osservatorio privilegiato in continuo divenire dove si scontrano i principi comunitari di libertà di stabilimento e di concorrenza con l’approccio tradizionale del legislatore che predilige le proroghe delle concessioni.
In questo contesto, l’Adunanza Plenaria si è fatta portatrice dei principi europei con delle pronunce particolarmente coraggiose in ragione del sottile limite che intercorre tra il potere conformativo della sentenza e lo straripamento di potere.
Insomma, un Consiglio di Stato “che non ha avuto paura di decidere ed, anzi, ha incoraggiato la pubblica amministrazione” a conformarsi ai ben noti principi comunitari che si pongono quali baluardi imprescindibili di un diritto amministrativo moderno volto alla migliore tutela dell’interesse pubblico.

da "La Legge per tutti   17 maggio 2022"Quando è possibile ottenere un risarcimento del danno e come fare a dimostrarlo....
20/05/2022

da "La Legge per tutti 17 maggio 2022"

Quando è possibile ottenere un risarcimento del danno e come fare a dimostrarlo.
Spesso, dinanzi a un torto subito, si invoca subito una pretesa di risarcimento. Ma non sempre i nostri giudici sono inclini a riconoscere tali richieste. Non capita di rado, così, che pur avendo ragione, si perda la causa. Per quali ragioni? Quali danni non possono essere risarciti, seppur sussistenti? Cerchiamo di fare il punto della situazione.

Perché un danno non può essere risarcito?
Ci sono due ragioni per cui è possibile che una richiesta di risarcimento del danno non venga accolta: una di carattere processuale e l’altra sostanziale.
Quanto alla prima, spetta a chi chiede il risarcimento dimostrare di aver subito un danno. È ciò che tecnicamente viene detto onere della prova. Tale prova può essere fornita con qualsiasi mezzo: testimonianze, documenti o anche indizi (purché siano più di uno e, tra loro, precisi e concordanti).
La richiesta di risarcimento non può basarsi sulla semplice presunzione che dall’illecito sia per forza derivato il danno: il danno va dimostrato e non può ritenersi, di per sé, già insito nella condotta vietata.
Tanto per fare un esempio, il fatto che il vicino di casa faccia baccano la notte non significa in automatico che l’inquilino al piano di sotto non sia riuscito a dormire e quindi abbia diritto al risarcimento (ben potendo essere fuori casa o magari non avere alcuna voglia di riposare).

Insomma, non è corretto pensare che vi sia un’equazione diretta tra illecito e danno. Il danno richiede una prova specifica circa la sua esistenza. Non è invece necessario dimostrare l’ammontare del danno quando questo non possa essere quantificato (si pensi proprio al danno da disturbo alla quiete pubblica): in tal caso, il giudice lo quantificherà secondo “equità”, ossia in base al caso concreto e secondo quanto gli appare giusto.
La seconda ragione per cui un danno potrebbe non essere risarcito, dicevamo, è di carattere sostanziale. Come infatti vedremo meglio a breve, la giurisprudenza ritiene che i piccoli fastidi della vita quotidiana non possano intasare le aule giudiziarie: ragion per cui se il livello del danno è minimo o irrisorio (si pensi a un’email di spam, facilmente cancellabile) la richiesta di risarcimento non può essere accolta.

Quali danni possono essere risarciti?
I danni risarcibili sono solo quelli effettivi, concreti, attuali e soprattutto dimostrabili.
In pratica, non si può chiedere un risarcimento per un danno paventato, ma non ancora concretizzatosi. Il timore di subire, in futuro, un pregiudizio – di cui pertanto non si può ancora dare prova – non può consentire di ottenere il risarcimento.
Inoltre, possono essere risarciti solo i danni dimostrabili. Chi dichiara di aver subito un danno ma sia senza prove non può ottenere il risarcimento.

Quali sono i risarcimenti?
Il risarcimento può riguardare sia i danni patrimoniali che quelli non patrimoniali.
I danni patrimoniali sono di due tipi:
• danno emergente: sono le spese e le perdite conseguenti alla condotta illecita. Si pensi a un’auto distrutta che si è dovuto rottamare; oppure ai costi del carrozziere; alle spese mediche, ecc.
• lucro cessante: è il guadagno che si è perso a causa dell’illecito. Si pensi a un imprenditore che, a causa di un infortunio, perda la possibilità di concludere un grosso affare.
Molto più ampia è la categoria dei danni non patrimoniali nella quale rientrano tutti quelli che non incidono direttamente sulla ricchezza del danneggiato. I principali di essi sono:
• danno biologico: è la perdita di funzionalità del corpo o di una parte di essa, che può essere totale o parziale, momentaneo o definitivo. Si pensi a una gamba ingessata per un mese, a un braccio che non potrà più articolare correttamente a seguito di un incidente, ecc.;
• danno morale: è la sofferenza interiore che deriva dall’illecito, il dolore non solo psicologico ma anche fisico;
• danno esistenziale: è il danno alla vita di relazione. Si pensi a una persona che, a causa di uno sfregio al volto, si vergogni di uscire oppure a un uomo che, avendo subito un trauma all’apparato riproduttivo, non possa più avere rapporti con donne.
Quali danni non possono essere risarciti?
La Cassazione a sezioni unite, con due famose sentenze del 2008 (le cosiddette sentenze gemelle) ha stabilito importanti criteri in materia di risarcimento del danno non patrimoniale.
La Corte ha detto che non è possibile risarcire i cosiddetti “danni bagatellari” ossia i danni futili o irrisori, oppure causati da condotte prive del requisito della gravità.
Pertanto, la liquidazione di danni non patrimoniali non gravi, o causati da offese non serie, rischia di essere rigettata dal giudice. Ecco alcuni esempi di danni non risarcibili:
• il breve ritardo di un mezzo pubblico;
• un tacco che si rompe su una grata sull’asfalto, senza conseguenze fisiche;
• un taglio di capelli sbagliato;
• una email di spam o la telefonata di un call center;
• un ortaggio guasto all’interno di una cassetta di frutta;
• gli escrementi del cane o del gatto del vicino sulla propria piantina;
• la mancata attivazione di un’utenza telefonica per pochi giorni;
• il disservizio alla luce per poche ore.
Sempre la Cassazione ha ribadito che la risarcibilità di un pregiudizio non patrimoniale presuppone che la lesione sia grave (cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile, vale a dire non consista in semplici disagi o fastidi.
Secondo la giurisprudenza, la lesione di valori costituzionalmente protetti accede alla tutela risarcitoria se travalica una certa soglia di gravità e pertanto non può essere accolta una domanda di tutela per illeciti cosiddetti “bagatellari” .
La supposta lesione di diritti, anche se protetti dalla Costituzione, non è meritevole di tutela risarcitoria quando deriva dallo sconvolgimento della vita quotidiana, che si traduce in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni diversa espressione di insoddisfazione, senza conseguenze gravi .

Indirizzo

Via Conte C. Di Castelmola, 14
Naples
80133

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