Dott.ssa Rita Marinelli Psicoterapeuta

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19/11/2025

La Società Italiana di Pediatria aggiorna le raccomandazioni sull’uso del digitale in età evolutiva e lanciano un allarme: ogni anno senza digitale è un investimento sulla salute mentale, emotiva, cognitiva e relazionale

17/11/2025

Cosa fare quando tuo figlio ti tratta male?

Domanda scomoda, ma vera. Una di quelle che ti afferra allo stomaco prima ancora che alla testa. Perché non c’è nulla che ferisca più di un figlio che alza la voce, ti risponde male o sembra non avere più rispetto. È come se all’improvviso dimenticasse tutto ciò che hai dato, tutto ciò che hai fatto, tutto ciò che sei. Ma la verità è un’altra: nella maggior parte dei casi non ce l’ha con te. Sta lottando con se stesso.

La prima cosa da fare è non reagire come la sua tempesta vorrebbe. I figli, quando sono travolti dalle loro emozioni, buttano fuori il peggio sperando inconsciamente che tu rimanga saldo. È un paradosso antico: più ti provocano, più vogliono essere rassicurati che tu non cada. Per questo la calma non è debolezza: è leadership emotiva.

Partiamo da un concetto importante… io la chiamo la regola di vita: “la parte peggiore di noi, la diamo sempre a chi ci ama di più!”

Ora, iniziamo…

Respira. Letteralmente. Un genitore che si concede tre secondi prima di rispondere sta già educando. Sta insegnando che non è il volume della rabbia a comandare, ma la qualità della presenza. E quando finalmente parli, usa un linguaggio che parte da te, non da una sentenza: “Questo modo di parlare mi fa male”, “Sento distanza e vorrei capire”. È un invito alla connessione, non un’accusa.

Poi c’è un gesto fondamentale: dare un nome alle emozioni. I bambini e gli adolescenti spesso urlano perché non sanno tradursi. Hanno un caos dentro che non trova parole e allora esplode. Se tu riesci a dire “Sembri frustrato”, “Mi sembra che tu sia arrabbiato”, è come accendere la luce in una stanza buia. Non giustifica il comportamento, ma offre un ponte per attraversarlo.

Questo non significa diventare tappetini emotivi. Al contrario: i confini servono più dell’aria. “Ti ascolto, ma non puoi parlarmi in questo modo.” Fermo. Gentile. Inequivocabile. Non con minacce, non con umiliazioni, ma con la dignità di chi sa che l’amore senza regole diventa disordine, e il disordine diventa distanza. I figli devono vedere nei genitori la stessa coerenza che vorrebbero trovare in se stessi.

L’esempio, poi, è il vero maestro silenzioso. Non puoi chiedere rispetto se rispondi con sarcasmo, non puoi invocare calma se reagisci come un fiammifero vicino alla benzina. I figli non sono specchi perfetti, ma assorbono tutto: tono, posture, silenzi, incoerenze. La tua maturità emotiva è la loro palestra.

Infine, c’è una verità che pochi genitori hanno il coraggio di accettare: a volte il problema non è il carattere, è il peso emotivo che il bambino sta portando. Se quella irascibilità diventa una costante, se compare aggressività, chiusura, tristezza… non è “maleducazione”. È un segnale. I figli parlano attraverso i comportamenti quando non riescono a farlo con le parole.

E lì non si perde forza nel chiedere aiuto: si guadagna prospettiva. Un professionista può offrire strumenti, decodificare ciò che sembra incomprensibile, riportare aria dove il legame si è ristretto. Non come giudice, ma come ponte.

Essere genitori oggi è una delle prove più complesse che esistano. Ma una cosa è certa: quando un figlio ti tratta male, non è un fallimento. È un momento di verità, un bivio, una richiesta mascherata da caos. E tu puoi trasformarla in crescita, tua e sua.

Perché il rispetto si impara.
E l’amore non si urla, si dimostra. Sempre.

Enrico Chelini

13/11/2025

10/11/2025

LO SAI CHE.....QUANDO VAI A PRENDERE TUO FIGLIO AL NIDO, DEVI POSARE IL CELLULARE?

Quando arrivi, posa il cellulare. Il tuo bambino ti sta guardando.

Ci sono scene che dovremmo avere il coraggio di vedere davvero.
Un bambino che corre verso il genitore all’uscita del nido, con gli occhi pieni di luce, le braccia tese…
e una mano che invece di aprirsi per accoglierlo, stringe ancora un telefono.
Uno sguardo che invece di incrociarne un altro, scivola su uno schermo acceso.

Non serve essere psicologi per capire quanto faccia male.
Basta immaginare il silenzio che attraversa quel piccolo corpo, quella corsa che rallenta, quella gioia che si spegne.
Perché in quell’istante, il bambino riceve un messaggio chiaro:

“Qualcos’altro è più importante di te.”

Non c’è nessuna chiamata, nessun messaggio, nessuna urgenza che valga più dello sguardo di un figlio che ci aspetta.
Il momento del ricongiungimento è sacro: è lì che il bambino misura il suo valore, la sua sicurezza, la sua appartenenza.
È in quell’abbraccio che impara a fidarsi del mondo.

Quando arrivate con il telefono in mano, non state solo distraendovi: state negando la reciprocità di uno dei gesti più profondi dell’infanzia.
E nessuna spiegazione, nessun “un attimo solo” può cancellare l’impronta che lascia.

Al Nido chiediamo ai genitori di sospendere il mondo per un minuto.
Di fermarsi, guardare, accogliere.
Perché educare significa anche insegnare, con l’esempio, che l’amore non si divide.
Che quando si è insieme, si è davvero insieme.
Posare il telefono non è una regola.
È un atto di rispetto.
È dire al proprio bambino: “Tu sei più importante di tutto il resto.”

07/11/2025

“Dottorè, se non gli do il telefono urla.”
È una frase che sento sempre più spesso, detta con stanchezza e un po’ di vergogna.
Quando un bambino piccolo si calma solo con uno schermo, non è perché “ama la tecnologia”.
È perché lo schermo regola al posto suo le emozioni che non sa ancora gestire.
E se succede troppo presto, troppo spesso, quel meccanismo si fissa:
ogni disagio, ogni no, ogni frustrazione diventa un “accendi”.
La dipendenza digitale non nasce da un gioco.
Nasce quando l’emozione di un bambino viene spenta invece che accolta.
E il primo passo per evitarla è ricordare che nessuna app potrà mai sostituire un abbraccio, una parola ,una carezza.

04/11/2025
02/11/2025

𝐋𝐎 𝐙𝐀𝐈𝐍𝐎 𝐈𝐍𝐕𝐈𝐒𝐈𝐁𝐈𝐋𝐄 🎒

Quando un bambino varca la soglia della scuola, porta con sé due zaini.

Uno è visibile, colmo di quaderni, libri di testo, e magari un piccolo cestino con il pranzo. Ma l’altro è invisibile, ed è proprio quello che pesa di più.

Dentro ci sono emozioni, paure e sogni.
Ci sono le risate del giorno prima e le lacrime che nessuno ha notato. Il calore di un abbraccio o il silenzio dopo un litigio. Il bisogno di sentirsi amato, accolto e compreso. In quello zaino invisibile ci sono piccole vittorie che sembrano enormi e aspettative troppo grandi per spalle così piccole. A volte è leggero come la spensieratezza, altre volte è così pesante da piegare il cuore.

E quel secondo zaino?
Non possiamo vederlo, ma possiamo riconoscerlo nei loro occhi, nei loro silenzi, nei loro gesti che chiedono attenzione. Ogni bambino porta con sé uno zaino invisibile che aspetta solo di essere alleggerito con un po’ di amore e comprensione. ❤️

29/10/2025

L’educazione emotiva non è una materia che si insegna a scuola. È quella che impari tardi, spesso quando hai già fatto qualche danno. È la capacità di stare dentro le tue emozioni senza scagliarle addosso a chi ami. E sì, dovrebbe essere il primo compito di un genitore, non l’ultimo. Perché un figlio non impara da ciò che gli dici, ma da come vivi davanti a lui. Puoi insegnargli mille parole giuste, ma se ti vede esplodere, imparerà la rabbia. Se ti vede chiuderti, imparerà la distanza. Se ti vede respirare, imparerà la calma.

I figli non ascoltano. Assorbono. E quello che assorbono da te diventa la voce che sentiranno dentro per tutta la vita. Ecco perché l’educazione emotiva non è fargli leggere libri sulla felicità, ma mostrargli che la tristezza non uccide, che la paura si attraversa, che la rabbia si può contenere senza farla marcire. Non è dire “non piangere”, ma dire “puoi piangere, io resto qui”.

Molti genitori pensano di dover essere forti, e così crescono figli che imparano a nascondersi. Non serve mostrarsi invincibili: serve mostrarsi veri. Perché un bambino non nasce fragile — lo diventa quando cresce in un mondo dove gli adulti fingono di non avere dolore. E così smette di chiedere, smette di mostrarsi, smette di fidarsi.

Ogni volta che ti scusi, gli insegni che si può sbagliare senza smettere di valere. Ogni volta che ti fermi prima di reagire, gli insegni che la libertà comincia dal controllo di sé. Ogni volta che ti concedi di essere umano, gli mostri che non serve essere perfetti per essere degni d’amore.

L’empatia non è capire tuo figlio. È ricordarti com’eri tu quando nessuno ti capiva. È quel momento in cui smetti di ripetere ciò che hai subito e scegli di interrompere la catena.

L’educazione emotiva non nasce dai figli, ma dai genitori che decidono di guarire prima di crescere qualcuno. Perché non puoi insegnare la pace se non la abiti. Non puoi insegnare l’amore se non lo sai dare a te stesso. E non puoi insegnare la calma se la tua mente è un campo di battaglia.

Un genitore non è colui che spiega come si vive. È colui che mostra, giorno dopo giorno, che vivere significa sentire, non scappare.

Enrico Chelini

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