23/08/2025
Vertigini e “psicofarmaci”: tra scienza e pregiudizi
Quando si parla di psicofarmaci, ancora oggi pesa un grande pregiudizio. Molti li associano a “droghe”, altri li considerano un segno di debolezza personale, qualcosa di cui doversi giustificare. Non di rado sentiamo frasi come “non ho vergogna a dire che li ho usati”, come se fosse necessario superare un tabù sociale. La verità è che non c’è nulla di cui vergognarsi: i cosiddetti psicofarmaci sono medicinali regolati, studiati da decenni, con meccanismi precisi e obiettivi terapeutici chiari.
Un concetto da chiarire subito è quello della dipendenza. Questi farmaci non creano dipendenza nel senso stretto del termine: non inducono la ricerca compulsiva della sostanza, non generano euforia né comportamenti di abuso. Alcuni possono causare sintomi se sospesi bruscamente, ma questo non è “essere dipendenti” nel senso comune del termine: significa semplicemente che il sistema nervoso va accompagnato con una riduzione graduale della dose, perché si è adattato al farmaco e ha bisogno di tempo per ritrovare il proprio equilibrio.
Nei disturbi dell’equilibrio, l’uso di questi farmaci ha un razionale ben documentato. La vertigine non è mai soltanto un sintomo fisico: chi l’ha provata sa che scatena una reazione emotiva intensa, fatta di paura, smarrimento, perdita di controllo. In letteratura è chiaramente dimostrato come la vertigine abbia quasi sempre una componente di ansia reattiva e che sia particolarmente frequente nei soggetti che già soffrono di alterazioni del tono dell’umore. Non si tratta di “debolezza caratteriale”: è la fisiologia del cervello che mette insieme percezione vestibolare, emozioni e memoria. Pensare di curare la vertigine solo con la forza di volontà è irrealistico, perché i circuiti che la governano sono molto più profondi e automatici.
Durante una crisi acuta il sistema vestibolare “esplode”: il cervello riceve segnali distorti e li interpreta come una minaccia. In questi momenti l’ansia e i sintomi vegetativi (nausea, sudorazione, tachicardia) diventano parte integrante del quadro. È qui che farmaci come le benzodiazepine trovano spazio. Queste molecole agiscono potenziando il GABA, un neurotrasmettitore che calma l’attività cerebrale e, di conseguenza, riduce sia i sintomi vestibolari sia la componente ansiosa. La loro azione è rapida: per questo si rivelano utili nelle prime 24–72 ore, quando la priorità è abbattere l’intensità della crisi e dare respiro al paziente. Non sono però destinate a un uso prolungato, perché a lungo termine rallenterebbero la naturale compensazione vestibolare, quel processo con cui il cervello impara ad adattarsi al danno e a ristabilire l’equilibrio.
Diverso è il discorso per la betaistina. Questo farmaco agisce sui recettori dell’istamina e favorisce la microcircolazione a livello dell’orecchio interno e dei nuclei vestibolari. Non è immediato come le benzodiazepine, ma nel tempo può contribuire a ridurre la frequenza e l’intensità degli episodi vertiginosi. Non serve per “spegnere” la crisi sul momento, ma in determinati quadri clinici, come ad esempio nella malattia di Ménière, può essere parte di una strategia di prevenzione.
Un altro aspetto fondamentale è quello della memoria traumatica. Un attacco violento di vertigine può restare inciso nel cervello come un “allarme permanente”. È da lì che possono nascere forme croniche come la PPPD (Persistent Postural-Perceptual Dizziness), in cui la vertigine si trasforma in una percezione costante di instabilità, alimentata da ipervigilanza e paura del movimento. Utilizzare i farmaci nella fase acuta significa anche prevenire questo imprinting negativo, modulando la risposta del cervello per impedire che l’episodio venga registrato come un pericolo da cui difendersi per sempre.
Poi c’è l’emicrania vestibolare, una condizione in cui equilibrio e cefalea si intrecciano. Qui entrano in gioco gli antidepressivi, come amitriptilina e venlafaxina. Non vengono prescritti “perché il paziente è ansioso”, ma perché modulano i circuiti nervosi che legano dolore, sensibilità vestibolare e neurotrasmettitori come serotonina e noradrenalina. In questo modo abbassano la soglia di attivazione degli attacchi e ne riducono frequenza e gravità. Lo stesso vale per la PPPD, dove l’uso di SSRI o SNRI ha dimostrato di ridurre la cronicizzazione del disequilibrio, non trattando l’ansia come sintomo separato, ma agendo sul circuito integrato che la mantiene.
A volte questi farmaci vengono prescritti in modalità off label, cioè al di fuori delle indicazioni ufficiali riportate nel foglietto illustrativo. Non significa che siano usati “a caso”: significa che la letteratura scientifica ne ha dimostrato l’efficacia e che la comunità medica li considera appropriati in quei contesti. È una pratica medica del tutto legittima, che richiede competenza e soprattutto spiegazione al paziente. Se questa spiegazione manca, chi riceve la prescrizione può pensare di essere stato “liquidato come ansioso”. In realtà, quando uno specialista utilizza questi farmaci, lo fa perché c’è un razionale neurofisiologico preciso, non certo per banalizzare il problema.
Infine, un punto che considero cruciale. Nei nostri protocolli clinici, quando ci rendiamo conto che la componente psichica diventa troppo dominante, incoraggiamo sempre una consulenza con psichiatri/psicoterapeuti di fiducia, che collaborano stabilmente con il nostro team. Questo perché la cura dei disturbi dell’equilibrio non è mai solo una questione di farmaci o di esercizi: è un percorso di squadra. La collaborazione tra otoneurologo, fisioterapista vestibolare e specialista della salute mentale crea una rete che sostiene il paziente in modo completo, senza lasciare indietro nessun pezzo del problema.
Il messaggio che vogliamo lasciare è chiaro: gli psicofarmaci, quando utilizzati in otoneurologia, non sono un marchio e non sono una scorciatoia. Sono strumenti che, se impiegati correttamente e spiegati con chiarezza, aiutano a controllare i sintomi acuti, a prevenire la cronicizzazione e a modulare meccanismi complessi che nessuna forza di volontà da sola potrebbe correggere. Non devono essere vissuti con vergogna, ma con consapevolezza: fanno parte della medicina, esattamente come altri farmaci che usiamo per curare il cuore, i polmoni o le articolazioni. La differenza la fa sempre la personalizzazione del percorso e la fiducia reciproca tra medico e paziente.