12/05/2023
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Sul caso di Benedetta Rossi, del suo sfogo diventato virale, dei due articoli critici che le hanno dedicato negli ultimi mesi (quello del giornalista gastronomico Aldo Fiordelli francamente censurabile, non fosse altro che per l’eccentrico italiano in cui è scritto), dei commenti beceri che ne sono seguiti (a onor del vero, molti meno di quelli sotto il mio video di qualche anno fa della carbonara in cui metà dei commentatori mi augura di morire schiacciato da un bancale di Pecorino Romano DOP), insomma su questa vicenda ormai ognuno avrà la sua idea.
Io vorrei invece parlare di un articolo che è uscito qualche giorno fa sulla Stampa, a firma di Assia Neumann Dayan, in cui si sostiene che “Benedetta Rossi è rimasta l’unica in Italia a fare la lotta di classe e a difendere la classe operaia”.
Il pezzo è in realtà più un ironico esercizio di stile che un commento serio, ma la tesi che sostiene è questa: la più famosa delle cuoche digitali difende con il suo operato le classi più deboli della nostra società, che non hanno il tempo, o il denaro, o entrambi per poter acquistare ingredienti ‘costosi’ e si devono quindi accontentare di cibo economico, o facile da preparare. Lo dice la stessa Rossi nel suo video, che la cosa che l’ha più colpita sia il fatto che le critiche abbiano coinvolto soprattutto i suoi follower, “bullizzati” perché fanno la spesa presso “le insegne di alcuni discount economici”. Dunque il problema principale è questo, sia per Benedetta che per l’autrice dell’articolo. In ogni caso, questo è l’aspetto più interessante di cui parlare, e facendolo dovrete convenire con me che purtroppo Benedetta Rossi non fa nessun tipo di lotta di classe se non, e ovviamente in modo del tutto involontario, dalla parte del capitale.
Partiamo dalla definizione di ‘cibo economico’. Alcuni ingredienti sono economici più o meno da sempre e per antonomasia, come i cereali e i legumi. Altri sono economici da tempi più recenti, come gli ortaggi, lo zucchero e alcuni inscatolati. Altri ancora sono economici da pochissimo tempo, come la carne e i prodotti pronti. Sono economici da momenti diversi soprattutto per motivi diversi. Cereali e legumi sono economici per la loro natura, perché chiunque, con un po’ di fortuna, se li è sempre potuti produrre in autonomia. Gli ortaggi sono economici grazie alla grande distribuzione, alla grande disponibilità nazionale del prodotto, all’industria che grazie alla pastorizzazione e ad altri presidi tecnologici è riuscita a conservarli (in barattolo) annullandone di fatto la deperibilità, così come gli inscatolati: se un cibo non scade, se ne vende di più. L’ultima categoria di prodotti costa poco perché la sua produzione, un tempo presidiata da piccole attività (fattorie) o da lavorazioni artigianali (la pasta sfoglia, le merendine, i piatti pronti), è diventata di pressoché ESCLUSIVO appannaggio dell’industria.
Il fatto che il cibo sia economico per ragioni diverse ne modifica la natura. Nel caso della carne, l’incremento di produzione ha accorciato la vita degli animali, ne ha alterato gli spazi ma anche la genetica, ha favorito la standardizzazione delle razze (quando non la selezione ex novo, come nel caso del pollo), nell’ottica di poter abbattere il prezzo e al contempo poter guadagnare di più. Il motore di questa svolta non è stato l’incremento della popolazione (visto che dal 1959, quando allevavamo all’incirca meno di un decimo del bestiame che alleviamo oggi, la popolazione è incrementata di poco più del 20%, contro un incremento dei capi allevati, nel caso del maiale, di più del 1100%), né dalla necessità altruistica di permettere alle persone di mangiare ‘meglio’ (dal momento che mangiamo circa il quadruplo delle dosi consigliate di proteine animali, che tra l’altro come la scienza ha ampiamente dimostrato non sono nemmeno essenziali), ma semplicemente del PROFITTO. Non penso di dirvi nulla di nuovo, le aziende non sono onlus, esistono per guadagnare e guadagnare sempre di più.
A giudicare dai prezzi del cibo (non sono mai stati più bassi di così, a parte fluttuazioni temporanee come per la pasta, non fatevi ingannare dalla nostalgia) verrebbe da pensare che la ricerca del profitto ‘ha fatto anche cose buone’: ha permesso a un sacco di persone di mangiare di più e, in un certo senso, meglio. In compenso, ha peggiorato terribilmente un sacco di cose. L’ambiente, il suolo, l’aria, l’acqua, le condizioni di molti lavoratori, penso ai braccianti, e di tutti gli animali, stipati all’inverosimile, macellati a tempi record, nutriti in maniera sempre più economica. Le monocolture hanno rosicchiato le aree boschive, e non solo qui: per dare da mangiare ai nostri maiali stiamo deforestando il Brasile, stiamo impoverendo la forza lavoro anche là, stiamo distruggendo la loro biodiversità per coltivare soia soia soia per i nostri animali, stiamo privando i piccoli proprietari terrieri della terra per la loro sussistenza. Insomma, stiamo facendo un macello sulle spalle del nuovo proletariato. Che, con tutto il rispetto, sta molto più in basso nella scala sociale della famiglia monoreddito, la quale però resta tra le categorie più esposte agli effetti negativi di questa catena di eventi: i ‘ricchi’, quando l’aria della Lombardia sarà irrespirabile, potranno trasferirsi altrove, potranno comprare frutta fresca quando la desertificazione ne avrà reso proibitivo il costo, si potranno curare presso le migliori cliniche private quando si ammaleranno per colpa di un pianeta sempre più inquinato. Il denaro potrà insomma limitare la loro esposizione agli effetti nefasti del nostro sistema alimentare insostenibile. Tutti gli altri, come si dice in genere, ciccia.
Questo, OVVIAMENTE, non è colpa di Benedetta Rossi. Ma deve farci riflettere sul sistema che governa le nostre scelte alimentari, anche nell’economia. Fino ad oggi, il modello è stato quello di rendere forzosamente economici alimenti che, per loro natura, non lo sono, con le conseguenze che ho provato a riassumere sopra. Questo perché non è mai stato nell’interesse di nessuno spiegare che c’è un modo migliore, per sé e per il mondo che ci circonda, di far quadrare i conti e di mangiare bene, e cioè imparare a cucinare le cose che sono già economiche di loro. Che poi, GUARDA CASO, sono proprio quelle alla base della tanto celebrata dieta mediterranea (sia essa una realtà o un’invenzione, non è questo adesso il punto) che ci affrettiamo sempre a glorificare per sancire la nostra superiorità gastronomica sul resto del mondo e che però di fatto non seguiamo, in un cortocircuito tafazziano. Pasta, pane, riso, cereali, frutta e verdura, legumi: questo è quello che dovremmo mangiare sempre, questo è quello che già costa poco, sia al discount che alla boutique (con le debite proporzioni).
Detto questo, Benedetta Rossi è brava, è simpatica, è un’azienda, fa il suo lavoro e lo fa bene, a giudicare dal successo di pubblico. Tanto è stupido attribuirle colpe pretestuose e sproporzionate per la sua cucina ultra-popolare, quanto è sbagliato attribuirle meriti salvifici che vadano oltre fornire una grammatica di base e idee semplici a milioni di italiani che hanno poche idee ai fornelli. Semplicemente, perché la lotta di classe combattuta attraverso il cibo diventi mainstream dobbiamo aspettare qualcun altro.