29/10/2025
● Ṛṣi (ऋषि) viene dal sanscrito dalla radice ṛṣ, che significa muoversi, fluire, udire interiormente, vibrare.
Il Rishi è dunque colui che ascolta il Suono del Reale, colui che vede e ode i mantra, non li inventa. Non è un autore, ma un ricettacolo, un canale puro attraverso cui la Parola cosmica (Vāk) si manifesta.
I Veda, infatti, non sono “scritti da uomini”: essi furono visti (dṛṣṭa) dai Rishi in stato di pura coscienza, in ciò che gli Yoga Sutra chiamano ṛtaṁbharā prajñā, la conoscenza che nasce dall’ordine cosmico stesso (ṛta).
Ogni mantra vedico è legato a un Rishi, che lo ha udito nello spazio interiore del Sé.
La mente di un Rishi non è più personale.
Non è più un campo di pensieri, opinioni o ricordi. È come uno specchio d’acqua immobile sul quale si riflette la verità stessa del Brahman.
Quando la mente non vibra più per desiderio o paura, essa diviene trasparente e il Logos cosmico – il mantra universale – può risuonare attraverso di essa.
Il Rishi non pensa: egli vede.
Non interpreta: egli percepisce la realtà nella sua purezza.
La sua mente è un intervallo di silenzio cosciente, un punto vuoto dove il Divino parla da sé.
Dentro un Rishi non vi è “qualcuno”: vi è solo la vibrazione consapevole del Tutto.
Il suo cuore è uno spazio di silenzio e compassione assoluta, perché, riconoscendo tutto come Sé, non può più opporsi a nulla.
Là dove un uomo comune sente differenza e opposizione, il Rishi sente unità e ritmo.
Il suo interno è come una caverna luminosa dove il Brahman pulsa come Om, il suono originario.
Il Rishi è un condotto tra i mondi:
tra il non manifestato (Puruṣa, Brahman, Śiva)
e il manifesto (Prakṛti, Shakti, le forme della vita).
È come un nodo di risonanza dove il silenzio cosmico prende forma in parola, in mantra, in visione.
Potremmo dire che attraverso il Rishi l’universo stesso si contempla.
Ecco perché, nei Veda, il Rishi è spesso detto dṛṣṭā – “il veggente” – e non “il pensatore”.
Il legame con Rishikesh
Il nome Rishikesh (ऋषिकेश) significa letteralmente “Signore dei sensi (īśa) dei Rishi (ṛṣi)” o anche “Capo dei veggenti”.
È uno dei nomi di Śiva e Viṣṇu: il potere che governa e purifica gli strumenti percettivi, affinché diventino degni di ricevere la Verità.
Per questo, nella tradizione, si dice che i Rishi discendevano dalle grotte himalayane (dove vivevano immersi nella contemplazione) verso Rishikesh, quando la neve chiudeva i passi, per riposare, condividere i loro canti e tramandare le loro rivelazioni agli allievi.
Rishikesh, nella sua essenza più profonda, non è tanto un luogo geografico, ma lo stato di coscienza in cui la mente è retta da Ishvara, in cui il silenzio diventa parola e la parola ritorna al silenzio.
Oggi, tuttavia, ciò che porta il nome di Rishikesh è spesso una forma svuotata del suo spirito originario.
Quella che un tempo fu la culla del silenzio dei veggenti è divenuta, in larga parte, un circo del moderno ego spirituale, dove la parola “yoga” ha preso il posto del Silenzio e la ricerca del Sé è stata sostituita dalla ricerca di esperienze.
È come se il nome dei Rishi fosse rimasto inciso sulla soglia, ma il Rishi stesso fosse scomparso.
L’Occidente, affascinato dall’esotico, scambia l’abito per la realizzazione: si fotografa davanti al Gange credendo di essere entrato nel mistero, ma il vero Rishikesh — quello in cui il Sé governa i sensi — non è tra le botteghe, bensì nel cuore che tace.
Così la parola Rishikesh è oggi un simbolo dell’illusione del mondo moderno: una forma vuota, un nome sacro abitato dal rumore del mercato, dove ancora molti occidentali vengono ingannati dall’apparenza e dalla promessa di una spiritualità facile.
Eppure, sotto quella superficie, la vibrazione antica non è scomparsa: chi è puro la può ancora udire, come un richiamo sommerso che invita al ritorno alla sorgente.