
28/08/2024
Barattare la felicità in cambio del successo è cosa comune.
Non è mai detto, assicurato o confermato che le due cose si sovrappongano.
È spesso vero che si separano.
Non sono mai stata felice in posti in cui dovevo dare il massimo, mi tremava la voce, faticavo a respirare, sudavo freddo, avevo il cuore nello stomaco ogni volta.
Sentivo che dall'altra parte doveva per forza esserci qualcuno che mi avrebbe dovuto dire se andassi bene o no.
Qualcuno che aveva due braccia e due gambe come me, i suoi pensieri e i suoi desideri, la sua storia e le sue amicizie, diverse dalle mie.
Tremavo perché sentivo che se non mi avessero detto "Brava", avrei perso tutto.
Non lo dicevano sempre, eppure non perdevo nulla. Perdevo solo me stessa nel frattempo, e non me ne accorgevo.
L'altro diventava l'unico pensiero, permesso e divieto, malattia e cura, e del successo mi dimenticavo completamente.
Dovevo compiacere.
In posti così mi sarei ammalata troppe volte, oppure non ne sarei uscita viva, o non sarei mai stata me stessa.
La "stanza della parola", invece, è un posto che ti supplica di essere quanto più brutto possibile, ti chiede di mostrare tutti i demoni peggiori, ti chiede di dire parolacce, di disobbedire, di contraddire, di essere muto o parlare da solo.
Nella stanza della parola risiede la libertà del dover essere e del non dover essere.
Ed io ho capito che può essere solo questa la chiave della felicità: la libertà di rinunciare al successo inseguendo noi stessi e tutti i nostri desideri più timidi.