21/08/2021
Tra i libri che scelgo di leggere, amo particolarmente quelli che raccontano le storie dei pazienti che incontro.
“La madre di Eva”, di Silvia Ferreri ed. NEO, racconta di Alessandro e della sua transizione da donna a uomo vista dagli occhi di sua madre. È un libro difficile da digerire ma anche molto umano. Mi colpisce profondamente come la madre, dopo essersi chiesta chi diventerà Eva al termine della transizione, si domandi immediatamente come sarà la sua voce e se sarà in grado di riconoscere Alessandro quando le parlerà.
Immaginatelo: una madre che si chiede se riconoscerà il proprio figlio.
E Alessandro? Si riconoscerà nella sua nuova voce? I suoi gesti, le sue parole, la sua comunicazione rispecchieranno chi lui sente di essere?
La voce e le modalità comunicative sono identitarie e trasferiscono a chi ci ascolta un’immagine chiara di noi. Per tali ragioni, devono rappresentarci al massimo delle loro possibilità. La loro gestione è un tassello chiave nel percorso di transizione e la mamma di Alessandro lo ha colto subito, semplicemente ascoltando l’intuito materno.
Nonostante l’importanza di questo tema, però, sono ancora moltissime le persone transgender in Italia che non riescono ad accedere a percorsi farmacologici, chirurgici e logopedico-riabilitativi adeguati, negando così un diritto
fondamentale della persona.
A tal proposito la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 221 del 2015, ha affermato che l’ordinamento italiano riconosce “il diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” garantiti dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani.