
30/06/2023
Questo mese Nicolò Targhetta ci coinvolge in un racconto che tocca il tema delle maschere che spesso indossiamo nel corso della vita. Maschere che spesso riflettono le aspettative e le pressioni della società, celando il vero sé.
La maschera può rappresentare un aspetto della propria personalità, o un modo in cui ci si è adattati alle pressioni esterne.
Eppure, anche dietro a queste maschere, rimane la voglia di ricercare se stessi. Questo racconto serve a ricordare che nonostante le varie maschere che potremmo indossare, la vera sfida della vita è cercare di ritrovarci, per riscoprire e riabbracciare la nostra autenticità.
La grafica è dell’illustratrice Amandine Delclos
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La prima maschera me l’hanno regalata i miei genitori, si chiama Non Piangere, ce l’ho da quando ero bambino. La uso ancora.
La seconda maschera serve a nascondere la vergogna. È solida, spessa e pesante. Ce l’ho allacciata alla nuca con tanti di quei nodi che pare saldata.
La terza maschera è omologata. Si può comprare, costa poco, ce l’hanno tutti. È una maschera fatta di serie tv, libri letti, cose viste e sentite. Si toglie e si mette facile. Quando esce un modello nuovo la cambio.
La quarta maschera fa ridere solo a guardarla. L’ho messa un giorno, è piaciuta e non l’ho tolta più.
La quinta maschera ha una faccia cattiva. La uso per uccidere prima di essere ucciso, per menare per primo e menare due volte.
Da un po’ di tempo la metto sempre più spesso.
La sesta maschera si chiama Sto Bene. Anche se leggera, ha un sorprendente potere contenitivo.
La settima maschera è composta da tante responsabilità incollate fra loro a formare un’espressione di vaga consapevolezza, è la mia maschera da adulto. Ogni tanto, col caldo, perde i pezzi.
All’ottava maschera ho insegnato a pronunciare “ti amo”. Mi basta metterla per dirlo e farlo sembrare vero.
La nona maschera vanta una delle costruzioni più lunghe, ci ho lavorato un sacco e ho dovuto scartare una marea di prototipi, ma adesso funziona. Adesso piace a tutti.
La decima maschera è uno specchio, asseconda pregiudizi e alimenta stereotipi. Mi serve per fare amicizia.
L’undicesima sembra me in tutto e per tutto tranne un paio di particolari fondamentali. Ne vado molto fiero. La tiro fuori quando qualcuno mi chiede di fargli vedere il vero Nicolò.
La dodicesima è solo ansia, migliaia di insetti d’ansia ronzanti e brulicanti sopra quella che credo sia carne marcia. Non l’ho fatta io, un giorno semplicemente me la sono ritrovata addosso.
La tredicesima è fatta di fatture, di codici, di username, di caffè alla macchinetta e di professionalità. È la maschera del lavoro. Ha l’espressione di chi sa esattamente cosa sta facendo.
La quattordicesima è contorta in un urlo perpetuo. La metto sempre insieme alla tredicesima.
La quindicesima è uno dei pezzi più rari. Non è in commercio, devi recuperare specifiche materie prime e fartela da solo. Se la metto provo vergogna per la mia felicità.
La sedicesima è bianca e pulita come una bauta. Ci copro tutte le cose che non dico.
La diciassettesima è di pelle e serve per il sesso. Non l’ho assemblata io. Me l’hanno messa addosso i p***o.
La diciottesima è molto utile, serve per farmi i cazzi miei. La metto e fa tutto lei, risponde, domanda, ride nei momenti giusti. Intanto dietro io sbrigo altre faccende.
La diciannovesima è un vecchio che si lamenta di tutto. Tutta spigoli, è intagliata sulla faccia di Clint Eastwood. È l’unica che invecchia più veloce di me.
La ventesima è la porta di un caveau e pesa cento tonnellate. Tiene dentro un paio di paure e qualche dolore. Neanche volendo saprei come toglierla.
La ventunesima è terrificante. Mi guarda, dal vuoto, chiedendomi chi sono.
Ogni tanto penso che da qualche parte, sotto tutte queste maschere ci dovrei essere io.
E che forse la vita è solo il lungo tentativo di ritrovarmi.