Dr. Marco Inghilleri Psicologo - Psicoterapeuta -Padova

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Dr. Marco Inghilleri Psicologo - Psicoterapeuta -Padova Sono psicologo, psicoterapeuta e sessuologo. Ricevo a Padova, presso InterattivaMente E’ psicologo dello Sport presso l’A.S.D. PadovaRing.

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Marco Inghilleri, psicologo, psicoterapeuta e sessuologo, è direttore del Centro di Psicologia giuridica, Sessuologia clinica e Psicoterapia di Padova e vicepresidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale. E’ stato direttore della collana Generi, Culture e Sessualità per la FrancoAngeli, membro dell’Osservatorio per la promozione sociale e la ricerca delle Psicoter

apie per l’Ordine degli Psicologi del Veneto e ha collaborato per diversi anni con la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova e con la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca. Collabora come consulente per l’Associazione Umanitaria Palestine Children’s Relief Fund. I suo interessi di ricerca riguardano le problematiche relative all’identità sessuale, personale e sociale, la sessuologia e il dialogo tra scienze psicologiche e scienze biomediche, le devianze e le tematiche sociali legate alla multiculturalità. Collabora con diverse associazioni scientifiche nazionali ed è supervisore e docente per alcune scuole di specializzazione in psicoterapia. In ambito psicoterapeutico e clinico si occupa delle svariate forme di disagio psicologico, affettivo, sessuale ed esistenziale e delle problematiche connesse alla pratica sportiva ed atletica. Ha curato e scritto diverse pubblicazioni scientifiche che riguardano le psicoterapie, l’epistemologia delle scienze psicologiche e biomediche, la psicologia clinica e la psicosessuologia ed è stato relatore a numerosi convegni e seminari nazionali e internazionali. Insegna Elementi di terapia sessuale presso il Centro Studi in Psicoterapia Cognitiva (CESIPc)
Ambiti clinici di competenza:

Psicoterapia individuale (adolescenti, adulti e anziani)
Psicoterapia di coppia
Psicoterapia della famiglia
Consulenza e sostegno psicologico
Sessuologia
Psicologia dello sport

Ambiti di competenza psico-giuridica:

Psicoterapia rivolta agli autori di reato (adolescenti e adulti)

Contatta per un primo appuntamento:

mail: info@interattivamente.org ; marco.inghilleri@interattivamente.org

Cellulare: 349.8632076

03/08/2025

Identità culturale non è razzismo: contro l’equivoco ideologico contemporaneo

Nel dibattito contemporaneo sull’identità culturale e sull’interculturalità, si è diffusa una confusione concettuale che tende a sovrapporre la legittima difesa della propria identità storico-culturale con il razzismo. Questa equivalenza indebita non solo è epistemologicamente errata, ma ha prodotto una delegittimazione selettiva delle identità – in particolare di quelle europee – a vantaggio di una narrazione sbilanciata e ideologicamente egemonica.

Identità culturale come diritto universale

Ogni gruppo umano ha diritto a preservare, trasmettere e valorizzare la propria eredità culturale, linguistica, religiosa e simbolica. Questo diritto è sancito da testi fondamentali del diritto internazionale, come la Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale dell’UNESCO (2001) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007), che affermano il principio per cui «la diversità culturale è patrimonio comune dell’umanità» e che i popoli hanno diritto a «mantenere e rafforzare le proprie istituzioni politiche, giuridiche, economiche, sociali e culturali» (art. 5).

Pluralità delle culture e relativismo simmetrico

La difesa della propria identità non implica alcuna gerarchia tra culture, ma presuppone la coesistenza pluralistica. Claude Lévi-Strauss ha criticato tanto il razzismo etnocentrico quanto il cosmopolitismo omologante, affermando che «il rispetto per tutte le culture si accompagna alla consapevolezza che nessuna può valere più delle altre» (Razza e storia, 1952). In tal senso, ogni comunità – sia essa Māori, giapponese, curda, navajo o italiana – ha il diritto di esistere e trasmettersi, senza che ciò implichi escludere l’altro o ritenersi superiore.

Razzismo: definizione e distinzione

Il razzismo non consiste nel voler preservare sé stessi, ma nell’essenzializzare e gerarchizzare le differenze, negando all’altro l’accesso a diritti, dignità e appartenenza. È razzismo quando si afferma che un popolo è “naturalmente” superiore, o che un altro è “biologicamente” inferiore. È razzismo anche quando si applicano politiche sistematiche di esclusione, discriminazione o deumanizzazione (cfr. Tzvetan Todorov, La paura dei barbari, 2008). Non è razzismo, invece, opporsi all’omologazione culturale, al dissolvimento dei legami simbolici, o alla colonizzazione linguistica.

L’equivoco ideologico contemporaneo

Nel clima culturale odierno, dominato da una forma di postcolonialismo selettivo e da un’etica progressista anglocentrica, si è creata una asimmetria morale: le identità “altre” (indigene, minoritarie, postcoloniali) sono celebrate e protette, mentre le identità autoctone europee – soprattutto se associate a tradizioni storiche o a memoria nazionale – sono frequentemente associate a “suprematismo” o “razzismo latente”. Ciò produce un paradosso: il diritto alla differenza è riconosciuto a tutti, tranne che all’Occidente stesso (cfr. Alain Finkielkraut, L'identité malheureuse, 2013).

L’identità non come esclusione, ma come forma

Difendere la propria identità non significa chiudersi all’altro, ma anzi possedere una forma stabile attraverso cui incontrarlo senza dissolversi. La relazione autentica tra culture non è data dalla perdita di sé, ma dal riconoscimento reciproco. Come scriveva Charles Taylor, «l’identità non è un ostacolo al dialogo, ma la sua condizione» (La politica del riconoscimento, 1992). Senza una forma propria, il dialogo si trasforma in assimilazione.

Una pluralità in tensione, non una neutralizzazione globale

Una società autenticamente multiculturale non si costruisce sull’azzeramento delle differenze, ma sul loro riconoscimento reciproco e su una coesistenza dinamica. In questo senso, l'identità culturale è un bene comune, e la sua difesa – da parte di qualunque popolo – non è solo legittima, ma necessaria. Come scriveva Herder nel XVIII secolo, «ogni nazione ha il centro della felicità dentro di sé, come ogni sfera ha il suo centro di gravità» (Idee per la filosofia della storia dell’umanità, 1784-1791).

Conclusione

Il discorso sull’identità culturale necessita di rigore concettuale e simmetria etica. Laddove si demonizza la conservazione di una memoria storica, di una lingua o di un orizzonte simbolico come “razzismo”, si rischia di riprodurre un razzismo di segno opposto: quello che considera legittime solo le identità altrui, e patologica la propria. La vera tolleranza non consiste nell’uniformare, ma nel saper coabitare nella differenza.

Bibliografia essenziale

Claude Lévi-Strauss, Razza e storia, Einaudi, 2001 (ed. orig. 1952)

Charles Taylor, La politica del riconoscimento, in Multiculturalismo, Feltrinelli, 1993

Tzvetan Todorov, La paura dei barbari, Garzanti, 2008

Alain Finkielkraut, L'identité malheureuse, Stock, 2013

Johann Gottfried Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Laterza, 1974

UNESCO, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, 2001

ONU, Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni, 2007

Il bilinguismo e la percezione del Sé: riflessioni psicologiche, linguistiche e culturaliIntroduzioneIl bilinguismo non ...
01/08/2025

Il bilinguismo e la percezione del Sé: riflessioni psicologiche, linguistiche e culturali
Introduzione
Il bilinguismo non è semplicemente la capacità di comunicare in due lingue, ma un fenomeno complesso che coinvolge la coscienza, l'identità e l'affettività. Parlare più lingue significa abitare più mondi, ciascuno dei quali offre categorie diverse per interpretare l'esperienza, per nominare le emozioni, per raccontare se stessi. La lingua, come sottolineano la linguistica cognitiva e la psicologia culturale, non è un contenitore neutro, ma un dispositivo epistemico che struttura il modo in cui pensiamo, sentiamo, ricordiamo e decidiamo. Di conseguenza, chi parla più lingue vive una molteplicità di sé, ciascuno con una propria coerenza situata, affettiva e culturale.
Lingua, cultura e identità: il Cultural Frame Switching
Ogni lingua è portatrice di una visione del mondo. Questo principio, che affonda le radici nell'ipotesi di Sapir-Whorf (Whorf, 1956), è oggi corroborato da ricerche che mostrano come strutture linguistiche diverse attivino modelli mentali diversi. Nel caso dei bilingui, ciò implica la coesistenza di più sistemi di riferimento culturale e affettivo.
Uno degli studi più noti è quello di Ramírez-Esparza et al. (2006), che ha evidenziato come i partecipanti bilingui inglese-spagnolo descrivessero se stessi in modo significativamente diverso a seconda della lingua usata: in inglese emergevano tratti più individualisti ("ambizioso", "indipendente"), mentre in spagnolo più relazionali ("affettuoso", "solidale"). Ciò dimostra che la lingua attiva non solo un vocabolario, ma uno schema culturale, un insieme di valori, aspettative e norme.
Questo fenomeno, noto come cultural frame switching (Hong et al., 2000), indica che i soggetti bilingui passano da una "cornice culturale" all'altra a seconda del contesto linguistico. Tale switching non è solo cognitivo, ma esistenziale: implica una modificazione dei tratti del sé, delle emozioni esperite e del modo in cui ci si rapporta agli altri. La lingua, dunque, non esprime semplicemente chi siamo, ma contribuisce a determinarlo.
Lingua e memoria autobiografica: la narrazione del Sé
L'identità personale si costruisce attraverso la narrazione. Raccontarsi è un atto performativo che conferisce coerenza all'esperienza vissuta. Tuttavia, nei bilingui, la lingua in cui ci si racconta può alterare radicalmente il significato di ciò che si dice.
Pavlenko (2006) ha mostrato che i soggetti bilingui riferiscono differenze qualitative nella memoria autobiografica in base alla lingua utilizzata. Le esperienze vissute in una determinata lingua vengono ricordate più vividamente quando rievocate nella stessa lingua. Inoltre, le emozioni appaiono più intense se espresse nella lingua madre (L1), mentre in L2 risultano più distanziate, astratte o razionalizzate. Questa distanza è dovuta, secondo Pavlenko, al fatto che la lingua madre è appresa in contesto affettivo e corporeo, mentre la seconda lingua è spesso acquisita in contesti scolastici o istituzionali, dove prevale un uso strumentale.
Questa dimensione ha implicazioni cliniche rilevanti: Santiago-Rivera e Altarriba (2002) hanno evidenziato come, nella psicoterapia con soggetti bilingui, la lingua scelta influenzi l'accesso a contenuti emotivi profondi. Parlare in L1 permette l'emergere di vissuti corporei e traumatici, mentre l'uso della L2 può offrire un filtro protettivo, utile per elaborare contenuti difficili con maggior distacco.
Lingua, affetto e moralità: l'effetto della L2 sulle decisioni
Oltre alla memoria, anche il giudizio morale può variare in funzione della lingua. In uno studio divenuto celebre, Costa et al. (2014) hanno somministrato dilemmi morali (come il "trolley problem") a soggetti bilingui, osservando che le scelte risultavano più utilitaristiche quando espresse in L2. I partecipanti erano più propensi a sacrificare una vita per salvarne cinque se il dilemma era proposto in una lingua straniera. Questo effetto è stato attribuito a una minore attivazione emozionale nella L2, che favorisce un'elaborazione più fredda e analitica.
La L2, appresa più tardi e con minore coinvolgimento affettivo, non attiva le stesse risposte limbiche della L1. La moralità, quindi, non è solo una questione di principi, ma anche di emozioni. La lingua straniera agisce come una barriera affettiva, modulando le reazioni empatiche e rendendo il soggetto più distante rispetto al contenuto del dilemma.
Neuroscienze del bilinguismo: plasticità e modularità del Sé
Le ricerche neuroscientifiche confermano queste differenze sul piano cerebrale. Marian e Kaushanskaya (2007) hanno dimostrato che il bilinguismo comporta una maggiore attivazione delle aree prefrontali legate all'inibizione e alla flessibilità cognitiva. Il cervello bilingue è costantemente impegnato nella selezione della lingua appropriata, nel controllo degli errori, nella gestione dei codici. Questa plasticità si traduce in una maggiore capacità di switch prospettico, fondamentale per la regolazione del sé.
Koven (2007) ha osservato che i bilingui, in contesti narrativi, possono costruire due versioni coerenti ma differenti del proprio sé a seconda della lingua usata. Queste versioni non sono false, ma rispecchiano configurazioni identitarie differenti, connesse a contesti sociali e affettivi specifici. Il bilinguismo, dunque, favorisce una forma di identità dialogica, in cui il sé si costruisce nella negoziazione tra codici, mondi e storie differenti.
Implicazioni cliniche, educative e antropologiche
La consapevolezza degli effetti del bilinguismo sulla percezione del sé ha ricadute importanti:
In ambito clinico, può guidare la scelta della lingua più adatta nelle sedute terapeutiche, favorendo l'accesso a contenuti profondi o proteggendo il paziente da un'esposizione troppo diretta.
In ambito educativo, promuovere il bilinguismo significa anche sviluppare la metacognizione, la tolleranza dell'ambiguità e la capacità di riformulare l'esperienza.
In ambito antropologico e filosofico, il bilinguismo mette in crisi la concezione di un sé unitario e stabile, aprendo la via a una visione plurale, situata e dinamica della soggettività.
Come afferma Pavlenko (2006), il soggetto bilingue non è scisso, ma espanso: abita uno spazio intermedio tra lingue, memorie e culture, che rende possibile una forma di identità complessa e stratificata.
Bibliografia
Costa, A., Foucart, A., Arnon, I., Aparici, M., & Apesteguia, J. (2014). Your morals depend on language. PLOS ONE, 9(4), e94842.
Dewaele, J.-M. (2010). Emotions in Multiple Languages. Palgrave Macmillan.
Hong, Y., Morris, M. W., Chiu, C.-Y., & Benet-Martínez, V. (2000). Multicultural minds: A dynamic constructivist approach to culture and cognition. American Psychologist, 55(7), 709–720.
Koven, M. (2007). Selves in Two Languages: Bilinguals' verbal enactments of identity in French and Portuguese. John Benjamins.
Marian, V., & Kaushanskaya, M. (2007). Language context guides memory content. Psychonomic Bulletin & Review, 14(5), 925–933.
Pavlenko, A. (2006). Bilingual Minds: Emotional Experience, Expression, and Representation. Multilingual Matters.
Ramírez-Esparza, N., Gosling, S. D., Benet-Martínez, V., Potter, J. P., & Pennebaker, J. W. (2006). Do bilinguals have two personalities? Journal of Research in Personality, 40(2), 99–120.
Santiago-Rivera, A. L., & Altarriba, J. (2002). The role of language in therapy with the Latino population. Professional Psychology: Research and Practice, 33(1), 30–38.
Whorf, B. L. (1956). Language, Thought, and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf. MIT Press.

01/08/2025
31/07/2025

Numerose ricerche in psicologia cognitiva, linguistica e neuroscienze hanno mostrato che il bilinguismo può influenzare significativamente la percezione di sé, i processi decisionali, l’autonarrazione e perfino la moralità. Le principali evidenze riguardano:

1. Effetto della lingua sull’autopercezione e sull’identità

Ramírez-Esparza et al. (2006)
Questo studio ha dimostrato che i partecipanti bilingui (inglese/spagnolo) producevano descrizioni di sé diverse a seconda della lingua usata: in inglese tendevano a essere più individualisti, mentre in spagnolo più collettivisti.
→ “Cultural Frame Switching”.

Pavlenko (2006) – “Bilingual Minds”
Ha mostrato che le emozioni e le autonarrazioni possono essere vissute e descritte in modo diverso a seconda della lingua, in quanto ogni lingua attiva schemi culturali e costrutti del sé differenti.

2. Cultural Frame Switching (Hong et al., 2000)

Bilingui esposti a diverse cornici culturali (es. immagini cinesi o occidentali) mostravano un cambiamento nei tratti identitari e nei giudizi morali, a seconda della lingua attivata.
→ La lingua funge da trigger culturale, attivando modelli di sé e di mondo.

3. Decisionalità e moralità in L2

Costa et al. (2014) – “Your morals depend on language”
Le persone tendono a prendere decisioni più utilitaristiche e meno emotive quando ragionano in una lingua straniera.
→ Ciò è stato interpretato come effetto della distanza emotiva creata dalla seconda lingua.

4. Codice emotivo e autobiografia

Dewaele (2010) ha rilevato che i bilingui riferiscono esperienze emotive più intense e più “vere” nella loro lingua madre, mentre descrivono esperienze più razionalizzate o distanziate in L2.
→ Impatto sulla memoria autobiografica e sull’affettività.

5. Neuroscienze e imaging cerebrale

Ricerche di Marian e Kaushanskaya (2007) e Kroll e colleghi mostrano che diverse aree cerebrali si attivano a seconda della lingua usata, con correlati anche a livello di regolazione affettiva e inibizione cognitiva.

6. Lingua e coerenza narrativa del Sé

In psicoterapia con pazienti bilingui, diversi studi (es. Santiago-Rivera & Altarriba, 2002) mostrano che la narrazione del Sé può cambiare profondamente in funzione della lingua utilizzata nella seduta:

L1 = linguaggio affettivo e corporeo, memoria infantile.

L2 = linguaggio più formale, elaborato, protettivo.

Bibliografia essenziale

Pavlenko, A. (2006). Bilingual Minds: Emotional Experience, Expression, and Representation. Multilingual Matters.

Costa, A. et al. (2014). Your Morals Depend on Language. PLOS ONE, 9(4): e94842.

Ramírez-Esparza, N., et al. (2006). Cultural Frame Switching and Personality. Journal of Cross-Cultural Psychology.

Dewaele, J-M. (2010). Emotions in Multiple Languages. Palgrave Macmillan.

Marian, V., & Kaushanskaya, M. (2007). Language Context Guides Memory Content. Psychonomic Bulletin & Review.

Hong, Y., et al. (2000). Multicultural minds. American Psychologist.

Santiago-Rivera, A.L., & Altarriba, J. (2002). The role of language in therapy with the Latino population. Professional Psychology: Research and Practice.

31/07/2025

La percezione soggettiva di “essere nati nel corpo sbagliato”, frequentemente associata alla disforia di genere, pone una serie di interrogativi che intersecano antropologia, psicologia clinica, filosofia dell’identità ed epistemologia della soggettività.
Il presente contributo, lontano da letture ideologiche e binarismi semplificanti, intende esplorare questa esperienza a partire da una prospettiva fenomenologico-esistenziale e costruttivista.
Rifiutando la sacralizzazione dell’identità percepita come essenza innata e immutabile, si propone un approccio clinico dialogico, volto ad accogliere la sofferenza senza trasformarla in diagnosi, e ad accompagnare il soggetto nella simbolizzazione del proprio disagio corporeo.
L’obiettivo non è correggere il corpo né affermare un’identità, bensì favorire l’emergere di una narrazione più complessa e abitabile del sé incarnato.

Il corpo come orizzonte dell’identità.

La locuzione “nato nel corpo sbagliato” presuppone un dualismo ontologico tra corpo e identità: da una parte un soggetto interiore, autentico, spesso presentato come “veramente” uomo o donna; dall’altra un involucro biologico errato, arbitrario, persino ostile.
Questo paradigma riprende, seppur in forma postmoderna, la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa, qui tradotta nella forma di una coscienza di genere disincarnata, in cerca di corrispondenza materiale.
Ma il corpo non è semplicemente un oggetto che si possiede.
Come afferma Merleau-Ponty, «il corpo non è un meccanismo, ma la nostra maniera di accedere al mondo» (Phénoménologie de la perception, 1945).
È nella carne che il soggetto si esperisce, si struttura, si riconosce.
L’idea di un'identità “reale” che precede il corpo biologico rappresenta dunque un postulato metafisico problematico, più vicino alla mitologia dell’“anima errante” che a una fenomenologia della soggettività incarnata.

L’esperienza del disallineamento come fenomeno narrativo

L’affermazione “mi sento dell’altro sesso” non è un’esperienza immediata o pre-linguistica, ma una narrazione costruita.
In ambito clinico, si osserva come tale affermazione emerga spesso in soggetti in età prepuberale o adolescenziale, in concomitanza con vissuti di inadeguatezza, ansia sociale, disturbi dell’immagine corporea o tratti neurodivergenti.
È legittimo allora chiedersi: il senso di disallineamento è un’esperienza diretta oppure il risultato di una lettura retroattiva, mediata culturalmente?

Secondo il costruttivismo radicale, l’identità non è data ma narrata: essa si costruisce nell’interazione con l’altro, con la lingua, con gli schemi culturali disponibili (von Glasersfeld, 1995).
Ne consegue che anche l’identità di genere non si sottrae a tale dinamica.
La “verità interiore” percepita non è una sostanza preesistente, ma un esito narrativo dotato di coerenza interna e funzione adattiva.

La disforia come interrogativo esistenziale

La disforia di genere, in questa prospettiva, non va ridotta a diagnosi né a slogan.
Essa rappresenta un’interrogazione sulla propria esistenza incarnata, un grido ontologico.
Heidegger ci ricorda che l’essere umano è un Dasein, un “esserci” gettato nel mondo e costretto ad assumere il proprio esserci come compito (Sein und Zeit, 1927).
Anche il corpo, dunque, va assunto: non nel senso di subirlo, ma di confrontarsi con esso come possibilità di espressione e senso.

La percezione del corpo come estraneo può allora essere letta come sintomo non tanto di una “identità sbagliata”, quanto di un conflitto esistenziale tra sé e mondo, tra desiderio e realtà, tra aspettative e simboli sociali.
Come sostiene Marco Inghilleri, la disforia dovrebbe essere posta “sul tavolo della parola” e non automaticamente convertita in percorso di transizione (Inghilleri, in corso di stampa).

Critica al paradigma affermativo

L’attuale paradigma clinico dominante, cosiddetto “affermativo”, propone di validare l’identità percepita come dato originario, accompagnando senza interrogare.
Questo approccio si fonda su tre presupposti impliciti: che l’identità di genere sia innata, immutabile e ontologicamente vera; che il corpo possa essere modificato per adeguarsi a tale identità; che il mancato affermare produca sofferenza o suicidarietà.
Tutti e tre questi presupposti risultano problematici sia sul piano epistemologico che su quello empirico.

Non esiste attualmente alcuna evidenza neuroscientifica o genetica incontrovertibile che dimostri l’esistenza di un’identità di genere innata (Fine, 2010).
Inoltre, trattare l’autopercezione come criterio diagnostico equivale a sostituire la clinica con l’adesione ideologica.
Il ruolo dello psicologo non è confermare una narrazione, ma accompagnarla nel suo sviluppo, favorendone la complessificazione.

Clinica della simbolizzazione e approccio dialogico

Un approccio alternativo e responsabile è quello simbolico-dialogico, che si oppone tanto alla patologizzazione quanto all’affermazione acritica.
Il terapeuta non è chiamato a dire al soggetto chi sia, ma a creare le condizioni affinché il soggetto possa esplorare la propria identità incarnata, i significati attribuiti al corpo, la genealogia del proprio sentire.
Accogliere la disforia come esperienza non implica confermare il “corpo sbagliato”.
Implica piuttosto domandare: che cosa significa per te questo sentire?
Che funzione ha avuto nella tua storia?
Quali altri modi di essere potresti scoprire?
Come scrive Dejours, il corpo non è un ostacolo all’identità, ma il suo primo teatro (Il corpo tra realtà e rappresentazione, 1998).

Conclusione: un’etica dell’ascolto senza ideologia

Lontano dai modelli binari che impongono la scelta tra conferma affermativa e normalizzazione biologica, si impone una terza via: quella dell’accompagnamento riflessivo.
L’identità non è un diritto assoluto da rivendicare, ma un processo continuo da costruire e interrogare.
Il compito della clinica è quello di restituire al soggetto la possibilità di abitare il proprio corpo, anche nella sofferenza, come luogo simbolico di senso.
Non esiste un corpo sbagliato.
Esiste il difficile compito umano di renderlo abitabile.

Bibliografia

Dejours, C. (1998). Il corpo tra realtà e rappresentazione. Roma: Borla.

Fine, C. (2010). Delusions of Gender: How Our Minds, Society, and Neurosexism Create Difference. Norton.

Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.

Inghilleri, M. (in corso di stampa). La disforia di genere come interrogativo per la psicologia clinica.

Lemma, A. (2016). Psychoanalysis, Gender and Sexualities: From Theory to Practice. Routledge.

Merleau-Ponty, M. (1945). Fenomenologia della percezione. Milano: Il Saggiatore.

Sartre, J.-P. (1943). L’essere e il nulla. Milano: Il Saggiatore.

von Glasersfeld, E. (1995). Radical Constructivism: A Way of Knowing and Learning. Falmer Press.

Varela, F. J., Thompson, E., Rosch, E. (1991). The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience. MIT Press.

L’epistemologia evoluzionistica: dalla parabola Zen a Konrad LorenzParafrasando una storiella Zen: un giorno, un realist...
31/07/2025

L’epistemologia evoluzionistica: dalla parabola Zen a Konrad Lorenz

Parafrasando una storiella Zen: un giorno, un realista concettuale incontrò un realista ipotetico e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò:
«Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos’è la realtà?»
Il realista ipotetico, senza dire nulla, gli assestò un pugno in faccia.
La lezione non richiede spiegazioni: la realtà non si definisce, si incontra. E l’incontro non avviene nei concetti, ma nell’impatto.

Questo paradosso zen non è poi così distante da una celebre intuizione di Johann Wolfgang von Goethe: «Se l’occhio non fosse solare, mai potrebbe guardare il sole» (Zahme Xenien). La conoscenza non è una rappresentazione neutra del mondo, ma un’interazione strutturale fra l’essere vivente e ciò che lo circonda. L’occhio vede il sole perché porta in sé, in qualche modo, la capacità di accoglierlo. Questa visione, che riecheggia le Critiche kantiane, viene sviluppata in senso naturalistico e filogenetico da Konrad Lorenz nell’ambito dell’epistemologia evoluzionistica.

Dalle categorie kantiane alla filogenesi

Nella Critica della ragion pura (1781), Kant aveva postulato l’esistenza di forme a priori della conoscenza – spazio, tempo, causalità – come condizioni trascendentali che rendono possibile l’esperienza. Lorenz, riletto in chiave etologica, ne sovverte il fondamento: ciò che appare innato nell’individuo non è un principio metafisico, ma il risultato di un lungo processo evolutivo. Scrive:

> «Le prestazioni della conoscenza umana debbono essere analizzate alla stessa stregua di altre capacità dell’uomo sviluppatesi nel corso della filogenesi in funzione della conservazione della specie»
(Lorenz, 1973, p. 26).

Gli a priori kantiani diventano così a posteriori su scala evolutiva: non condizioni trascendentali, ma strutture adattive selezionate nella storia naturale della specie. Il soggetto conoscente non è né tabula rasa né puro trascendentale: è il frutto di milioni di anni di coevoluzione con l’ambiente (Campbell, 1974).

Il doppio compito dell’epistemologia evoluzionistica

L’epistemologia evoluzionistica si propone un duplice obiettivo:

da un lato, formulare una gnoseologia fondata sui meccanismi biologici e filogenetici dell’uomo;

dall’altro, delineare un’immagine dell’essere umano coerente con questa gnoseologia, superando la contrapposizione tra realismo ingenuo e idealismo concettuale.

Lorenz chiarisce:

> «Si tratta cioè di un sistema reale, formatosi in seguito ad un processo naturale, che si trova in un rapporto interattivo con un altrettanto reale mondo circostante»
(Lorenz, 1973, p. 31).

La conoscenza non è mai speculare, ma funzionale: essa deriva da meccanismi informativi che si sono strutturati filogeneticamente in funzione della sopravvivenza e dell’adattamento:

> «Tutto ciò che noi sappiamo sul mondo reale deriva da meccanismi di informazione di origine filogenetica»
(Lorenz, 1973, p. 35).

Il confronto con Quine e l’ipotesi naturalistica

In parallelo, Willard V.O. Quine aveva già dissolto la dicotomia kantiana tra verità analitiche e sintetiche (Word and Object, 1960), proponendo una visione olistica e naturalizzata della conoscenza. Tuttavia, mentre Quine si concentra sulle implicazioni linguistiche e sull’indeterminatezza della traduzione, Lorenz mette in primo piano il fondamento biologico dell’attività conoscitiva. Entrambi, seppur da angolazioni diverse, convergono nel rifiuto di un fondamento assoluto e immutabile della conoscenza.

Conclusione: la realtà come impatto

La parabola iniziale torna ora con maggior nitidezza. La realtà non è una “cosa in sé” completamente irraggiungibile, né una proiezione mentale arbitraria: è un campo dinamico d’interazione in cui l’organismo riceve, interpreta e organizza l’impatto dell’ambiente. La realtà ci colpisce in faccia, e noi possiamo coglierla perché abbiamo sviluppato – grazie all’evoluzione – le strutture per riceverla, filtrarla, trasformarla in esperienza. Come sintetizza Lorenz:

> «La conoscenza non è lo specchio della realtà, ma il frutto di una lunga coevoluzione tra organismo e mondo»
(Lorenz, 1973, p. 42).

L’epistemologia evoluzionistica, dunque, non nega la lezione kantiana, ma la incarna nel vivente: ciò che oggi ci appare evidente non è il riflesso neutro di un mondo là fuori, ma il risultato di una lunga storia naturale che ha reso il nostro occhio “solare”.

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Bibliografia

Campbell, D. T. (1974). Evolutionary Epistemology. In P. A. Schilpp (Ed.), The Philosophy of Karl Popper. La Salle: Open Court.

Goethe, J. W. (1827). Zahme Xenien.

Kant, I. (1781/1999). Critica della ragion pura. Bari: Laterza.

Lorenz, K. (1973). L’altra faccia dello specchio. Milano: Adelphi.

Quine, W. V. O. (1960). Word and Object. Cambridge, MA: MIT Press.

28/07/2025

Erranza e libertà: l’ospitalità del pensiero in Orazio

> "Nullius addictus iurare in verba magistri,
quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes"
(Orazio, Epistole, I, 1, 14-15)

Introduzione: il rifiuto del dogma

Nel celebre passo delle Epistole, Orazio enuncia con apparente leggerezza un principio radicale di autonomia intellettuale: egli non si sente addictus, cioè vincolato, a giurare fedeltà alle parole di alcun magister. L'immagine del giuramento, propria dell’ambito politico e militare, viene traslata in chiave epistemica: la conoscenza, per Orazio, non è un’adesione fideistica a un sistema chiuso, ma un’esplorazione aperta, plurale, instabile. Il rifiuto del verbum magistri anticipa l’istanza critica della modernità e si oppone alla rigidità delle scuole filosofiche dominanti dell’epoca, in particolare allo stoicismo imperante a Roma.

La postura oraziana è affine a quella dell’homo viator, colui che si espone al mondo senza pretendere di dominarlo. Non a caso, alla negazione del giuramento segue l’immagine della tempestas, della burrasca, che trascina il soggetto errante verso lidi incerti. Ma Orazio non si oppone alla forza degli eventi: egli si lascia deferre, trasportare, come hospes, ovvero come straniero, come ospite.

La figura dell’hospes: esilio e accoglienza

La scelta del termine hospes è rivelatrice. L’ospite non è né padrone né servo; è colui che abita temporaneamente, che riceve e si lascia ricevere. In questa auto-definizione, Orazio si colloca fuori da ogni appartenenza definitiva, in un orizzonte di transitorietà e di apertura. Il sapere non è per lui una casa, ma un viaggio.

Questa immagine dell’erranza consapevole risuona profondamente con l’ethos di altri pensatori antichi. Parmenide e il suo poema sulla via dell’essere; Socrate, “tafano” della città, che rivendica l’ignoranza come inizio del sapere; persino Epicuro, con la sua parrēsía, il coraggio di dire la verità al di là delle convenzioni. Ma Orazio radicalizza questa posizione in senso esistenziale: egli non cerca una veritas, ma una forma mentis capace di muoversi, di adattarsi, di disancorarsi.

Epistemologia errante e libertà interiore

Il verso oraziano può essere interpretato come una prima formulazione dell’epistemologia errante, fondata sulla sospensione del dogma e sulla disponibilità al mutamento. In epoca moderna, sarà Montaigne a recuperare questo spirito (“Que sais-je?”), così come Cartesio, nel suo Discours de la méthode, rivendicherà l’esigenza di dubitare di tutto ciò che è stato appreso per autorità.

In epoca contemporanea, si possono rintracciare echi di Orazio in diverse correnti critiche: dal fallibilismo epistemologico di Karl Popper, che rifiuta ogni fondamento assoluto (“La scienza non prova nulla, ma confuta”) (Popper, Congetture e confutazioni), fino al costruttivismo radicale di Ernst von Glasersfeld, per cui la conoscenza è una costruzione adattiva e non il riflesso di una realtà oggettiva (“Il sapere non è una rappresentazione del mondo, ma una mappa per orientarsi”) (Glasersfeld, Radical Constructivism).

Anche nella fenomenologia esistenziale heideggeriana risuona la figura dell’ospite come colui che è gettato nel mondo e si rapporta all’esserci non in termini di dominio, ma di ascolto (Hören) e apertura (Erschlossenheit). Heidegger stesso parla del pensare come di un “Weg”, un cammino, e non come di una costruzione sistematica (Heidegger, Unterwegs zur Sprache).

Ospitalità come fondamento etico

L’hospes oraziano non è solo un viandante epistemico, ma anche una figura etica. Egli non si appropria del sapere, ma lo accoglie, così come accetta l’imprevedibilità della vita. In tal senso, il verso si presta anche a una lettura politica: la libertà dell’ospite è la libertà di non essere vincolato da ideologie, da sistemi totalizzanti, da verità preconfezionate.

Il pensiero oraziano, per la sua umiltà e per la sua apertura al molteplice, può costituire un antidoto all’odierno dogmatismo ideologico, che si traveste da scienza o da morale assoluta. Orazio ci invita invece a rimanere mobili, attenti, ricettivi: deferor hospes.

Bibliografia essenziale

Orazio, Epistole, I, 1 (a cura di G. Perrotta), Torino, UTET, 1995

Heidegger, M., Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976

Popper, K. R., Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972

von Glasersfeld, E., Radical Constructivism. A Way of Knowing and Learning, London, Routledge, 1995

Hadot, P., Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 2005

Montaigne, M., Saggi, Milano, Bompiani, 2011

Foucault, M., L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003

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Padua
35131

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