Dott.ssa Alessia Alongi Psicologa Psicoterapeuta

Dott.ssa Alessia Alongi Psicologa Psicoterapeuta Psicologa Clinica e Psicoterapeuta ad orientamento Sistemico Familiare🌱

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17/11/2025

In terapia, la rinascita non è un’eccezione: è una ambizione reale.

E spesso è una possibilità salvifica.

Esistono momenti della vita in cui ciò che siamo diventati non coincide più con ciò di cui abbiamo bisogno.
Ci si accorge che le risposte di un tempo non funzionano più, che il corpo e la mente chiedono un nuovo spazio per respirare.

È proprio lì che può cominciare un percorso di cura.

La psicoterapia offre un contesto sicuro in cui osservare le proprie ferite, dare voce a ciò che è rimasto sospeso e costruire un linguaggio nuovo per raccontarsi.

Questo processo non cancella ciò che è stato, ma lo integra: permette di trasformare il dolore in consapevolezza e la paura in possibilità.

Rinascere, in terapia, significa riconoscere che si può tornare a vivere da un luogo più autentico.

Significa concedersi il diritto di cambiare, di riorganizzare ciò che non funziona più, di imparare a stare dalla propria parte. Ed è un processo che può accadere più volte.

Ogni volta che si sceglie di chiedere aiuto. Ogni volta che ci si prende cura di sé con coraggio.

Perché la cura, quando è accolta e sostenuta, può davvero salvare.

E può riportare alla vita in modi che, prima, sembravano impossibili.

𝐃𝐨𝐭𝐭.𝐬𝐬𝐚 𝐀𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐚 𝐀𝐥𝐨𝐧𝐠𝐢
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(𝖱𝖾𝖿𝖾𝗋𝖾𝗇𝖼𝖾 𝗆𝗎𝗌𝗂𝖼𝖺𝗅𝖾 𝖽𝖺𝗍𝗈 𝖼𝗁𝖾 𝗂𝗇𝗌𝗍𝖺𝗀𝗋𝖺𝗆 𝗇𝗈𝗇 𝗅𝖺 𝖿𝖺 𝖺𝗀𝗀𝗂𝗎𝗇𝗀𝖾𝗋𝖾: 𝑳𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒕𝒕𝒓𝒐 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒆, 𝑩𝒓𝒖𝒏𝒐𝒓𝒊 𝑺𝒂𝒔)

14/11/2025

La crescita, soprattutto nell’adolescenza, porta con sé inevitabili momenti di conflitto.

Non sono solo “fasi difficili”, ma tappe necessarie per costruire un senso di sé differenziato dal mondo adulto.

Il compito dell’adulto — genitore, insegnante, terapeuta — non è quello di evitare la sfida, né di reprimerla.

È quello di reggere la tensione, di farsi contenitore delle spinte trasformative del giovane senza viverle come attacchi personali.

La fatica di questo incontro è parte integrante del processo di crescita reciproca: il giovane costruisce la propria identità e l’adulto, accettando di essere messo in discussione, rinnova la propria.

🔹 La relazione educativa e terapeutica, in fondo, si fonda su questa danza: quella tra il bisogno di autonomia e il bisogno di contenimento.
Accoglierla non è sempre “gradevole”, ma è ciò che rende possibile la trasformazione.

Crescere significa anche mettere alla prova. Essere adulti, saper reggere la prova.

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13/11/2025

🪴 Lo studio di uno psicoterapeuta sistemico familiare

Nella prospettiva sistemico-familiare, lo studio del terapeuta non è solo il luogo fisico in cui si svolge la seduta, ma uno spazio relazionale che accoglie sistemi, non individui isolati.

Questo significa che il terapeuta può lavorare con una persona singola, con una coppia, o con l’intera famiglia, a seconda di dove si colloca il problema e di quali dinamiche lo mantengono o lo alimentano.

Anche quando in seduta è presente solo un paziente, il terapeuta sistemico considera le relazioni significative che lo circondano: genitori, partner, figli, fratelli, contesti affettivi o lavorativi.

Talvolta, alcune di queste persone possono essere “presentificate” — cioè portate simbolicamente nella stanza di terapia — o invitate a partecipare a una seduta per ragioni cliniche specifiche.

L’obiettivo non è individuare un “colpevole”, ma comprendere come ciascuno contribuisce, consapevolmente o meno, all’equilibrio o al disagio del sistema.

Nel lavoro sistemico, dunque, non si “cura la persona” dalla famiglia, ma si esplora il modo in cui le relazioni — passate e presenti — ne modellano il modo di stare nel mondo.

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13/11/2025

Non sempre il dolore che un genitore prova davanti alla sofferenza del proprio bambino appartiene al presente.

A volte, quella reazione emotiva intensa nasce da antiche ferite non elaborate, che si riaccendono nel contatto con la vulnerabilità del figlio.

In termini scientifici, si parla di una competenza autobiografica distorta (Main, 1991): il genitore non ha integrato le proprie esperienze traumatiche infantili e, per questo, fatica a distinguere tra il “qui e ora” del bambino e il “lì e allora” della propria storia.

Quando questo accade, il genitore può perdere la capacità di monitorare mentalmente i propri stati emotivi e quelli del figlio — ciò che in psicologia si definisce mentalizzazione.

La paura o il dolore del bambino diventano allora riattivatori traumatici: risvegliano ricordi impliciti di sé come bambino spaventato o non consolato.

Per evitare di contattare questi affetti dolorosi, il genitore tende inconsapevolmente a ritrarsi, a ridurre la propria attenzione verso il figlio o a minimizzare le sue emozioni.

Non per mancanza d’amore, ma come forma di autodifesa psichica.

Riconoscere questi meccanismi non significa colpevolizzare, ma comprendere: è solo integrando la propria storia emotiva che un genitore può diventare davvero libero di essere presente nella relazione con il proprio bambino.

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12/11/2025

Sebbene spesso vengano confusi, senso di colpa e dispiacere appartengono a due registri emotivi diversi, con implicazioni psicologiche e relazionali profondamente differenti.

🔹 Il dispiacere è un’emozione adattiva.
Nasce dal riconoscimento realistico di aver arrecato un danno, e consente di mantenere un senso di sé integro pur assumendosi la responsabilità dell’azione.

Sul piano psicologico, favorisce la riparazione e la regolazione del legame: “Ho sbagliato” → “Posso rimediare”.

È un’emozione situazionale, che rispetta la distinzione tra ciò che ho fatto e chi sono.

🔹 Il senso di colpa, invece, ha una valenza identitaria.
Non riguarda più l’azione, ma il sé: “Non ho sbagliato, sono sbagliato”.

In questo modo diventa disfunzionale, perché mina il senso di valore personale e innesca dinamiche di compiacenza, autocensura o iper-responsabilità.

È un’emozione che, anziché orientare al cambiamento, tende a bloccare e a mantenere circoli relazionali rigidi.

Nel modello sistemico, il senso di colpa può essere anche un meccanismo di lealtà familiare invisibile: un modo per rimanere fedeli a regole implicite del sistema (“non stare troppo bene”, “non allontanarti troppo”, “non deludere”).

In questo senso, la colpa non serve alla riparazione, ma alla preservazione del legame, anche a costo del benessere individuale.

Distinguere tra colpa e dispiacere significa restituire all’emozione la sua funzione regolativa originaria: permettere la responsabilità senza compromettere la dignità del sé.

💬 “Il dispiacere ci connette alla realtà.
Il senso di colpa ci imprigiona in un’immagine di noi stessi che non possiamo più correggere.”

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11/11/2025

Nel linguaggio comune, “normale” è spesso usato come sinonimo di “giusto” o “sano”. Ma in psicologia il termine normale può avere più significati.

📈In senso statistico, qualcosa è normale quando è diffuso nella popolazione: se la maggior parte delle persone lo fa, diventa la norma.

👥Ma in senso clinico e relazionale, la “normalità” non coincide con la frequenza: ciò che molti fanno può comunque essere disfunzionale, poco rispettoso o dannoso per la relazione.

Un esempio: la geolocalizzazione nella coppia. È una pratica sempre più comune, ma la sua diffusione non la rende automaticamente sana.
Controllare dove si trova l’altro, anche se “lo fanno tutti”, può essere un segnale di insicurezza, sfiducia o bisogno di controllo, che nel tempo impoverisce il legame e la libertà reciproca.

La salute relazionale non si misura su ciò che è più diffuso, ma su ciò che favorisce autonomia, fiducia e rispetto dei confini.

📍 Non tutto ciò che è comune è anche sano.

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10/11/2025

Molti genitori desiderano crescere bambini rispettosi, gentili, capaci di stare bene con gli altri.

Ma a volte, senza accorgersene, l’intento educativo si trasforma in un messaggio diverso: “devi piacere agli altri per essere accettato”.

Accade quando il rispetto delle regole si confonde con l’obbligo al compiacimento:
💬 “Dai un bacino alla nonna anche se non vuoi”,
💬 “Sorridi, altrimenti si offendono”,
💬 “Non fare il timido, saluta bene”.

Sono richieste quotidiane, spesso mosse da buone intenzioni. Ma il bambino, ancora privo degli strumenti per differenziare il rispetto dalla sottomissione emotiva, può interpretarle come un invito a mettere da parte il proprio sentire per mantenere l’armonia.

Nel tempo, questo può portare a una regolazione disfunzionale delle emozioni e a una fragilità identitaria: bambini che si leggono attraverso lo sguardo dell’altro e adulti che faticano a dire “no” per paura di deludere.

Le teorie sistemico-relazionali (Minuchin, 1974; Bowen, 1978) mostrano come in molte famiglie il mantenimento della quiete e della coesione emotiva passi dal sacrificio dell’autenticità. È un meccanismo protettivo, ma ha un costo alto: la perdita di spontaneità e di libertà espressiva.

Educare, invece, non significa evitare il disagio relazionale.
Significa insegnare ai figli a stare nel mondo senza rinunciare a sé stessi, riconoscendo che possono dire “no” con rispetto, dissentire senza perdere l’amore dell’altro.

Perché l’obiettivo non è crescere bambini “buoni”, ma adulti autentici, liberi e capaci di amare senza compiacere.
Un atto di fiducia nel loro diritto di essere interi: capaci di rispetto, sì, ma anche di verità, libertà e presenza.

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07/11/2025

Le famiglie ricostituite rappresentano una delle configurazioni relazionali più complesse e sfidanti del panorama contemporaneo.

Nascono dalla trasformazione di legami precedenti e dalla costruzione di nuove connessioni affettive tra persone che, fino a poco prima, erano estranee.

È un processo “istantaneo”, come lo definiscono Cohan de Urribarri e Urribarri (1986), ma raramente lineare: l’unione di due nuclei implica la ridefinizione di ruoli, confini e appartenenze.

Da una prospettiva sistemico-relazionale, la famiglia allargata è un sistema in riorganizzazione, in cui ogni cambiamento in una sottoparte (la coppia, i figli, le famiglie d’origine) influenza l’equilibrio complessivo.

Il rischio di sentirsi esclusi o inglobati in dinamiche non scelte è frequente, soprattutto quando la nuova struttura si forma senza tempi adeguati di elaborazione.

Il conflitto, in questi contesti, non è segno di fallimento ma indice di una trasformazione in corso.

I partner si confrontano con sentimenti ambivalenti – gratificazione nella nuova coppia e senso di colpa verso i figli o le famiglie precedenti – mentre i figli vivono spesso conflitti di lealtà, divisi tra il desiderio di accogliere e la paura di tradire.

Il genitore acquisito, dal canto suo, occupa una posizione “stabilmente instabile”: è chiamato a esercitare funzioni affettive senza poteri formali, muovendosi tra presenza e rispetto dei confini.

Costruire una nuova identità familiare richiede tempo, riflessività e dialogo.
La ricerca evidenzia alcuni fattori protettivi: co-genitorialità cooperativa, alleanza tra genitore biologico e acquisito, sostegno nella coppia e rispetto dei tempi affettivi dei figli.

Quando queste risorse vengono attivate, la famiglia ricomposta può diventare uno spazio generativo, in cui le differenze non sono un ostacolo ma una fonte di arricchimento.

Come ricordano Mazzoni, Andolfi e Mascellani (2021), il benessere non dipende dalla struttura in sé, ma dalla qualità delle relazioni che la abitano.

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06/11/2025

Un recente studio pubblicato su Nature (Martinot & Dehaene, 2025) conferma ciò che molte ricerche psicologiche e neuroscientifiche avevano già suggerito: non esiste alcuna differenza innata tra bambine e bambini nelle abilità matematiche.

All’ingresso nella scuola primaria, le competenze cognitive di base — riconoscimento numerico, quantità, relazioni spaziali — risultano identiche.

Il divario tra i generi emerge solo nei primi mesi di scuola, e tende a consolidarsi nel tempo.

Ciò suggerisce che non è la biologia a generare la differenza, ma il contesto.

Le aspettative degli adulti, il linguaggio usato in classe, la modalità di proposta dei compiti e le reazioni ai successi o agli errori contribuiscono a plasmare la fiducia e la percezione delle proprie capacità.

Gli autori parlano di “shaping socioculturale”: un processo attraverso cui gli stereotipi di genere diventano parte integrante del modo in cui i bambini si percepiscono.

Questo fenomeno mostra come la costruzione dell’identità cognitiva sia intrinsecamente relazionale: ciò che i bambini pensano di poter fare nasce dal modo in cui vengono visti, valorizzati o, al contrario, sottovalutati.

Il primo anno di scuola rappresenta dunque una finestra critica: un tempo in cui le esperienze relazionali e didattiche iniziano a modellare non solo l’apprendimento, ma anche la narrazione interna di sé come “capace” o “non portato”.

Promuovere un’educazione realmente equa significa allora intervenire precocemente, adottando linguaggi e pratiche che non trasmettano, anche implicitamente, differenze di aspettativa.

Perché l’uguaglianza non è solo una questione di opportunità, ma di sguardi che riconoscono e valorizzano le potenzialità comuni di tutti i bambini e le bambine.

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05/11/2025

L’influenza del giudizio altrui sull’immagine di sé è un fenomeno ampiamente documentato in psicologia sociale e nelle teorie del sé.

Fin dalle origini evolutive, la sopravvivenza dell’individuo è stata legata alla capacità di mantenere l’appartenenza al gruppo (Baumeister & Leary, 1995).

Il giudizio degli altri, quindi, non è soltanto una valutazione esterna, ma un segnale sociale che il cervello interpreta come indicatore di inclusione o esclusione.

Secondo le teorie dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1986) e del sé riflesso (Cooley, 1902), l’immagine che abbiamo di noi si costruisce attraverso i feedback provenienti dall’ambiente relazionale: il “sé” è, in parte, il risultato degli sguardi e delle narrazioni che riceviamo.

Nella prospettiva sistemico-relazionale, ciò si traduce nell’idea che l’identità è co-costruita: si definisce e ridefinisce costantemente all’interno delle interazioni significative.

Quando il bisogno di approvazione supera la capacità di autoregolazione interna, il giudizio altrui può assumere una funzione regolativa eccessiva, orientando il comportamento verso la conformità piuttosto che verso l’autenticità.

In questi casi, la narrazione di sé diventa adattiva ma non veritiera: risponde più al bisogno di mantenere l’omeostasi relazionale che a quello di esprimere un sé coerente e integrato.

Recuperare un equilibrio significa riattivare la capacità riflessiva: riconoscere che ogni sguardo esterno partecipa alla costruzione di noi, ma non la determina interamente.

È in questo spazio di consapevolezza che può emergere un senso di sé più autonomo, complesso e autentico.

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Essere sinceri non è dire tutto. È dire ciò che serve, nel modo giusto, al momento giusto. Questo è rispetto, ed è anche...
04/11/2025

Essere sinceri non è dire tutto. È dire ciò che serve, nel modo giusto, al momento giusto. Questo è rispetto, ed è anche intelligenza emotiva.

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03/11/2025

Molto spesso non è solo “difficile parlare di ciò che si prova”.

È che non siamo stati educati a farlo.

In molte storie di vita, la lingua emotiva è rimasta non appresa: nessuno ci ha insegnato come nominare la rabbia, la tristezza o la paura senza sentirci sbagliati o deboli.

In ottica sistemico-relazionale, il linguaggio emotivo nasce dentro le relazioni.
È attraverso lo sguardo e le parole dell’altro — soprattutto nelle prime esperienze familiari — che impariamo quali emozioni sono lecite e quali no.
Quando un contesto non riconosce o invalida certi stati affettivi, quelle emozioni tendono a restare non pensabili, non dicibili.

Non riuscire a “dire” ciò che si sente, quindi, non è solo mancanza di lessico emotivo.
È spesso la traccia di una proibizione interna: un messaggio implicito, ricevuto nel tempo, che dice “questa emozione non deve esistere”.

Il lavoro terapeutico — in particolare quello centrato sulla narrazione e sulla regolazione emotiva — mira proprio a ri-autorizzare la persona a sentire e a nominare.
Mettere in parole ciò che si sente significa restituire dignità all’esperienza emotiva e riattivare un dialogo interno più integrato.

Dare nome a un’emozione non è solo descriverla:
è riconoscerla, legittimarla e permetterle di trasformarsi.

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