PassepArtout

PassepArtout Una serie di attività e di progetti del turismo culturale, uniti e collegati dal denominatore comune della cultura applicata al territorio materiale.

A Ragusa Ibla, nell'architettura sacra della chiesa domenicana di San Vincenzo Ferreri (oggi Auditorium comunale), trova...
02/05/2022

A Ragusa Ibla, nell'architettura sacra della chiesa domenicana di San Vincenzo Ferreri (oggi Auditorium comunale), trova la sua pienezza artistica Forest Lux l'installazione che unisce opere di Rosa Mundi alla musica di Mario Bajardi. Entrambi gli Artisti lavorano sui filamenti di memoria, visiva e sonora, sulle forme fondamentali e sul concetto d'infinito. Nei cerchi delle Sfere armillari si raccoglie così l'intero trascorrere cosmico e il dialogo con la chiesa mette in evidente relazione lo scorrere rotatorio del tempo con l'improvvisa verticalità della Salvezza.

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A Ragusa nella città barocca rinata dopo il disastroso terremoto del 1693 che in un giorno di gennaio distrusse l’intero abitato dimezzando la popolazione, un’artista presente all’attuale Biennale di Venezia installa una serie di sette opere accompagnandole da un filo evanescente di musica. Rosa Mundi e Mario Bajardi presentano Forest Lux, un evento d’arte in quella che fu la chiesa di un importante convento domenicano, oggi trasformata in auditorium ma legato nel nome all’oratore apocalittico Vincenzo Ferreri, confratello santo nell’Ordine dei predicatori. L’allestimento è curato dal critico d’arte Andrea Guastella.

Nella navata le sfere armillari di Rosa Mundi s’inseriscono nel ritmo delle partiture architettoniche: sono macchine tridimensionali, realizzate con i cerchi secolari di botti di rovere, prese dalle cantine di un castello piemontese, poco sopra le Langhe, nel Monferrato. Questi intrecci di antico metallo sono velati da pellicole trasparenti, su cui appaiono immagini di animali senza tempo - le meduse - frammenti di civiltà, statue, corpi, colonne, cavalli. Dietro queste impalpabili figure filtra la luce, o meglio, appare. Il nome degli oggetti si rifà a strumenti di calcolo e previsione cosmica ma anche questo è solo una traccia del succedersi nel tempo. L’arte di Rosa Mundi ha una profonda e sincera dimensione sacra: racchiude l’intero arco del tempo, dagli elementi basilari che edificano e danno forma, nell’infinitamente piccolo, all’intero universo alla conclusione, già sottesa nell’atto del creare, dell’incontro con un mondo di luce. Tra la geometria dei principi e l’abbagliante sfolgorare della salvezza, esiste un trascorrere di corpi e di materia, di ere geologiche e civiltà millenarie, d’idee e di opere che nonostante l’intrinseca bellezza sono solo un succedersi di ombre raccolte nei cerchi delle sfere.

Perché il cerchio non è una sezione ma la rotazione di un raggio, e il raggio non è un mezzo diametro ma il lato di un quadrangolo all’incrocio col proprio asse intorno a cui gira. Queste Sfere armillari sono il concretarsi del tempo, il quadrato simbolico che si fa cilindro e quindi totalità: l’intero ha un principio e una fine, un’alfa e un omega, racchiude il tutto ma allo stesso tempo è racchiuso nell’essenza inconoscibile che l’ha generato e che attraverso se stessa, attraverso la luce, lo permea e lo svela. E’ così importante avere posto questa installazione nel tempio dei padri domenicani, la cui identità cristocentrica svela la salvezza, l’ingresso nella luce, lo spezzarsi del ritmo altrimenti inarrestabile della rotazione geometrica. Il dramma necessario dell’Iscariota, il tradimento, il deflagrare improvviso della salvezza che diventa così possibilità concreta e ricongiunge la fine con l’inizio dando pienezza e significato all’intera creazione è qui, a Ragusa, reso evidente nella chiesa conventuale dell’Ordo fratrum praedicatorum che completa il ciclo altrimenti eterno e immutabile delle Sfere.

Quanto è contenuto nelle immagini, è solo traccia di materia che si ricompone in forme differenti, ciclo obbligato in assenza di salvezza. Ciclo e allo stesso tempo cerchio, in cui si rimescolano i sedimenti della storia: allo stesso modo la musica di Mario Bajardi, sostenuta da un ritmo e potenzialmente infinita è la naturale e limpida forma sonora del loro infinito ruotare. Le Sfere armillari e la loro voce, la chiesa - ora auditorium - e il suo significato sacro di passione e liberazione dalla schiavitù della vita fisica diventano così un’opera unica, di valore escatologico e struggente bellezza.

Ben lo ha colto il Curatore, Andrea Guastella, evidenziando il significato profondamente individuale che Forest Lux può indurre in chi la percorre: “I più curiosi cercheranno in questo incontro tra luce e suono un significato mentale: né esplicitamente visivo, né esplicitamente musicale. Leggeranno avidamente le didascalie alla ricerca di informazioni biografiche, contestuali. Dichiareranno con voce ferma che il senso dell’opera risiede in questo o in quel particolare, magari postulando che la musica sia ispirata dalle immagini, o che le ultime rielaborino una qualche percezione suggerita dalla musica. Il che, in un certo senso, è vero. Ma si tratta della classica verità superficiale che veicola un senso più profondo. Musica e luce, come Eco e Narciso sono amanti impossibili, che non si possono incontrare. Una volta entrati nella foresta, tanto l’una quanto l’altra susciteranno negli ignari (e fortunati) visitatori un senso di spaesamento che potrà sì indurli a cercare appiglio in qualche dato positivo, ma potrà anche liberarli, indirizzandoli a percorrere un sentiero personale. E se pure, a dispetto dell’evidenza, le sfere armillari li convincessero dell’esistenza di un percorso preordinato – la vista, si sa, è stata sempre ritenuta un prolungamento del cervello, come la visione fotografica è stata scambiata, quando non lo è affatto, per un’affidabile copia del reale – la musica, con le sue apparenti incertezze, i suoi abbandoni, i suoi stridori e dissonanze, svelerà loro che le immagini, come Rosa Mundi sa benissimo, dipendono solo dal Punto di vista”.

Massimiliano Reggiani
con la collaborazione di Monica Cerrito

Forest Lux
Rosa Mundi e Mario Bajardi
Auditorium San Vincenzo Ferreri, Ragusa Ibla
dal 20 aprile al 3 maggio 2022

https://www.facebook.com/114745836935074/posts/493565342386453/Il nuovo murale dell'artista siciliana Pupi Fuschi sarà p...
28/04/2022

https://www.facebook.com/114745836935074/posts/493565342386453/
Il nuovo murale dell'artista siciliana Pupi Fuschi sarà presentato oggi a Palermo: è un invito al senso civico e alla solidarietà e dà voce ai giovanissimi pazienti colpiti dalla talassemia. ABIZERO parla col linguaggio dei bambini per fare un piccolo ma straordinario gesto: la donazione volontaria di sangue. "ABIZERO, in partenza per la luna!"
può essere l'inizio di un viaggio straordinario, l'abbandono dell'individualismo e la scoperta della generosità. Il murale è stato fortemente voluto dal dottor Giovan Battista Ruffo, Direttore della UOSD Ematologia e Talassemia, Dipartimento di Pediatria dell'A.R.N.A.S. Civico Di Cristina Benfratelli di Palermo, con la collaborazione della Associazione Crocerossine d' Italia Onlus, Sezione di Palermo.

Lo spazio immaginato come contenitore di figure e personaggi che appaiono all'osservatore come scene possibili nonostant...
18/04/2022

Lo spazio immaginato come contenitore di figure e personaggi che appaiono all'osservatore come scene possibili nonostante gli accostamenti arditi e la volontaria mancanza di una narrazione. E' l'arte del pittore siciliano Nicola Pucci, che svela uno dei più pericolosi meccanismi della comunicazione di massa: il verosimile che improvvisamente diventa realtà. L'Artista denuncia così l'esasperata ricerca di un significato davanti a qualsiasi messaggio, anche il più improbabile ed evidenzia quanto il nostro giudizio sia ingabbiato entro i confini e gli elementi che ci vengono dati, perdendo così ogni contatto con l'esperienza e quindi con la verità.

“La Figura e il Paradosso” dipinti di Nicola Pucci
Recensione di Massimiliano Reggiani

Il Mudima di Milano, la prima Fondazione italiana per l’arte contemporanea - nata nel 1989 per volontà di Gino Di Maggio - presenta una personale dell’artista siciliano Nicola Pucci. L’evento, dal titolo “La Figura e il Paradosso” è curato da Dominique Stella e attraverso le sue parole iniziamo a comprendere i dipinti esposti: “I quadri di Nicola Pucci si costruiscono in un curioso disordine di personaggi, animali, luoghi, situazioni paradossali, la cui evidenza risiede solamente nella volontà dell’artista di farne nascere un dipinto. La sua pittura rimette in discussione i codici della rappresentazione, e si articola attorno a un sistema di prospettive complesse che mira a immergere lo spettatore in spazi destabilizzati e ambigui ma se la pittura è figurativa, lo è in maniera cancellata, tormentata, rinnegando il contorno e la forma per raggiungere un’impressione, una sensazione. Proprio come la materia stessa, che sembra amalgamata e poi raschiata, elaborata per strati semi cancellati che si ricompongono in un collage aleatorio di consistenze sfocate che eliminano la nitidezza, a favore di un’impressione colorata, quasi astratta, in alcune parti del quadro. I lavori di Nicola Pucci sono perfettamente ambigui, si destreggiano tra delicatezza e forza brutale, tra rappresentazione e decostruzione, tra precisione e cancellazione e sempre fuori sincronia rispetto al reale, in una concezione dello spazio che sovrappone realtà totalmente contraddittorie. Le sue opere rivelano così una visione che, prima, è catturata e successivamente interpretata in modo da creare un disagio, un senso di straniamento. Accostamenti assurdi, contraddittori, illogici spezzano il vincolo della realtà proiettandoci in una dimensione surreale. In fondo quello che interessa Nicola Pucci è dipingere una quotidianità di eventi, di azioni, di soggetti, anche molto semplici e di spostarli a un livello immaginativo, totalmente improbabile. Pucci dipinge l'istante, cattura il movimento e lo congela in un momento di eternità, secondo una costruzione la cui composizione spaziale suggerisce un'esplosione, una battaglia, la fine del mondo. Il quadro è uno spazio del pensiero, all'interno del quale tutto è possibile”.

Cosa altro si può dire, dopo l’attenta analisi fatta da Dominique Stella sull’arte di Nicola Pucci? Resta lo spazio per una personale riflessione: perché la ricerca di Pucci è importante nel panorama artistico contemporaneo? Forse perché esprime appieno lo spirito dell’arte contemporanea, che non discende da una commissione e quindi da un sistema di valori che deve comunque essere rispettato. L’arte è un fondamentale strumento del pensiero, soprattutto quando l’artista può esprimersi con la massima libertà. Nicola Pucci, oltre alla libertà, ha anche una grande capacità tecnica che gli permette di comunicare con facilità e naturalezza. Questo rende ancor più interessante analizzare la sua opera. Ogni dipinto del Maestro palermitano è costituito da uno spazio molto adatto alla fisiologica percezione dell’occhio umano: la prospettiva non è una rigorosa costruzione geometrica, è più un uso sapiente dello scorcio, una capacità di riunire figure eterogenee secondo una logica della visione. Per questo, nonostante la stranezza, l’improbabilità, la novità e la sorpresa generati dagli abbinamenti, il suo spazio pittorico ci appare normale, verosimile, coerente. Non solleva dubbi, potrebbe essere: è una fantasmagoria ma nulla la rende urtante, sbagliata, innaturale. Allora cosa ci indica, cosa svela l’arte di Pucci? E’ una rappresentazione che smaschera, che mette a n**o l’osservatore, che porta in luce la gabbia mentale del nostro pensiero dove la verosimiglianza coincide troppo spesso con realtà e peggio ancora con verità. La nostra gabbia ci suggerisce: se ciò che vedi non è incoerente, allora prendilo per vero, accettalo, trova il suo significato e perché no, esprimi anche un giudizio di plauso o disapprovazione. Perciò diventa facile, per chi comunica - tanto attraverso immagini che con parole - guidare e peggio ancora manovrare l'approccio alla realtà che diventa conoscenza del racconto e non della concreta vita che pensiamo di aver compreso. L’arte di Nicola Pucci è un monito, particolarmente attuale in una società pervasa da immagini e narrazioni, una società democratica che attraverso il proprio consenso muove decisioni, appoggia e sostiene o sfiducia e condanna le proprie rappresentanze nelle istituzioni. Non tutto quello che appare coerente è vero, non tutto quanto è narrato contiene un significato, la vita può suggerirci intuizioni profonde mentre la narrazione è un teatro verosimile, parallelo alla realtà, ma che dobbiamo sempre accogliere tenendo ben viva la nostra capacità critica.

Massimiliano Reggiani
con la collaborazione di Monica Cerrito

“La Figura e il Paradosso” dipinti di Nicola Pucci
a cura di Dominique Stella
dal 25 marzo al 29 aprile 2022
Milano, Fondazione Mudima Via Tadino 26
dal lunedì al venerdì, ore 11-13 e 15-19
Ingresso libero

Per tutto il mese di aprile a Roma presso Maja Arte contemporanea 40 scatti di Enzo Ragazzini che documentano con natura...
02/04/2022

Per tutto il mese di aprile a Roma presso Maja Arte contemporanea 40 scatti di Enzo Ragazzini che documentano con naturalezza uno sguardo antropologico lungo oltre mezzo secolo. La mostra “Gens 1965-2022” raccoglie l’umanità in diversi continenti attraverso una selezione di immagini fatta dall’artista Ria Lussi, che ha curato l’evento.
Enzo Ragazzini è uno tra i grandi fotografi italiani con esperienza internazionale: ha vissuto e lavorato diversi anni a Londra, ha documentato la nuova realtà industriale che modifica paesaggio, urbanistica e società, ha raccolto le ultime immagini di un mondo non ancora motorizzato prima che il modello occidentale dilagasse nei più reconditi angoli del pianeta. In questa intensa attività, con costanza e umana empatia, ha anche voluto raccogliere, attraverso i volti e gli occhi, sogni, bisogni e aspirazioni della più diversa umanità.
Recensione di Massimiliano Reggiani

E' uno dei maggiori fotografi italiani nella seconda metà del novecento: Enzo Ragazzini, nato a Roma nel 1934. Ha vissuto e documentato i cambiamenti epocali della nostra società, esplorando le grandi civiltà contemporanee attraverso il vivere quotidiano. Dai volti pieni di speranza della contestazione, alle ultime testimonianze sul globo di un mondo ancora senza motori prima che il modello occidentale divenisse per tutti esperienza e modello di vita. Ragazzini ha occhio prima di tutto per la società, perché guarda alla storia come somma d’individui; vive tra Italia e Regno Unito, che sulle macerie dell’ultimo conflitto finito pochi decenni prima assisteva al dissolversi di un’era imperiale e al tumulto dell’individuo e della comunità. E’ così attento al volto nuovo dell’Europa che cerca di viverlo andando oltre la propria realtà, attraverso un’estetica al di sopra della storia. Ragazzini si trasferisce a Londra e la sua identità matura non è globalizzata ma planetaria. Documenta il Mediterraneo per Il Touring Club Italiano, la Sicilia per un volume del letterato siracusano Elio Vittorini, gli ultimi frammenti dei tropici sfuggiti alla rivoluzione industriale.

Quaranta sue opere sono in mostra a Roma, nella Galleria Maja Arte Contemporanea, per un evento curato dall’artista Ria Lussi che presenta “GENS 1965-2022”. Sono ritratti scelti fra quelli scattati in oltre mezzo secolo di attività fotografica. “GENS - scrive la curatrice - è un emozionante viaggio nel tempo per scoprire uno dei più grandi artisti italiani che attraverso la sua instancabile ricerca ci fa capire che i protagonisti siamo sempre noi. Che guardiamo loro. Che guardano il grande fotografo che li ritrae con sguardo gentile”. Ritratti perché fermano l’immagine dei volti, dei loro sguardi spesso malinconici o disorientati, ma mai finti né impostati. Enzo Ragazzini percorre vie, piazze e vicoli di un’umanità dolente, scoprendo che l’attesa è spesso sinonimo di rassegnazione, d’insofferenza e incapacità o impossibilità di padroneggiare le proprie azioni, il proprio futuro. Lo spiega chiaramente l’Artista in un proprio testo del 2020 “A proposito di Godot”.

“Nel mondo attuale - scrive Ragazzini - sembra che tutti stiamo aspettando qualcosa che non arriva; per i poveri si capisce, ma anche i ricchi, i potenti, i vincenti possono aspettare qualcosa che non arriva. La differenza forse è che i ricchi non devono pensare a sopravvivere mentre aspettano. I personaggi inventati da Beckett che aspettano Godot, non sanno cosa attendersi, è questa la differenza: aspettare un risultato a seguito di un’azione precisa, o aspettare smarriti qualcosa che possa cambiare il nostro futuro. Gli animali non hanno aspettative, hanno bisogni e quindi desideri che sicuramente cercano di soddisfare; solo gli esseri umani hanno aspettative: di un salvatore, di un deus ex machina che possa dare un senso alle loro vite”.

Questa condizione di attesa Ragazzini la coglie negli sguardi o comunque nei lineamenti del volto, anche i soggetti stanno riposando appagati dalla certezza di vivere un momento storico, che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo, com’è accaduto per i giovani distesi sui prati dell’isola di Wight. L’arte fotografica di Enzo Ragazzini ha due grandi pregi: nasce per raccontare, per essere documento di momenti ineffabili ma allo stesso tempo esemplari di una società che in tempi brevissimi muta radicalmente. La sua forza è quindi il significato, lo scatto non è solo estetico ma frutto di una profonda riflessione, di una valutazione morale, del giudizio sul proprio tempo. Fotografare significa trattenere un frammento di realtà, che poi l’artista amplia di significato elaborando l’immagine stessa. Ragazzini ha insegnato “Tecniche di camera oscura” all’Hornsey College of Art di Londra e il Modern Art Museum di Oxford gli ha dedicato una mostra proprio sulla sua ricerca di postproduzione. La traccia lasciata dalla realtà sulla pellicola fotosensibile è solo il primo passaggio, la presa di coscienza di un dato di fatto. Quello che avviene dopo è la voce critica dell’artista che trasforma il documento in espressione, l’immagine in messaggio. GENS è una splendida mostra, una selezione di quaranta ritratti che si concentrano sull'aspetto antropologico di una ricerca estetica in bilico fra testimonianza e idealismo, maturata in un lungo percorso già evidente nel 1972 quando Enzo Ragazzini si presentò alla Biennale di Venezia nella sezione Grafica del Padiglione inglese.

Massimiliano Reggiani
con la collaborazione di Monica Cerrito

“GENS 1965-2022”
personale di Enzo Ragazzini a cura di Ria Lussi
dal 19 marzo - 30 aprile 2022
Maja Arte contemporanea
Roma, Via di Monserrato 30
dal martedì al venerdì 15.30 - 19.30
sabato 11.00 - 13.00 e 15.00 - 19.00

25/03/2022

Ceramiche ma soprattutto disegni: tavole raffinatissime e preziose sono in mostra a Messina, nella Galleria SpazioQuattro. L’autore, assolutamente schivo e immerso in un profondo percorso di riflessione morale, è Antonino Amato, architetto, messinese, uomo di vasta cultura. Per presentare le sue opere occorre distinguere la citazione, la conoscenza e il riferimento, dalla forza evocativa delle singole tavole, dalla loro capacità di attrarre, commuovere, colpire l’osservatore e aprire con lui un dialogo.

Partiamo dall’artista, lasciando che sia lui a svelarci la propria storia: “La matita è l’ago della mia bussola con la quale mi muovo nel mio spazio, conosciuto e riconoscibile. Con la matita in mano ho, per anni, lavorato da architetto alle Ferrovie dello Stato, progettando numerosi restyling di stazioni per lo più nella parte orientale della Sicilia: Taormina, Catania, Siracusa Messina. E' mia la ristrutturazione a Palermo del palazzo, sede compartimentale delle FS; sono mie le nuove fermate nel messinese di Tusa e Giampilieri. Ho lasciato una mia piccola impronta nella mobilità dell’isola, le mie scelte progettuali accompagnano ogni giorno il transito di tanti viaggiatori. Come artista mi sono chiesto se io possa contribuire alla ricerca di un senso nella vita, che vada oltre l’estetica e la funzionalità; se l’arte possa aiutarci a svelare un disegno che giustifichi il soffrire e l’apparente casualità dell’esistenza”.

Antonino Amato è avido lettore e al tempo stesso, in una delle sue declinazioni d’artista, iconografo: realizza cioè icone nella rigorosa osservanza della tradizione, secondo schemi e proporzioni tramandate nel tempo, sfruttando questa passione per contemplare - dipingendo - la visione del trascendente. Ciò che è rassicurante nel dipingere il sacro, la meditazione, il farsi tramite di questo mondo di luce e dei suoi simboli, diventa invece ricerca senza risposte certe quando dalla visione si passa alla ruvida e convulsa scorza della storia. Anche lì, negli eventi, c’è un disegno ma l’accadere lo cela, lo trasforma in racconto, ne smarrisce il significato più vero. Le tavole in mostra, oltre alcuni disegni di rara bellezza sui rapaci della notte, si legano al mare e alle storie degli uomini che l’hanno vissuto. I capodogli di Melville, il Moby Dick albino eponimo del romanzo di balenieri, si mescola all’Orcaferone di Stefano D’Arrigo, mostro immortale degli abissi dell’opera Horcynus Orca. In entrambi l’animale catalizza ogni emozione del protagonista, sono narrazioni di morte, del tentativo eroico di domare e sconfiggere l’ignoto, in un viaggio catartico che porta più all’autodistruzione che alla salvezza.

“Provate - spiega l’Artista - a immaginare la vostra vita, dalle albe agli stanchi tramonti, lo scorrere delle vostre stagioni e il tempo della grazia, della bellezza della gioia, senza il Male. Ma il Male c’è e il capitano Achab crede di aver capito tutto. Lui ha incontrato il Male. Quello con la M maiuscola. Il male assoluto. E d’ora in poi consacrerà la sua vita, per conto dell’umanità ferita, andando a caccia del Male. Perché ora sappiamo chi è e possiamo ucciderlo. Quella che il Capitano cerca non è la vendetta, ma il perseguire di un fine nobile, altissimo: la debellazione del Male dal mondo. In questa epica missione trascina tutto il suo equipaggio. Li ipnotizza li invasa dello stesso Male di cui ora è lui stesso posseduto. Porta la nave e tutto il suo equipaggio alla rovina. Questa storia è una storia morale e non avrebbe senso se non fosse raccontata. Così uno, che chiede d’essere chiamato Ismaele, sopravvive per raccontarlo a noi. Quello che ho fatto è provare a raccontare la quotidiana lotta degli uomini contro ciò che ritengono sia il male, attraverso la storia vera e comune dei marinai di una baleniera di fine ottocento. Ho disegnato con pignoleria, i luoghi veri o plausibili in cui sono accaduti questi fatti. Ho disegnato quasi fossero dei dagherrotipi, volti e pose di uomini di mare pronti a imbarcarsi su una nave che sarà il loro carro funebre. Volti veri e patetici nella loro presupponenza ma anche nel loro bisogno di dire: io c’ero. Io ci ho provato, ho vissuto e ora non ci sono più”.

Le tavole di Amato non aggrediscono direttamente il tema, sono un riferimento colto, una citazione, un solleticare l’osservatore per coinvolgerlo nel meccanismo della narrazione, per avvicinarlo al contenuto epico del romanzo, dove effettivamente abisso d’acqua e voragini interiori, sangue e sofferenza, lotta e dominio costruiscono il racconto e si fanno parola. La raffigurazione è frontale, senza ombre a macchiare i volti, ogni personaggio incarna il ruolo che il romanzo ha creato per lui: non vi è azione, vi è rimando a un mondo lontano che l’artista sente con veemente e intima attualità. Le tavole sono un rimando, equilibrate e preziose nella costruzione, allusive a una storia che si deve necessariamente conoscere per comprendere il loro significato. Più dirette, invece, le piccole sculture ceramiche dei cetacei abissali su cui l’oro sembra rimandare ai riflessi di luce attraverso le onde. Il disegno illustra, la scultura emoziona: il mondo degli uomini non è in grado di rispondere al grande interrogativo sull’inestirpabile presenza del male. Ogni disegno ispirato a Melville sembra dialogare - nella mente dell’artista - con l’universo atemporale dell’icona. Da un lato c'è lo sguardo sul trascendente, dall’altro i sedimenti della storia, fatti di parole, di volti, di frasi. L’assoluto oltre il tempo, il contingente che si consuma nello sforzo vano. Amato sembra già dare una risposta all’interrogativo della sua ricerca: la contemplazione ci permette di sfuggire al Male, nonostante il combatterlo sia un imperativo etico. La mostra è quindi una riflessione sul significato dell’azione e della storia, sulla consapevolezza che ogni sforzo renda giustizia al singolo ma non riesca comunque a dargli quel vero significato che si può ottenere solo abbandonandosi intimamente al Divino.

Massimiliano Reggiani
con la collaborazione di Monica Cerrito

"MOBY DICK or THE WHALE - Per una teleologia del Male"
opere di Antonino Amato
dal 26 marzo al 7 aprile 2022
dal lunedì al sabato
dalle 17.00 alle ore 20.00
Galleria SpazioQuattro, Messina
Via Ghibellina, 120

14/03/2022
05/03/2022

I dipinti dell’architetto messinese Giuseppe Geraci sono il riflesso di una sensibilità assetata di bellezza, una vita trascorsa a maturare un proprio e unico, equilibrio di composizione e colore. E’ importante questa premessa, perché l’artista si è espresso – per professione e per piacere – in molteplici campi creativi e in ognuno ha cercato di rappresentare la medesima visione del mondo. Per comprendere la sua arte dobbiamo capirlo come uomo. Geraci nasce a Messina nel 1947, la famiglia lo avrebbe voluto medico ma lui, prima ancora di iniziare la scuola primaria, era già convinto che sarebbe diventato architetto. Siamo nella Sicilia del dopoguerra, ancora scossa e segnata dai bombardamenti che hanno devastato un paesaggio di rara suggestione, tra campagne lavorate per millenni, nobili fasti barocchi, decorose e regolari espansioni di case e palazzi della borghesia ottocentesca. C’erano la linearità dell’urbanistica di regime, la gaia e avvolgente leggerezza dell’arte nuova e la ferita delle truppe che la percorsero con fretta e violenza per raggiungere il nord e passare lo Stretto. Essere architetti e non ingegneri come la grande maggioranza di chi operava nell’edilizia e sulle infrastrutture, portava il segno di un amore ancora inespresso verso l’equilibrio, il territorio, il passato e la libertà del presente. C’era una vena romantica nel giovane che volle, ad ogni costo, iscriversi al liceo artistico di Reggio di Calabria.

Due città dirimpettaie, una protesa verso il mare l’altra affacciata sulle acque dello Stretto, entrambe fisicamente sconvolte dalla violenza di un sisma che l’Italia giolittiana non ebbe forza e tempo di riparare. Luoghi dalle memorie terribili ma anche spazi che la mente creativa avrebbe potuto riorganizzare: il liceo era propedeutico alla Facoltà di Architettura, che Geraci frequentò a Palermo e lo avvicinò al professor Roberto Calandra, nel cui studio di architettura il giovane universitario iniziò a lavorare. Da generazioni i Calandra si occupavano dell’edificare ma anche del conservare e la tradizione di famiglia si ricongiungeva a Ernesto Basile, l’architetto in cui si riconobbe l’Italia sabauda e che progettò a Roma l’attuale Parlamento, la nuova ala di Palazzo Montecitorio. Una continuità nelle generazioni, allenata all’equilibrio tra costruzione e bellezza: l’esercizio di una sensibilità che affascinò Giuseppe Geraci, accentuando la parte emotiva, intuitiva e poetica del suo creare.

Roberto Calandra, negli Stati Uniti, aveva conosciuto l’opera di Frank Lloyd Wright, e nel suo allievo Geraci molte delle intuizioni dell’architetto d’oltreoceano sembrano essere rifiorite. L’attenzione per alcuni dettagli del passato, l’equilibrio dell’estremo oriente, la valorizzazione del sapere artigiano, della manualità, di una rigorosa disciplina interiore le ritroviamo sia nell’attività professionale del Geraci architetto, in quella pedagogica del Professore, nei ponti millenari tra le origini della nostra civiltà e le sue creazioni orafe di rara bellezza. Giuseppe Geraci è architetto, con preferenza d’interni, dove ha contribuito a dare luce e libertà allo spazio quotidiano, è stato docente di discipline artistiche, soprattutto pittoriche, cercando di coniugare l’affinarsi delle tecniche con la maturazione personale dei propri allievi, è pittore come possiamo ammirare nella sua personale allo Spazioquattro di Messina e, come abbiamo già ricordato, modellatore di gioielli realizzati poi in oro con la tecnica della fusione a cera perduta.

Il suo dipingere, astratto o paesaggistico che sia, è la resa in colori delle sue emozioni più profonde. La capacità di far vibrare l’anima dinanzi la bellezza della propria terra, di comprendere il peso visivo di una forma geometrica o di una campitura di colore e trovarne subito l’opposto, per generare un equilibrio dinamico, un moto silenzioso di suggestioni che sulla stessa tela convivono e si giustificano ognuna nella propria relazione con le altre, come barocchi marmi mischi, tarsie lignee dello stallo di un coro, opus sectile di rara fattura. Giuseppe Geraci dipinge ad acrilico, progetta e disegna a squadra e matita ma con il pennello lavora esclusivamente a mano libera, tracciando linee, angoli e curve con polso fermo, senza mascherine o altri artifizi. Sia il comporre geometrico astratto, sia la ricreazione del paesaggio – soprattutto eoliano – in fughe d’isole, orizzonti e pini ombrosi è la trasposizione in forma fisica e concreta, fatta di pigmento e di materia, di uno spazio tridimensionale razionalmente percorribile che si proietta nel piano del campo visivo, come una proiezione ortogonale, come una lezione di geometria descrittiva. La particolarità, oltre l’indiscutibile bellezza del risultato, è che questa percezione non si riferisce a uno spazio reale o vissuto, bensì a un paesaggio della mente, nato dalla somma di esperienze, immersioni, viaggi, studi e ragionamenti, depurato dalla confusione del racconto, dai veli della memoria, ridotto a pochi colori essenziali, che siano pigmento o metallo. Così come le sue architetture si liberano dalle costrizioni dell’abitudine, riducendo al massimo cesure e sostegni, i suoi dipinti – che ne proseguono con coerenza la progettazione – offrono spazi sconfinati, che devono essere percorsi con la strada delle emozioni e la libertà dei sentimenti.

Massimiliano Reggiani
con la collaborazione di Monica Cerrito

"Viaggio nell’immaginario"
opere di Giuseppe Geraci
Galleria SpazioQuattro
Messina, Via Ghibellina 120
dal 5 al 17 marzo 2022

Indirizzo

Palermo
90135

Orario di apertura

Martedì 09:00 - 17:00
Venerdì 09:00 - 17:00

Telefono

+39 3336435440

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