29/10/2024
Faccio mie le sue parole, non poteva dirlo meglio. Grazie robivil Roberta Villa
Riformare la medicina generale per il futuro della sanità italiana
Roberta Villa | Pubblicato il 29/10/2024
Per cercare di risolvere la carenza di figure professionali sanitarie, è necessario iniziare a capire come mai questa carenza è iniziata e restituire dignità al lavoro, al lavoratore e alla lavoratrice
Recentemente ho avuto modo di apprezzare molto sul Corriere della Sera il lavoro di Milena Gabanelli sulla sanità italiana. In particolare, ho trovato molto puntuale la lucida analisi del team di Dataroom sui Pronto soccorso, luoghi in cui si concretizza e si rende visibile la crisi di tutto il servizio nazionale, un tempo fiore all’occhiello del nostro Paese, oggi principale fonte di preoccupazione e frustrazione per gli italiani. Anche in quel pezzo si sottolineava come gli ospedali pagassero la fragilità della medicina territoriale. Mi stupisce l’attacco ai medici di famiglia, cui nell’ultimo servizio ci si riferisce come “lobby di interessi”, come già in passato si era parlato di “lobby di potere”.
Sia chiaro. È doveroso indagare su eventuali conflitti di interesse dei vertici o delle società scientifiche (ne ho scritto anch’io più volte in passato), ma da qui a descrivere la medicina generale come una branca della professione che mira al massimo profitto con il minimo sforzo è davvero ingiusto. Per un medico neolaureato, le strade che garantiscono un futuro pieno di soldi sono altre, come dimostra la corsa alle scuole di specializzazione che la stessa Gabanelli ha più volte sottolineato e di cui parlavo qui: le più richieste sono chirurgia plastica, dermatologia, endocrinologia, cardiologia, gastroenterologia, oculistica pediatria, neurologia, mentre restano sempre posti vacanti per le scuole di medicina generale. Perché sono pagate meno e non ancora riconosciute (eccezione italiana) come le altre? Beh, se poi ci fosse il paese di Bengodi, come sembra, molti accetterebbero di stringere la cinghia per altri tre anni.
È chiara quindi la contraddizione della narrazione, che va ben oltre i servizi di Dataroom, ma è abbastanza radicata nell’opinione pubblica: se l’opzione della medicina di famiglia fosse tanto allettante, così pagata e con un impegno di ore di lavoro così limitato, come mai non abbiamo una sovrabbondanza di richieste, invece di una drammatica carenza di medici disposti a seguire questa strada, sebbene sia raggiungibile con tempi più brevi e minori ostacoli di una specializzazione ospedaliera o di altro tipo? In una società patriarcale come quella in cui purtroppo ancora in parte viviamo, tre ore di ambulatorio per cinque giorni a settimana sarebbero la soluzione ideale per le giovani donne che volessero dividersi al meglio tra lavoro e famiglia. Sappiamo che i neolaureati in medicina sono ormai in maggioranza dottoresse. Dovrebbe esserci la coda.
Non c'è trucco, non c'è inganno, il lavoro è tanto
La verità, anche se a volte è difficile da credere per il pubblico, è che le 15 ore (minime!) che un massimalista con 1.001-1.500 assistiti deve garantire in ambulatorio non rappresentano la totalità del suo lavoro. A parte che spesso questi orari si prolungano ben oltre il minimo previsto e spesso fino a tarda sera, perché pochi hanno il fegato di abbassare la saracinesca all’’orario minimo di chiusura quando hanno la sala di attesa ancora piena o una serie di richieste di aiuto cui non sono ancora riusciti a dare risposta.
Alla presenza in laboratorio si aggiungono lunghe ore al telefono con i pazienti cui può bastare un consulto a distanza, ma anche, quando serve, le visite a domicilio, soprattutto a un numero crescente di anziani non autosufficienti. Perché non è vero che i medici di famiglia non fanno più visite a domicilio. Come sempre, dipende dai casi, ma è giusto che, in una situazione di risorse limitate, si rechino solo da chi non può muoversi dal letto. Altrimenti, per accontentare la persona ansiosa con raffreddore e due lineette di febbre, rischiano di non riuscire a occuparsi di una situazione più urgente. Poi c’è la formazione, ma soprattutto la burocrazia, una montagna di burocrazia. Anzi, più che una montagna, una palude, in cui si resta invischiati e che rappresenta uno dei principali fattori respingenti per i giovani che vorrebbero seguire questa strada.
Carenza e sbilanciamento delle professioni
Mi hanno colpito i dati di un rapporto stilato dall’Osservatorio Conti Pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra medicina generale e altre specialità. Nel confronto con gli altri Paesi europei è ben noto che in Italia non c’è una vera carenza di medici, quanto di infermieri, e che il nostro problema è piuttosto lo sbilanciamento tra attività, per cui mancano chirurghi e medici di urgenza, ma non cardiologi. Si parla di meno del fatto che sul totale l’Italia (con Bulgaria, Repubblica Ceca e Ungheria) abbia in percentuale più specialisti della media degli altri paesi europei (78% vs 68%) e meno medici di medicina generale, mentre l’Irlanda addirittura capovolge il rapporto, con oltre la metà dei medici che si dedicano al territorio.
È su questo che a mio parere si dovrebbe lavorare, rendendo il più possibile attrattiva la scelta della medicina generale (non “di base”, per piacere).
Ciò può essere fatto migliorando la qualità del lavoro, snellendo la burocrazia, ma senza penalizzare la retribuzione, che è meno elevata di quanto sembri. Mentre i medici specialisti italiani, infatti, hanno in media uno stipendio che supera il PIL pro capite del 208%, rispetto al 178% negli altri Paesi europei, i 100.000 euro di retribuzione lorda annua dei medici di famiglia italiani non sono equivalenti a quelli di un primario ospedaliero.
Le incombenze sono tante
Nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano, infatti, i medici di medicina generale sono liberi professionisti convenzionati, per cui al reddito annuo lordo vanno sottratti, oltre alle tasse e ai contributi previdenziali, le spese di uno studio (affitto, riscaldamento, elettricità e altre utenze), che in alcuni contesti (penso alle grandi città), possono essere molto ingenti. Se poi si vuole migliorare il servizio ai cittadini, anche in termini organizzativi, serve assumere (e pagare mensilmente, più ferie e contributi) una persona che si occupi della segreteria. E ammortare l’acquisto di arredi, computer ed eventuali apparecchi diagnostici, come l’ecografo, e così via. Un dipendente ospedaliero non si deve occupare di tutto questo.
Gli oneri possono essere condivisi nella medicina di gruppo, che per certi versi è stata l’antesignana del concetto di “casa di comunità”: ne esistono esempi di eccellenza, dove i cittadini sanno di trovare sempre una risposta ai loro bisogni essenziali, anche grazie alla valorizzazione del ruolo degli infermieri e di altre figure professionali. A mio parere, come liberi professionisti, i medici hanno tutto il diritto, se desiderano farlo e ne hanno le possibilità, di ampliare e integrare con il supporto di colleghi specialisti realtà di questo tipo, o crearne di nuove. I medici potrebbero continuare a farlo restando all’interno di una convenzione con il pubblico – e sarebbe la strada preferibile – oppure fare concorrenza dal basso ai grandi gruppi ospedalieri o assicurativi privati che hanno costellato le nostre città di quelle strutture di prossimità che lo Stato fatica a fornire.
È chiaro che, se altri medici dovessero seguire questa strada, staccandosi dalla convenzione con il SSN, il progetto delle case di comunità pubblica vacillerebbe più di quanto già non faccia. Il rischio di avere enormi scatole vuote sarebbe più reale di quanto già non sia. Ma non si possono risolvere le difficoltà di un pilastro cruciale della vita di un Paese contando solo sullo spirito di sacrificio delle persone. I medici sono professionisti, che per raggiungere il mondo del lavoro hanno un iter molto più lungo e faticoso di molti altri, sulla cui formazione le famiglie e la società investono tempo e denaro.
La dignità del lavoro è la stessa per tutti
Se di medicina di famiglia e di disponibilità sul territorio c’è un disperato bisogno, tocca al Governo rispondere creando le condizioni per cui lavorare in convenzione o come dipendenti pubblici sia conveniente anche per i medici di medicina generale. E non intendo solo in senso economico, ma anche e soprattutto in termini di qualità del lavoro.
L’obiettivo più importante, ma forse anche più difficile da raggiungere, è ristabilire la reputazione di una figura che un tempo era punto di riferimento per la comunità e oggi è considerata da molti quella di un passacarte che merita poco rispetto. Uno che in fondo non è un “vero medico”, di cui fidarsi poco rispetto agli oracoli rappresentati dagli specialisti (per i quali, se chiedono centinaia di euro a visita, di solito fanno ba***re ciglio). Questo è il vero ostacolo, quello che tiene lontani i giovani. Prima di tutto, quindi. occorre equiparare in tutto i corsi di medicina generale alle altre specialità, come accade altrove, non solo da un punto di vista economico, ma anche e soprattutto da quello del riconoscimento sociale di queste figure, che in teoria continuiamo a definire come fondamentali, ma che poi non si perde occasione, a torto o ragione, per bastonare.
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