25/05/2024
Sento ormai di essere l’ultima psicologa sul pianeta Terra - ma forse nell’intero Sistema Solare - a non aver speso due parole cercando di cavalcare l’onda mainstream, molto fuffosa e molto collusivamente markettara, del narcisismo patologico e/o delle relazioni tossiche.
La verità è che non ho mai creduto che ci fosse qualcosa di interessante o di così innovativo e inaspettato da dire al riguardo.
Nel mio studio ho incontrato in continuazione pazienti con partner o ex partner stronzi/e, che ne hanno combinate di tutti i colori.
Tradimenti con le giustificazioni più surreali, innamoramenti folli a velocità supersonica, scelte prese sull’onda della completa irrazionalità, convivenze fulminee, ricatti emotivi di ogni tipo, atti mancati (i miei preferiti, quelli che si fanno sgamare perché non sanno come uscirne), ghosting, orbiting, il tormento delle allusioni nelle storie sui social, veri e propri ritorni dall’aldilà dopo secoli di sparizione (un must del periodo di lockdown), e-mail furibonde, persino qualche serenata vecchio stile chitarra in collo.
Quando arrivano in terapia questi pazienti sono pieni di dolore, smarrimento, confusione, ferite nuove che spesso si accumulano su ferite vecchie, le aprono, le aggravano, le infettano e devastano tutto l’organismo.
Spesso sembrano pieni di rabbia e frustrazione, ma il più delle volte ci si accorge rapidamente che sono pieni di paure.
Di rimanere soli, di essere sbagliati, di non essere abbastanza, di non poter ambire a qualcosa di meglio, di non meritarlo, persino che sia questo che gli riserva il destino.
Ci sono circostanze in cui il lavoro di un terapeuta deve essere necessariamente incisivo e deciso.
Succede quando c’è un rischio di sopravvivenza, fisico e/o psichico o quando sono coinvolte persone che non hanno possibilità di scegliere la sorte di cui perire (tipicamente i figli, quelli già esistenti, ma anche quelli che si ipotizzano, come piccoli messia attraverso cui ci si illude di cambiare le carte in tavola).
Sono quelle situazioni in cui al significato di quelle paure si arriverà poi, prima c’è da portare in salvo il paziente, portarlo via da una casa che va a fuoco.
Poi, però, occorre capire cosa ha reso così affascinante e attraente l’idea di condividere una casa con una persona che ama giocare con gli accendini e la benzina.
Nella retorica mainstream sulle cosiddette relazioni tossiche questo passaggio è quasi sempre omesso.
Semplicemente ci sei tu e poi c’è lo stronzo/a da cui ti devi allontanare a ogni costo.
Così si elencano le red flags, si fanno i corsi per allontanarsi dal/dalla narcisista di turno, si etichetta tutto in modo lineare, chiaro, ridotto all’osso.
Il problema diventa solo ‘come riconoscere quelli/quelle che ti prendono in giro’.
Come se interrogarsi su quali parti di noi ci hanno portato in questo grosso guaio a Chinatown sia un tabù, un automatico scivolamento verso la condivisione di colpe e responsabilità che mette tutti sullo stesso piano.
Il rischio è avallare una vera e propria resistenza sia clinica sia ‘culturale’ intorno a un patto implicito tra pazienti e terapeuti, basato sull’impossibilità del terapeuta di tollerare dentro di sé istintivi pensieri di sconcerto (‘ma come hai fatto a non accorgerti che era un/a cojone?’) per non parlare delle risonanze con le storie del terapeuta, magari andate male per ragioni non troppo dissimili, e sulla necessità dei pazienti di direzionare tutte la frustrazione fuori da sé.
Col risultato di aiutare le persone a staccarsi da relazioni disfunzionali, ma non aiutarle a costruire dentro di sé lo spazio per accogliere relazioni diverse, più funzionali.
Uno spazio che non può dipendere solo dalla capacità di schivare lo stronzo/a di turno, ma anche dall’idea di noi stessi, dalla nostra capacità di provare amore, compassione, pazienza, tolleranza verso i nostri bisogni, desideri, mancanze, passioni, contraddizioni.
Solo così possiamo imparare ad andare oltre la ricerca della persona giusta e ambire ad avere ‘la relazione giusta’.