Marco Ferrara Fisioterapista

Marco Ferrara Fisioterapista Il corpo cerca l’armonia e coglie ogni opportunità per liberarsi da un utilizzo inadeguato.

Grazie per la condivisione.Ho studiato anche in Francia dove i medici restavano stupiti dalla mole di esami radiologici ...
03/08/2025

Grazie per la condivisione.
Ho studiato anche in Francia dove i medici restavano stupiti dalla mole di esami radiologici che i Pazienti italiani mostravano alle visite e mi domandavo sempre come fosse possibile, e se gli ortopedici italiani fossero in grado di visitare le persone.
Idem in Spagna.
Qualche anno fa lessi un articolo che parlava dell’ammissione da parte di una associazione nazionale di radiologia, credo americana, della incongruenza della stragrande maggioranza degli esami eseguiti, relativamente al contesto clinico dei Pazienti.

CARI PAZIENTI E CARI COLLEGHI NON PERDIAMO TEMPO E NON SPRECHIAMO SOLDI

Visti i continui pazienti che arrivano con esami inutili , vorrei ancora una volta lanciare un messaggio forte e chiaro .

Se arriva un paziente di oltre 60 anni , in cui si sospetta una patologia artrosica

IL PRIMO ESAME DA CHIEDERE SONO LE RADIOGRAFIE!!

CON LE GIUSTE PROIEZIONI E FATTE BENE

PER STUDIARE L’ARTROSI E CLASSIFICARLA SERVONO LE RADIOGRAFIE!!! L’artrosi e’ una delle malattie più frequenti a quella età .

Dopo se serve, si chiede l’ECOGRAFIA, se devo studiare parti molli superficiali .

Se dovessero servire accertamenti particolari per studiare ulteriormente parti molli ( legamenti , menischi , cercine , osteonecrosi, sospetti tumori ….)
SOLO IN QUESTI CASI SI CHIEDE UNA RISONANZA MAGNETICA !

SOLO IN ALCUNI CASI SI CHIEDE LA TAC ( se devo studiare meglio l’osso , la frattura o un tumore)

Purtroppo continuano ad arrivare pazienti anziani da 75 -80 anni a cui e’ stata consigliata solo una RM!!!

E’ fuori indicazione, non ci da le indicazioni che servono e si sprecano soldi e tempo !

La RM non ci fa vedere tutto : c’è questa convinzione nella popolazione . Spesso viene accontentato il paziente .
C’è anche il clima attuale della Medicina difensiva in cui un medico si trova oggi.
Siamo dei medici .

Non dimentichiamo l’arte medica
di dedicare tempo al paziente , fare l’anamnesi accuratamente e fare un esame obiettivo scrupoloso . E si avrà il sospetto diagnostico al 90%. Dopo si chiedono imaging mirati .

Quando invece magari chiediamo noi una RM per studiare una lombosciatalgia e cercare ernie , ci viene detto che non si può fare la prescrizione e che manca il budget !! Su via cerchiamo di essere seri .

Forse e’ meglio discutere tra tutti noi con riunioni inter specialistiche .

Evitare gli sprechi .
Non tutti i pazienti si possono permettere di pagare esami e tanto meno di sprecare soldi ❤️.

Non facciamo perdere tempo ai pazienti

Questo ce lo impone l’etica , la deontologia e l’aggiornamento costante .
Non c’è da inventare niente : solo seguire LINEE GUIDA che vanno lette.

Aiutatemi a CONDIVIDERE la conoscenza .

“Non puoi sperare che le cose cambino , se continuiamo a fare le stesse cose”
(cit Albert Einstein)

ps: ci tengo a ringraziare tutti i colleghi , tecnici di radiologia , fisioterapisti e pazienti che con le loro preziose testimonianze confermano il contenuto e l’obiettivo di questo post : cercare di migliorare la sanità allo sbando anche partendo da piccole cose .

Sciu Megu ❤️

Verità! 🤪🫣
03/08/2025

Verità! 🤪🫣

Hai riassunto perfettamente come mi ripropongo di affrontare ogni mia giornata lavorativa da circa 35 anni!Aggiungo una ...
01/08/2025

Hai riassunto perfettamente come mi ripropongo di affrontare ogni mia giornata lavorativa da circa 35 anni!
Aggiungo una postilla, chiediamoci sempre se la persona che si rivolge a noi è nel “momento giusto” per sperimentare un potenziale cambiamento, seppur teoricamente in positivo, e non arroghiamoci MAI il diritto di obbligare ad una qualsivoglia modifica senza domandarcene il prezzo, in termini di rapporto “costi/benefici”.
Superiamo sempre il nostro Ego e domandiamoci come riuscire ad essere propositivi e mai impositivi: ricordiamoci che ai “liberatori” si lanciano fiori dai balconi, agli oppressori, le tegole!
🤗👏🏻👏🏻👏🏻

E SE IL CORPO NON FOSSE UNA CATENA.. MA UNA RETE!?

Dal modello lineare alla visione bio-psico-funzionale-sociale: riflessioni sulla complessità posturale (oltre la meccanica).

Questa riflessione nasce da un post recente che ha generato molte critiche, confronti e reazioni contrastanti.
E va benissimo così.
Anzi, è proprio per questo che vale la pena continuare a parlarne.

Perché il tema non è teorico. È clinico, quotidiano, culturale.

Quel post toccava un’immagine ancora molto diffusa nella pratica professionale: quella del corpo visto come una catena di segmenti meccanicamente interdipendenti. Un modello che, come dimostrano i numerosissimi commenti ricevuti, è ancora profondamente radicato nei discorsi, nei trattamenti e nei ragionamenti di tanti operatori della salute.

E allora abbiamo deciso di fare un passo indietro per poterne fare uno avanti: ripartire da quella visione lineare, per aprirci a una lettura più ampia, più fedele, più attuale del corpo umano.

Perché ogni paradigma nasce da una storia.
E ogni cambiamento comincia proprio da lì: dal metterla in discussione. 💪

Per anni abbiamo raccontato il corpo come un congegno perfettamente allineato. Una catena meccanica dove, se un anello si indebolisce, l’effetto si propaga in modo ordinato: il piede cede, la tibia ruota, il ginocchio compensa, il bacino si adatta, la spalla si alza, il collo si irrigidisce.

Una teoria semplice, affascinante, persino terapeuticamente utile. Una narrazione che ci ha aiutato a vedere collegamenti, cercare spiegazioni, costruire interventi coerenti. Ha nutrito il ragionamento clinico e sviluppato il pensiero critico.

Ma.. siamo sicuri che il corpo funzioni davvero così?

ATTENZIONE: il corpo a volte si comporta come una catena, soprattutto in contesti ad alta richiesta meccanica (come la corsa o l’atletica), ma è solo uno dei tanti modi in cui può organizzarsi. Il modello di rete che leggerete sotto non sostituisce quello lineare. Lo completa. Lo arricchisce.

DAL DOMINO ALLA RAGNATELA: IL CORPO COME RETE CONNESSA

La realtà è molto più sofisticata.
Le neuroscienze, la biotensegrità, la sistemica, la fascia, la clinica osservativa.. ci dicono la stessa cosa: il corpo non ragiona in termini di sequenze, ma di reti.

Non c’è un ordine meccanico.
Non c’è una direzione fissa.
Non c’è un prima e un dopo.

Il corpo non è un domino. È una ragnatela dinamica, che si riconfigura in tempo reale, con migliaia di input simultanei che si integrano tra loro.

Ogni nodo è in relazione.
Ogni adattamento è contestuale.

Un dolore alla spalla può essere l’eco di una disfunzione diaframmatica. Un piede che collassa può essere la conseguenza di una strategia di protezione psico-emotiva. Una tensione cervicale può derivare da un’alterata percezione interocettiva.

BENVENUTI NEL PARADIGMA DELLA COMPLESSITÀ

Dal segmento alla relazione.

Il passaggio da un modello lineare e puramente biomeccanico a uno a rete cambia radicalmente il nostro modo di osservare il corpo.

Non ci chiediamo più: “Dov’è il segmento fuori asse?”

Ci chiediamo “perché il sistema ha scelto questa configurazione?” “Quali nodi funzionali stanno sostenendo quella posizione?” “Quanto costa al sistema mantenere questa coerenza?”

Parliamo infatti di coerenza funzionale, ovvero la capacità del sistema di trovare un’organizzazione temporanea, economicamente vantaggiosa, e compatibile con il compito o l’ambiente.

È un ribaltamento epistemologico.

Dall’analisi dei pezzi alla comprensione delle relazioni.

IL MODELLO BIO-PSICO-FUNZIONALE-SOCIALE

Ed è qui che il nostro sguardo si espande ulteriormente.

Non basta dire “rete muscolo-fasciale”.
Per comprendere davvero il comportamento del corpo, dobbiamo integrare le dimensioni biologiche, psicologiche, funzionali e sociali.

Il modello bio-psico-funzionale-sociale è presente in letteratura come evoluzione del classico bio-psico-sociale.

Insiste sulla funzione come luogo di espressione dinamica del sistema, dove biologia, psicologia e contesto sociale si integrano nell’azione.

Una visione coerente con le esigenze della clinica contemporanea.

Vediamola in sintesi.

Biologica: struttura, biomeccanica, neurofisiologia.

Psicologica: esperienza, emozioni, percezione, attenzione, memoria del dolore.

Funzionale: obiettivo, carico, contesto, adattamento.

Sociale: relazioni, ambiente, lavoro, cultura, aspettative, linguaggio.

Ogni tensione, postura o sintomo è il risultato di questa rete di fattori che interagiscono.

Non c’è mai una causa sola: c’è un pattern emergente.

IL MODELLO PCS – Polyconnective Skeleton

È un altro riferimento emergente che nasce proprio per abbracciare la complessità, senza semplificarla.

Il Polyconnective Skeleton è un modello tridimensionale e integrato del corpo umano, in cui reti osteoarticolari, fasciali, neuromuscolari e viscerali interagiscono in modo policentrico e adattativo, non lineare.

Ogni nodo può diventare centrale a seconda del compito, dello stato emotivo o della memoria del corpo. Gli adattamenti non sono rigidi né in sequenza: sono plastici, distribuiti, contestuali.

Un modello realistico, coerente con la fisiologia, l’anatomia, la neuroplasticità e la clinica.

Una bussola concreta nella terapia manuale e nel movimento.

LE IMPLICAZIONI CLINICHE

E quindi, cosa cambia nella pratica?

1. Valutazione

Nel modello lineare cercavamo “dove parte il problema”. Nel modello a rete, bio-psico-funzionale-sociale, ci chiediamo:

“Dove si organizza il sistema per sostenere il carico?”

“Quali strutture si sacrificano per mantenere l’efficienza?”

“Dove si manifesta la strategia adattativa più significativa?”

E soprattutto: “che senso ha, per quel paziente, in quel momento, quella configurazione?”

2. Trattamento

Non correggiamo una postura.
Proponiamo una nuova coerenza funzionale, compatibile con le risorse e la storia del paziente.

Non allineiamo.
Riorganizziamo le forze, le percezioni, le intenzioni.

Il trattamento diventa un dialogo con la rete, non un’aggressione al sintomo.

E in tutto questo, non dimentichiamo mai la persona dietro il sintomo.

Ogni nodo è attraversato da una storia, un’emozione, un bisogno.

3. Monitoraggio

La risposta del corpo è la nostra guida.

Ogni esercizio, ogni input, ogni tecnica è un’ipotesi da osservare. Ci muoviamo per tentativi, in ascolto, senza certezze assolute.

E il dolore? Cambia anche lui.

Nel modello lineare è la spia di un errore.
Nel modello a rete, il dolore è una strategia comunicativa.

Il corpo non urla perché è rotto.
Urla perché sta proteggendo.
Urla perché sta negoziando.
Urla perché ha bisogno di cambiare mappa.

In termini neuroscientifici, il dolore è l’espressione di un sistema nervoso centrale che risponde a una minaccia percepita, non necessariamente a un danno reale.

IL LINGUAGGIO CONTA

Le parole che usiamo non sono neutre.
Quante volte diciamo ancora “catena posteriore accorciata”, “bacino in anteroversione”, “segmento instabile, “spalla che scappa”..

Parole che sembrano descrivere ma che raccontano un corpo rotto, passivo, meccanico.

Se vogliamo una visione di rete, dobbiamo aggiornare anche il vocabolario. Per coerenza clinica e per rispetto del paziente.

Ogni parola costruisce una rappresentazione. Quella rappresentazione plasma il modo in cui il paziente vive il proprio corpo.. e noi scegliamo di intervenire.

Alcuni esempi concreti.

Una paziente con dolore mandibolare migliora dopo un lavoro sul pavimento pelvico. Nella sua rete, era un nodo tensivo centrale.

Un runner con fascite plantare cronica migliora lavorando su diaframma e respiro. Il problema era un tronco rigido e iperattivo.

Un adolescente con scoliosi e dolore lombare migliora con lavoro su propriocezione e identità corporea. Non era un problema posturale, ma percettivo.

Concludendo, fare divulgazione non significa dire meno. Significa dire meglio. Con parole semplici, ma mai semplificate.

Con i piedi ben piantati nel presente, ma lo sguardo rivolto al futuro.
Semplificare senza distorcere.
Comunicare senza irrigidire.
Educare senza infantilizzare.

Anche i pazienti meritano di sapere che non sono rotti. Che il loro corpo sta solo cercando un nuovo equilibrio.

E ALLORA.. QUAL È IL NOSTRO RUOLO?

Siamo ancora terapisti manuali? Sì.
Esperti di esercizio terapeutico? Assolutamente.

Ma oggi più che mai siamo anche facilitatori di consapevolezza, osservatori della complessità, traduttori di segnali corporei e alleati nella costruzione di nuove reti funzionali.

Non aggiustiamo.
Riorganizziamo.

Non imponiamo.
Proponiamo.

Non normalizziamo.
Facilitiamo l’adattamento.

Il corpo non si adatta in sequenza.
Si adatta in coerenza.

Non ragiona per catene lineari.
Ragiona per reti distribuite, influenzate da esperienze, pensieri, tensioni, respiri, relazioni.

E noi fisioterapisti?

Siamo chiamati a guardare oltre l’anatomia, oltre la postura, oltre il sintomo.

Siamo chiamati a sentire la rete. A riconoscerla. A rispettarla.

Se anche tu credi che la fisioterapia non sia solo correzione, ma ascolto, relazione, visione, adattamento.. condividi questo post.

Perché il futuro del nostro mestiere non si costruisce con blocchi da correggere,
ma con connessioni da nutrire.

Raccontaci nei commenti qual è stata la connessione più sorprendente che hai osservato nel corpo. Oppure condividilo con chi, come te, ha voglia di guardare oltre.

NOTA FINALE
Le informazioni contenute in questo post hanno finalità divulgativa e non sostituiscono la valutazione di un professionista sanitario.

Un sentito grazie a tutti i colleghi fisioterapisti e ai professionisti sanitari che, con i loro studi scientifici pubblicati, commenti, critiche e spunti, hanno contribuito alla nascita di questo testo.
È anche così che si costruisce una rete: con il dialogo.

Quanta verità in questa triste realtà.
29/07/2025

Quanta verità in questa triste realtà.

«La persona non è disabile in sé. Lo diventa quando si scontra con un gradino davanti alla carrozzina, con un’audioguida assente al museo, con un convegno privo di sottotitoli. A scuola, quando l’inclusione resta un principio astratto e lo studente con disabilità viene ancora "portato fuori", come se l’aula non fosse anche sua». L'intervento del direttore della Cpd Consulta.

Leggi l'articolo di Giovanni Ferrero
👉 https://www.vita.it/idee/la-societa-handicappata-rende-le-persone-disabili/

Puoi avere anche le tartarughe ninja sull’addome ma se non le addestri a fare il loro dovere “quando serve”, ti ritrover...
28/07/2025

Puoi avere anche le tartarughe ninja sull’addome ma se non le addestri a fare il loro dovere “quando serve”, ti ritroverai con delle “guardie del corpo” forti ma stupide, incapaci a garantire stabilità e tutela alla colonna.
Tratto spesso atleti con muscolature da copertina, ma al di fuori degli schemi funzionali acquisiti per le proprie discipline poi lamentano mal di schiena o altro, non appena giocano col cane o fanno la spesa. 😅

IL TUO CORE NON È SOLO UNA TAVOLETTA DI CIOCCOLATO!

Ecco la sezione trasversale a livello di L4 (quarta vertebra lombare), un vero quartier generale muscolare e fasciale. Sì, quel core di cui tutti parlano non è solo “addominali scolpiti”: è un sistema tridimensionale straordinariamente complesso.

SFIDA: Mentre leggi, immagina di fare un plank e prova a sentire questi strati uno per uno!

SCOPRIAMOLI INSIEME, DAL DAVANTI ALLA SCHIENA

1. Retto dell’addome
Il più noto (la famosa “tartaruga”), ma da solo non stabilizza niente.

2-3-4. Obliquo esterno, interno e trasverso dell’addome

Il corsetto naturale: il trasverso addominale è un vero “cinturone”, attivabile con l’espirazione profonda.

TEST: Fai un’espirazione forzata, senti come si contrae il basso ventre? È lui!

5. Grande psoas

Non solo flessione d’anca: è connesso alle vertebre lombari, partecipa alla stabilità e alla propriocezione.

6. Gran dorsale

Non te lo aspetti? Invece sì: collega il bacino alle braccia, influenzando la postura.

7. Quadrato dei lombi

Un “sorvegliante” laterale della colonna, stabilizza e inclina lateralmente.

8-9-10. Muscoli paraspinali profondi (Iliocostale, Lunghissimo, Multifido)

I guardiani posteriori: controllano micromovimenti vertebrali e propriocezione. Il multifido è piccolo ma fondamentale nel dolore lombare cronico.

SFIDA

Riesci a percepire la differenza tra contrarre i muscoli superficiali della schiena (ad esempio estendendo la schiena e inarcando la colonna),
e attivare delicatamente i muscoli profondi stabilizzatori, come il multifido, senza irrigidire tutto il tronco?

Prova questo esperimento.

Mettiti a carponi (quadrupedia per i pignoli 😅) con la schiena neutra.

Spingi con le mani e senti cosa succede nei lombari: probabilmente la colonna si irrigidisce tutta.

Ora, invece, immagina di “allungarti verso l’alto” con la testa e “accorciarti” con l’osso sacro, mantenendo la pancia attiva ma morbida.

Questo piccolo movimento “interno” stimola i muscoli profondi, senza contrarre in blocco i paraspinali superficiali.

LA FASCIA: IL COLLANTE E IL TRAMPOLINO

11-12-13. Fascia toracolombare (posteriore, media, anteriore)

Immagina un’enorme amaca di tessuto connettivo che sostiene la colonna e trasmette forze fra arti superiori e inferiori.

14. Raphe laterale

La “cerniera lampo” che connette la fascia al trasverso.

UN FATTO CURIOSO

La fascia toracolombare è così forte da poter resistere a trazioni enormi (fino a 900N).
Se pensi che basti fare “addominali classici” per stabilizzare la colonna, ripensaci!

Allenare il core significa: respirazione diaframmatica e controllo del trasverso, rinforzo dei paraspinali profondi, mobilità del bacino e della fascia toracolombare, coordinazione fra arti e tronco.

Non significa solo crunch e plank infiniti.

DOMANDA PER TE

Sei capace di attivare il core senza bloccare il respiro? Prova: respira profondamente in posizione quadrupedica e senti come si muove l’addome in modo tridimensionale.

Tagga chi deve capire che il core è un’orchestra e non un solo strumento! 🤭

In gioventù sono stato uno sportivo agonista, ma già allora vivevo quell’esperienza come ricerca interiore e superamento...
27/07/2025

In gioventù sono stato uno sportivo agonista, ma già allora vivevo quell’esperienza come ricerca interiore e superamento dei miei, di limiti.
Adesso quando tratto una persona che pratica sport, la metto nelle condizioni di sperimentare tutte le potenzialità a lei funzionali, tramite esercizi in grado
di risvegliarne le capacità latenti.
PS in realtà questo è l’approccio che prediligo per qualsiasi persona, nel tentativo di offrirle un’alternativa d’utilizzo del suo corpo che possa risultare confacente alle sue aspettative se non , addirittura, superarle. 🤗

Ti sei mai chiesto perché ti alleni davvero?
Per cambiare il corpo o per imparare ad ascoltarlo?

È una domanda semplice, quasi banale. Ma quanti di noi, pazienti o atleti, se la sono davvero posti?

Allenarsi non è solo un gesto ripetuto, una serie di movimenti, una lista di esercizi da completare. È, o dovrebbe essere, un atto di ascolto. Un dialogo tra mente e corpo.

E invece spesso lo riduciamo a una corsa verso un risultato: il numero sulla bilancia, la taglia dei jeans, il tempo sul cronometro.

Ma cosa succede se spostiamo il focus? Se iniziamo ad allenarci non per ottenere, ma per comprendere?

Come fisioterapisti, lo vediamo ogni giorno: persone che si allenano da anni senza mai davvero abitare il proprio corpo. Che sanno quanti chili sollevano, ma non come si muove la loro scapola. Che contano i minuti sul tapis roulant, ma non sentono il piede che crolla in pronazione a ogni passo.

E allora ti chiedo: tu perché ti alleni?
Per cambiare l’aspetto, o per entrare in relazione con ciò che senti?

E se sei un collega: quante volte hai guidato un paziente verso un esercizio senza prima insegnargli ad ascoltarlo?

Raccontalo nei commenti. Che tu sia un professionista, uno sportivo o una persona che si allena da casa, ogni storia ha valore.

Oppure invia questo post a quella persona che “fa palestra da sempre”.. ma non ha mai davvero capito come sta mentre si muove.

Perché in fondo, il miglior allenamento non è quello che trasforma il corpo, ma quello che ti insegna ad abitarlo con consapevolezza.

E lì, sì, succedono meraviglie.

Ottima disamina, purtroppo la respirazione, per come predisposta geneticamente, si scontra con una gestione inconsapevol...
25/07/2025

Ottima disamina, purtroppo la respirazione, per come predisposta geneticamente, si scontra con una gestione inconsapevolmente alterata da innumerevoli fattori di matrice culturale ed emozionale, legati ad esperienze che ne hanno alterato il normale funzionamento, mentre un respiro libero da tensioni parassitarie è alla base del vero benessere.

IL RESPIRO: IL FILO INVISIBILE TRA CERVELLO E CORPO

Immagina di essere seduto in poltrona. Non ci fai caso, ma stai respirando. Eppure, in ogni istante, un’orchestra neurologica lavora dietro le quinte per dirigere l’aria dentro e fuori di te. Questa immagine è la mappa del direttore d’orchestra: il centro respiratorio bulbo-pontino.

Oggi scopriremo insieme come funziona e proveremo anche un piccolo test di consapevolezza per percepire i dettagli del tuo respiro.

Dove nasce il respiro?

Il respiro parte dal tronco encefalico, che possiamo dividere in due regioni principali.

PONTE: è il livello superiore, che regola il ritmo e la transizione tra inspirazione ed espirazione. Qui si trovano due centri: il centro pneumotassico (che “frena” l’inspirazione, come un metronomo che dice quando smettere di inalare) e il centro apneustico (che stimola a mantenere l’inspirazione).

BULBO: è la parte più antica e fondamentale. Qui si trovano due gruppi: il gruppo respiratorio dorsale (DRG, che attiva i muscoli inspiratori, come il diaframma e gli intercostali esterni) e il gruppo respiratorio ventrale (VRG, che si accende durante la respirazione forzata come esercizio intenso, colpo di tosse).

Il DRG e il VRG ricevono input chimici (CO₂, O₂, pH) e meccanici dai polmoni, modificando la frequenza e l’ampiezza del respiro. Una vera centralina di controllo che regola la vita momento per momento.

Chi sono gli esecutori?

I comandi nervosi viaggiano lungo i nervi spinali e raggiungono il diaframma (il grande pistone che spinge i visceri in basso per fare entrare l’aria), i muscoli intercostali esterni (allargano il torace durante l’inspirazione), i muscoli intercostali interni (espirano attivamente, contraendo la gabbia toracica) e i muscoli accessori (SCM, scaleni, pettorali, che si attivano quando respiriamo affannosamente).

Ecco come il cervello comanda un esercito di muscoli per garantire ossigeno e rimuovere anidride carbonica.

Curiosità clinica

Un danno alla regione bulbopontina può provocare respirazione irregolare (es. apnea, gasping), incapacità di coordinare inspirazione ed espirazione e problemi nella regolazione dei gas ematici.

Nelle lesioni alte del midollo, può servire la ventilazione meccanica perché il diaframma perde innervazione dal nervo frenico (C3-C5).

TEST DI CONSAPEVOLEZZA RESPIRATORIA

Chiudi gli occhi un attimo.

Inspira profondamente e nota quale parte del tuo corpo si muove di più.
Espira lentamente. Senti quali muscoli si rilassano.
Ora inspira in modo forzato, come se dovessi gonfiare un palloncino. Prova a percepire il lavoro dei muscoli accessori: senti un tensione al collo o alle spalle?
Infine, espira con forza. Puoi percepire l’attivazione dei muscoli intercostali interni?

Se riesci a distinguere queste fasi e i muscoli coinvolti, stai sperimentando la meraviglia della connessione mente-corpo.

Domanda finale per te

Sai che puoi allenare la tua capacità respiratoria con esercizi di controllo diaframmatico e rilassamento? Prova per un minuto a inspirare contando fino a 4, espirare contando fino a 6, e osserva come il tuo sistema nervoso risponde: calma, lucidità, energia.

Tutto questo per dire che dietro ogni respiro si cela un balletto neurologico antico quanto la vita stessa. Il centro respiratorio bulbo-pontino non dorme mai: orchestra l’aria, il ritmo e il benessere.

La prossima volta che inspiri, fermati un istante a ringraziarlo. Senza di lui, non saremmo qui a raccontare questa storia.

"Roby, ma il gastrocnemio è più pronatore o supinatore rispetto al soleo?"Domanda arrivata da una collega qualche giorno...
25/07/2025

"Roby, ma il gastrocnemio è più pronatore o supinatore rispetto al soleo?"

Domanda arrivata da una collega qualche giorno fa, e la risposta meritava un post. Perché dietro un dubbio biomeccanico si nasconde un’intera catena di eventi funzionali che.. parte dal polpaccio e arriva fino al piede!

Ho risposto d’istinto, certo. Ma poi ho voluto confrontarmi con un collega che stimo molto, Marco Ferrara, per andare più a fondo.

Questo post è il frutto di quella riflessione condivisa. Buona lettura!

Quando ti metti sulle punte.. dove va il carico?

Se ti sollevi in monopodalico sulle punte e noti che il piede scappa verso l’esterno (spostando l’appoggio sul quinto metatarso), sappi che non è solo una questione di controllo: è biomeccanica.

Il gastrocnemio, soprattutto il capo mediale, ha un orientamento obliquo che può generare un vettore supinatorio accessorio, spingendo il calcagno in varismo e l’avampiede in abduzione.

Questa supinazione passiva è ancora più evidente in soggetti con piede cavo, rigidità del retropiede o dominance dei muscoli propulsivi a scapito di quelli stabilizzatori.

Il soleo, invece?

Fibre verticali, orientamento centrato, azione puramente plantarflessoria. È più uno stabilizzatore che accompagna, non un vero regista del carico.

Non agisce sulle rotazioni subtalari, ma controlla eccentricamente l’avanzamento della tibia sull’astragalo. In caso di pronazione funzionale, può diventare iperattivo come compenso stabilizzante.

Perché parliamo più del mediale?

Perché è più potente del laterale. Origina più medialmente e influisce di più sull’allineamento del retropiede. Collabora con il tibiale posteriore nella fase propulsiva per rigidificare il piede in supinazione.

Inoltre, il capo mediale ha una sezione trasversale maggiore e partecipa maggiormente alla generazione di forza nella fase di toe-off, contribuendo a una rotazione esterna del calcagno e a un carico mediale inefficiente se non bilanciato.

Il gastrocnemio laterale, sebbene attivo, ha un vettore più lineare e non modifica direttamente la meccanica dell’appoggio.

È più coinvolto nel controllo laterale della gamba e, se ipertonico, può aumentare la tensione sui peronieri e destabilizzare l’articolazione peroneo-astragalica, ma non induce supinazione o pronazione del retropiede.

Clinica e osservazione dinamica

Durante un test di heel raise monopodalico, osserva questi dettagli.

Il calcagno devia medialmente?
Il carico si sposta sul bordo esterno?
Il piede si irrigidisce troppo?

Potresti avere una dominanza gastrocnemica e un malfunzionamento dei controllori della pronazione (come il tibiale posteriore).

In particolare, un pattern tipico nei soggetti con instabilità funzionale o piede cavo è l’iperattivazione del gastrocnemio mediale e il deficit di attivazione del tibiale posteriore e degli intrinseci plantari.

Un altro segno clinico utile è la difficoltà nel mantenere l’allineamento dell’asse metatarso-calcaneare durante l’ultimo terzo del sollevamento: quando il gastrocnemio prende il sopravvento, il carico si sposta lateralmente.

Conclusione pratica?

Il soleo non è pronatore, ma può convivere con la pronazione. Il gastrocnemio mediale è supinatore accessorio, e se non bilanciato può alterare l’allineamento del piede durante la spinta.

Questo effetto è amplificato se manca il controllo intrinseco del piede e il bilanciamento della catena muscolare mediale (tibiale posteriore, flessore lungo dell’alluce, adduttore dell’alluce).

Lavorare sulla rieducazione della spinta, sulla stabilità in monopodalico e sull’attivazione differenziata può prevenire sovraccarichi come fascite plantare, metatarsalgia laterale o instabilità peroneale.

Come sempre, quest’azione combinata tra i vari protagonisti viene gestita da un complesso sistema che coinvolge l’intero corpo. Non bisogna mai fermarsi a un’analisi biomeccanica superficiale degli attori più diretti.

Osservare, comprendere, integrare. Perché il movimento è sempre il risultato di un’orchestra e mai di un assolo.

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Via Rosolino Pilo, 36
Palermo
90139

Telefono

091328535

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Chi sono

Pratico la libera professione come fisioterapista da circa ventotto anni, proponendo un mio personale approccio, basato sulle mie esperienze di studio avute, principalmente, fuori dall'Italia.

La passione per la mia professione è nata dall'esperienza diretta col trauma e dall' istintiva voglia di superarne le conseguenze psico-fisiche, poiché sono fermamente convinto che, per quanto possa sembrare avvilente, l'esperienza traumatica ci conceda l'opportunità di confrontarci con la nostra vera natura, riuscendo, così, a metterci in relazione con la parte più profonda del nostro essere, quella appunto in grado di farci decidere come reagiremo alle esperienze negative.

Il corpo è in grado di reagire ai traumi in maniera funzionale, basti pensare a quante volte ci siamo "sbucciati le ginocchia" da bambini; purtroppo la nostra cultura ci ha abituati a delegare anche questo compito, motivo per il quale, il più delle volte, sentiamo il bisogno di un aiuto, di un catalizzatore in grado di focalizzare la nostra capacità di reazione; è questo il compito di un terapeuta, una figura in grado di assumersi la responsabilità di questo ruolo, che faccia prendere coscienza delle proprie capacità latenti a quanti, coraggiosamente, si rivolgeranno a lui per affrontare positivamente sia le proprie esperienze traumatiche che i disagi del quotidiano che li affliggono.