15/07/2025
Parlare di intenzionalità comunicativa significa entrare in una zona sottile e potentissima del funzionamento umano: lo spazio tra ciò che si vuole dire, ciò che si dice davvero e ciò che viene compreso. In questo spazio si gioca una gran parte della complessità delle relazioni.
Gli esseri umani non comunicano solo con le parole. Anzi, spesso le parole sono la parte meno affidabile. Il tono, il ritmo, la postura, lo sguardo e persino i silenzi costruiscono un discorso parallelo, che può rinforzare o smentire quello verbale. Quando qualcuno dice “ciao” con un tono basso, uno sguardo sfuggente o un sorriso accennato, quel saluto non è più un semplice ciao. Porta con sé uno stato d’animo, una storia non detta, forse un messaggio emotivo che sta cercando di farsi spazio.
L’intenzionalità comunicativa risiede proprio in questo livello implicito. È ciò che si vuole trasmettere anche quando non lo si dice, e a volte proprio quando non lo si può dire. Può essere un invito alla vicinanza, una richiesta d’ascolto, un bisogno di protezione o un tentativo di mantenere il controllo. Ma il punto è che chi ascolta non sempre coglie l’intenzione, o la coglie in modo deformato, sulla base della propria storia, delle proprie paure, dei propri filtri.
Questo rende la comunicazione umana profondamente fallibile e allo stesso tempo profondamente creativa. Fallibile perché spesso ci si fraintende, ci si ferisce senza volerlo, si resta soli pur avendo tentato di avvicinarsi. Creativa perché ogni volta che due menti cercano di incontrarsi in questo campo intersoggettivo, costruiscono un ponte che non esisteva prima.
La frase semplice di un saluto può così diventare un segnale di disponibilità, di distanza, di sarcasmo, di amore, di ambivalenza. Una stessa parola, mille sfumature.
In terapia, lavorare su questa intenzionalità latente significa accorgersi dei messaggi impliciti che il paziente lancia, delle contraddizioni tra il detto e il non detto, del modo in cui entra in relazione senza necessariamente spiegarlo. Ma significa anche riconoscere le proprie risposte, ciò che il terapeuta sente o fa passare tra le righe.
Per cogliere queste sfumature, il terapeuta ha bisogno di una competenza sottile: saper ascoltare con tutto sé stesso, anche dove le parole non arrivano. Non si tratta di “sapere di più”, ma di lasciarsi attraversare da ciò che emerge, restando in ascolto anche del proprio controtransfert come possibile via d’accesso a ciò che l’altro non riesce ancora a dire.