
03/08/2025
Nel linguaggio corrente si parla di orgasmo come vertice dell’esperienza sessuale.
Ma dal punto di vista psicologico ed esistenziale, spesso ci si riferisce invece all’acme, cioè un picco sensoriale che può esistere anche in assenza di una reale intimità.
L’orgasmo, se è autentico, è un’esperienza che coinvolge l’anima.
Non è solo un riflesso meccanico, né un esercizio ginnico ben riuscito.
È resa, fusione, abbandono, riconoscimento.
È toccare un limite e scoprirsi vivi. È morire un poco per ritrovarsi uniti, anche solo per un istante, a qualcosa di più grande.
L’acme invece può essere solo un picco, una vetta percorsa in fretta, senza attraversamento, senza presenza. Un vuoto travestito da piacere.
Una tensione che si risolve, ma non trasforma.
Corpi che si cercano, ma non si toccano mai davvero
È possibile fare sesso senza fare esperienza dell’altro. È possibile “funzionare” — anche bene — eppure non sentirsi né accolti né visti.
E questo accade ogni volta che il bisogno ha preso il posto del desiderio,
che la prestazione ha occupato il posto della verità,
che l’intimità è stata sostituita dal bisogno di conferma o di anestesia.
Non è moralismo. È antropologia profonda.
Parlare di orgasmo non significa santificare il sesso, così come parlare di acme non significa condannarlo. Significa solo recuperare lo spessore umano del corpo. Ridare dignità al sentire. E smascherare la riduzione tecnica, pornografica o compulsiva di un’esperienza che può, se vissuta con pienezza, toccare il cuore stesso della relazione e della cura.