
21/06/2025
“Ho dormito per strada. Mi sono rotto le ossa. Mi hanno chiamato stupido. Ma non ho mai smesso di crederci.”
Quando sono venuto al mondo, i miei genitori non sapevano se ridere o piangere. Mi chiamarono Chan Kong-sang. Ero nato a Hong Kong, e il futuro sembrava tutto tranne che luminoso.
Eravamo così poveri che, per un attimo, pensarono perfino di vendermi.
A soli sette anni, mi mandarono in una scuola di opera cinese che somigliava più a un carcere che a un’aula. Niente letti, solo pavimenti duri. La disciplina arrivava sotto forma di bastoni.
Per oltre dieci anni ho vissuto lì, chiuso tra quelle mura, ad allenarmi fino a 19 ore al giorno. Ho imparato a cantare, recitare, fare acrobazie… ma, più di tutto, ho imparato a resistere al dolore.
Mi sono rotto il naso, le dita, una caviglia. Una volta sono caduto da un palazzo: ho rischiato di morire.
Ma non ho mai detto: “Mi arrendo.”
Mentre gli altri sognavano la fama, io volevo solo sopravvivere facendo ciò che amavo. Ogni caduta era una sfida: rialzarmi, migliorare, diventare più forte.
Quando finalmente arrivò il cinema, mi dissero che ero solo un’imitazione mal riuscita di Bruce Lee.
Ridevano della mia statura, del mio viso, del fatto che unissi risate e combattimenti.
Ma quello ero io.
Quello sono io: Jackie Chan.
Ho fatto lo stuntman quasi gratis, mettendo in gioco la mia vita mentre altri ricevevano gli applausi. Hollywood mi ha chiuso la porta in faccia dieci, venti volte… e io continuavo a sorridere.
Perché ogni volta che cadevo, mi rialzavo… con una capriola.
“Se un giorno cadrai così forte da non sapere come andare avanti… ricorda: le ossa si aggiustano. Ma arrendersi lascia cicatrici invisibili. E quelle fanno più male.”
— Jackie Chan