19/11/2025
“Il peso dei silenzi”
Ci sono storie famigliari che non si scrivono con le parole, ma con i silenzi. Storie dove l’amore diventa un compito, dove la cura è un debito, e dove dire “no” sembra più pericoloso che rinunciare a sé stessi.
La storia inizia proprio così: con un figlio che, di fronte alla fragilità della madre, sente che il mondo famigliare si stringe su di lui come un nodo antico. Non è l’unico figlio, ma è come se lo fosse. Quando la madre comincia ad aver bisogno, i fratelli si defilano lentamente, fino a sparire ai bordi della scena. Rimangono lì, fermi, quasi rassicurati dall’idea che “tanto ci pensa lui”. E lui, come sempre, risponde presente. Ma questa volta qualcosa si incrina: il prezzo è troppo alto. La sua vita, i suoi progetti, perfino il suo tempo più intimo vengono inghiottiti da un ruolo che non ha scelto, ma che la famiglia sembra avergli affidato da sempre. È il figlio “forte”, quello affidabile, quello che non cede. E proprio perché non cede mai, nessuno si chiede se voglia o possa farlo davvero. Più lui regge, più gli altri possono permettersi di non farlo. È un equilibrio difficile da spezzare, perché tutti sembrano fondamentalmente d’accordo: “è lui quello giusto”. Sotto questa dinamica, però, scorre qualcosa di più profondo: una sorta di debito affettivo, antico, quasi scritto nella storia della famiglia. Per lui aiutare la madre non è solo una scelta, ma un dovere morale. E quando immagina di tirarsi indietro, ciò che sente ( più della stanchezza, più della rabbia ) è la colpa. La colpa di essere figlio e non abbastanza salvatore. Per anni ha confuso la lealtà con il sacrificio. Ha creduto che amare significasse rinunciare a sé stesso. I fratelli, intanto, hanno continuato a delegare, quasi senza pensarci, come se un copione silenzioso li avesse sempre autorizzati a farlo.
È in terapia che finalmente vede ciò che non era mai riuscito a nominare: che quella non è lealtà, è una catena. Che dire “no” non significa tradire, ma respirare. Che chiedere ai fratelli di assumersi la loro parte non è egoismo, ma giustizia. Che restare figlio non implica smettere di vivere. È un passaggio delicato, perché rompe un equilibrio antico. Ma è anche un passaggio necessario. La terapia, passo dopo passo, gli permette di immaginare un modo nuovo di essere nella sua famiglia: non più l’unico che sostiene, ma uno tra tanti; non più quello che deve, ma quello che può scegliere.
Questo caso ricorda una verità potente: le storie di famiglia non sono condanne. Le lealtà possono cambiare forma, diventare più umane e finalmente liberare chi, per troppo tempo, ha portato il peso di tutti.
Bibliografia
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