
05/09/2025
Non so neanche da dove iniziare.
Non so neanche da dove ho iniziato.
Forse dal buttare quello che c’era in frigorifero e che mi ero scordata, latte, yogurt scaduti, il vasetto del pesto aperto da troppo tempo.
Ho in mente una parola che solitamente uso pochissimo, perché non mi piace: stress. Credo di non averlo mai veramente sperimentato nella vita - il che non vuol dire che non abbia vissuto momenti di tristezza e dolore profondo, anzi. Ma lo stress è diverso. E non è decisamente una cosa che mi appartiene.
Posso avere una settimana pesante, un mese faticoso, posso arrivare ad essere molto stanca, troppo piena. Eppure i segnali che mi rimanda il corpo, nonostante una settimana di stacco totale in vacanza a inizio agosto, sono quelli: cervicale, stomaco chiuso, una sensazione protratta di disagio e malessere.
Lo sapevo, me l’avevano detto tutti, ma dovevo provarlo sulla mia pelle. Un trasloco può essere molto stressante, e viene spesso classificato come uno dei tre eventi più brutti della vita, insieme alla perdita di una persona cara e alla separazione. Non robette da poco, insomma.
Il mio è stato un trasloco a metà, poco più di quattro mesi ‘appesa’ in una casa di appoggio intanto che ristrutturavano la mia.
Ho delle immagini nitide: la casa svuotata e i miei ultimi pasti seduta sul parquet della sala, un paio di tupperware con qualche prep-meal pronto, il microonde e la friggitrice ad aria che mi hanno salvato quando la cucina era già smontata. E poi i formaggini, la mozzarella e i cartocci di prosciutto (benedetto sia il prosciutto!).
Sacchi di differenziata per il decluttering, soprattutto carta e plastica, pile di faldoni da aprire, uno in un sacco e uno nell’altro, e qualche lacrima che c’è scappata.
Miodio: quante cose che si accumulano in vent’anni di vita.
La mia lancia y che pareva un camper, almeno due cambi, due giacche, una pashmina, un paio di ginniche e pure degli stivali perché il tempo a maggio ci ha messo del suo: gli imprevisti di una primavera che si trascinava più fredda e piovosa del solito e un’estate che non decollava.
Vestiti sparpagliati, da una parte e dall’altra, quasi sempre inadeguati per peso o stile, ad un certo punto il cesto della biancheria da lavare era talmente pieno che mi sono ritrovata ad avere puliti solo gli slip rossi del Natale!
Le liste delle cose da fare, ovunque: nel telefono, su post-it che appiccicavo allo specchio del bagno, su foglietti improbabili che infilavo nella borsetta perché mi veniva in mente un pensiero e me lo segnavo lì per lì, magari sullo scontrino del bar, e poi vagavano sul fondo per giorni, finché magari non cercavo il burrocacao o un fazzoletto e mi tornavano in mano.
Ricordo che c’è stata una settimana in cui ho trovato almeno quattro spazzolini da denti, uno nella casa nuova che mi avrebbe ospitato mentre si insediava il cantiere, uno nella vecchia, perché è stata una delle ultime cose che ho tolto, uno in studio, perché avrei trascorso i mesi successivi a consumare lì tutti i miei pranzi, uno del viaggio in Marocco, perché ero rientrata ad inizio maggio ed era rimasto sospeso, senza avere neppure la dignità di essere riposto con le cose-da-viaggio.
Il dramma, e non uso la parola a sproposito, il VERO dramma delle chiavi, soprattutto nei primi giorni: c’era lo studio, la casa, la mia vera casa intendo, che era completamente in mano agli artigiani e l’altra, che chiameremo l’ospitante. E poi c’erano quelle dell’auto, del garage, della bici - che chissà perché la mia bici ha due lucchetti e mai la chiave giusta. Le chiavi che ho lasciato agli operai per entrare e uscire senza orari - e soprattutto senza dipendere da me, quelle di scorta che avevo richiesto a mio padre per avere un mazzo in più a portata di mano, quelle che ad un certo punto non c’erano mai o erano sempre quelle sbagliate. Di più: che erano rimaste attaccate a quella sbagliata, per cui mi sono ritrovata, più o meno a giorni alterni, a non poter aprire: il portone d’ingresso del condominio, il garage, lo studio. L’inferno.
Un telefono perennemente pieno di messaggi e chiamate: muratori, idraulici, elettricista, falegname. Primo step, non scontato e non banale: capire di che cosa si stava parlando, soprattutto i termini tecnici, riflessioni sulle quali non mi sarei mai soffermata, ma che andavano fatte, e anche piuttosto in fretta, che se non si decideva in tempo, non si finiva in tempo. Qualche errore, qualche intoppo, qualche imprevisto. Tutto come da copione, più o meno.
E io volevo finire, eeeh se volevo finire. Perché in tutto questo mi mancava il mio spazio, il nido, il luogo sicuro, la routine, perché dovevo continuare a lavorare e a mandare avanti tutto quello che ho sempre fatto senza deroghe. Non mi sono fermata un attimo.
E poi quel tempo perso, che già ne avevo poco, quel tempo mal gestito. Un esempio, ma rende l’idea: dopo qualche giorno mi sono accorta che ogni volta che dovevo andare da qualche partivo da casa. Dalla mia casa vera, voglio dire, non da quella ospitante, come se le strade della città le conoscessi solo da quel punto in poi. E quindi tornavo lì: traffico e km in macchina macinati inutilmente e a sproposito.
Quel ‘ci vediamo a casa’ o quel ‘vado a casa’: sì ma quale? Io nella mia testa non ho mai avuto dubbi. Casa è una, e sempre lo resterà, ma ci sono stati dei fraintendimenti con conseguenti tempi persi, di nuovo. Anche con gli amici: ‘ma in quale casa ti vengo a prendere?’
Direi tragicomici, a tratti.
L’odore della mia casa diverso, a seconda dell’artigiano che ci stava lavorando.
All’inizio è stato un pugno in pancia, poi piano piano, molto piano, qualcosa ha iniziato a prendere forma, o forse prima c’è stata una certa luce, ecco: c’è stato un chiarore diverso. E questo mi ha un po’ rincuorato.
Ma ce n’è voluta, eh.
Che la fase due, una volta terminati i lavori, quella delle pulizie e dello spacchettamento di scatoloni e sacchi pieni di cose e vestiti è stata ‘n’altra botta. Il caldo, il mal di schiena e di collo, la stanchezza, l’impazienza, la fatica di intere giornate.
Aridaje, il dilemma delle scelte: cosa-tengo/cosa-mollo, che mi sa che al primo giro ero stata troppo indulgente (e parecchio ottimista sugli spazi!). E il dover creare un ambiente diverso nel vecchio, mica facile abituare gli occhi a nuove prospettive dopo un pezzo di vita di un altro colore, con un altro disegno.
Solo per le addicted di S*x and the city: più volte ho pensato che ci sarebbe voluta Louise di Saint Louis, la giovanissima e sveglissima assistente di Carrie, nessuna come lei per rigovernare e ti**re le fila…!
Un po’ di eccitazione per quello che sarebbe arrivato, un po’ d’inquietudine per qualcosa che ancora non si conosceva.
Mi sarei voluta gettare subito nel nuovo, nello step successivo, ma avrei voluto fare tutto con calma e il tempo necessario, che quando mai ti ricapita di mettere a posto così, che quando mai pulisci così a fondo in quell’angolino.
Il bello si fa attendere, dicono.
‘Minu ga hana’ (見ぬが花): ‘non vedere è un fiore’. I giapponesi, sempre loro. Perché l'attesa o l'immaginazione di qualcosa può essere più bella della sua realtà.
Ecco, da un certo punto in poi allora l’ho messa così. Che non è un passo di resa, ma semplicemente immaginare di ‘stare’, comunque.
Anche perché si sa che tutto cambia.
Proprio perché si sa che tutto cambia.
(E faglielo capire tu, a un toro con ascendente toro).