03/09/2025
Sguardi riflessivi sull'adozione...❤️
Il libro Sangue del mio sangue (lo avete letto?) propone uno sguardo profondamente sociologico sull’adozione. Tra i diversi temi affrontati, emergono in particolare quelli dello stigma e dell’identità. L’adozione non viene raccontata solo come esperienza familiare, ma come processo sociale carico di aspettative, etichette, narrazioni esterne che incidono sulla costruzione del sé, restituendo complessità al tutto. Infatti, nessuno costruisce la propria identità da solo, ma ciò che siamo è sempre anche il risultato di uno sguardo sociale, un processo continuo in cui interiorizziamo le aspettative, le immagini, i giudizi che gli altri proiettano su di noi.
Quali sono le aspettative normative, gli immaginari collettivi e le narrazioni culturali che modellano lo sguardo sociale su chi è stato adottato? In che modo queste rappresentazioni condizionano il modo in cui le persone adottate vengono percepite, riconosciute o interpretate all’interno della società?
Proviamo a vedere questo aspetto, approfondendo ciò che in Sangue è stato parzialmente affrontato.
Chi è stato adottato vive spesso in una narrazione esterna che lo definisce in anticipo: una persona ferita, con un’origine dolorosa, un trauma che prima o poi “emerge”. Anche se questa rappresentazione può non essere sempre esplicita è comunque potente perché si insinua negli sguardi degli altri, nelle cautele dei professionisti, nelle etichette scolastiche, nei silenzi imbarazzati, nelle frasi fuori posto.
E cosa succede quando gli altri ti vedono – costantemente – come ferito o ferita? Succede che la ferita diventa la chiave di lettura universale della tua soggettività e che ogni comportamento, ogni emozione, ogni passaggio critico viene interpretato attraverso lo schema della vulnerabilità. In famiglia, a scuola, nella coppia, tra gli amici, con estranei.
Quando lo sguardo sociale insiste sulla ferita, diventa difficile – e a volte impossibile – essere riconosciuti nella propria complessità. Infatti, chi è stato adottato si trova intrappolato tra due richieste contraddittorie, da un lato, deve essere “recuperato”, “integrato” (cioè l’individuo deve essere condotto verso una piena assimilazione al modello della famiglia normativa e riuscita) e dall’altro, non deve mai dimenticare di essere diverso, per storia, per origine, per percorso (quindi trattato come portatore di una specificità da monitorare perché continuamente definito dalla sua biografia interrotta e dalla sua presunta vulnerabilità).
Questa ambivalenza, però, ha un peso sulla costruzione dell’identità dell’individuo perché ci si può sentire inadeguati e fuori posto (“corpi estranei”), si può interiorizzare il sospetto, si possono avere difficoltà a riconoscersi nel perimetro della “riparazione”.
In termini sociologici, si tratta di una identità regolata da aspettative paradossali, in cui occorre essere sufficientemente simili per rassicurare il sistema che l’adozione “funziona” ma anche sufficientemente diversi da legittimare l’intervento che l’ha prodotta. Chiaro questo passaggio?
È una condizione che Judith Butler descriverebbe come una forma di soggettivazione condizionata: l’identità viene riconosciuta come valida solo nella misura in cui si conforma alle attese della norma. In questo caso per essere riconosciuti come soggetti “legittimi”, bisogna aderire a una norma sociale che definisce cosa significa “riuscire” dopo l’adozione (riconoscenza, non disturbare, dimostrazione del successo dell’evento adozione, ogni difficoltà letta come effetto del “passato” e non come parte del presente, ecc.).
Ma questa adesione non è mai pienamente libera e autodeterminata a partire dal proprio percorso di vita: si è riconosciuti a condizione di rassicurare lo sguardo degli altri (genitori, servizi sociali, insegnanti, altri in genere), di corrispondere a un ideale già tracciato (la narrazione esterna fatta di aspettative, immaginari ecc.). Così, l’identità della persona adottata viene costruita dentro una tensione costante tra ciò che si è e ciò che ci si aspetta che sia.