intorno alla nascita

intorno alla nascita Gravidanza e parto secondo natura, e molto altro nel blog di Franca Fronte, ostetrica! Consultate e Perchè un blog sulla nascita?

Perchè riflettere su come facciamo nascere i nostri figli non smette di essere necessario. La circolazione di idee, informazioni e dati che provengono dalla ricerca scientifica può veicolare strumenti di conoscenza e competenze per assumere decisioni informate e consapevoli. Ma la nascita è solo la prima tappa della vita... ;)


intornoallanascita.com è uno spazio dove fare tutto questo. Mi chiamo Franca Fronte e sono un’ostetrica libera professionista. Vivo a Piossasco, in provincia di Torino, ma mi sposto in continuazione per raggiungere le mamme che hanno bisogno di me. Questa vita in movimento mi piace assai, perchè mi fa entrare in contatto con persone sempre diverse, che mi raccontano vite diverse e che quindi hanno bisogno ciascuna di una risposta diversa ai propri bisogni. Da molti anni mi occupo principalmente di assistenza al parto a domicilio, nelle case di cura private o semplicemente accompagnando la futura mamma in ospedale dopo averla seguita durante il travaglio nell’intimità della sua casa, prendendomi nuovamente cura di lei e del suo bambino al ritorno nell’ambiente domestico. Una donna può avere bisogno di me in momenti diversi del suo percorso per diventare madre: durante la gravidanza, il parto, nelle fasi successive alla nascita del suo bambino; ma anche a distanza di tempo da tutti questi eventi, quando le sue necessità cambiano e il suo bisogno di essere informata e sostenuta resta uguale.

19/09/2025

La complessità della comunicazione, specialmente nei bambini...

Zerovirgolazerozero...
13/09/2025

Zerovirgolazerozero...

La 𝐭𝐨𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐚𝐬𝐭𝐞𝐧𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥'𝐚𝐥𝐜𝐨𝐥 è la sola strada corretta da intraprendere, già da quando si comincia a pensare di voler concepire un figlio.

La 𝐒𝐢𝐧𝐝𝐫𝐨𝐦𝐞 𝐅𝐞𝐭𝐨 𝐀𝐥𝐜𝐨𝐥𝐢𝐜𝐚 racchiude una vasta gamma di anomalie fisiche e neurocomportamentali che possono manifestarsi nei bambini esposti all’alcol durante la gravidanza e l’allattamento.

È una condizione 𝐩𝐫𝐞𝐯𝐞𝐧𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞 𝐚𝐥 𝟏𝟎𝟎% 𝐚𝐳𝐳𝐞𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐮𝐦𝐨 𝐝𝐢 𝐛𝐞𝐯𝐚𝐧𝐝𝐞 𝐚𝐥𝐜𝐨𝐥𝐢𝐜𝐡𝐞 come vino, birra, aperitivi, amari o superalcolici, tutte dannose per la salute del feto e del neonato.

Cucù!!! 😊
06/09/2025

Cucù!!! 😊

Sguardi riflessivi sull'adozione...❤️
03/09/2025

Sguardi riflessivi sull'adozione...❤️

Il libro Sangue del mio sangue (lo avete letto?) propone uno sguardo profondamente sociologico sull’adozione. Tra i diversi temi affrontati, emergono in particolare quelli dello stigma e dell’identità. L’adozione non viene raccontata solo come esperienza familiare, ma come processo sociale carico di aspettative, etichette, narrazioni esterne che incidono sulla costruzione del sé, restituendo complessità al tutto. Infatti, nessuno costruisce la propria identità da solo, ma ciò che siamo è sempre anche il risultato di uno sguardo sociale, un processo continuo in cui interiorizziamo le aspettative, le immagini, i giudizi che gli altri proiettano su di noi.

Quali sono le aspettative normative, gli immaginari collettivi e le narrazioni culturali che modellano lo sguardo sociale su chi è stato adottato? In che modo queste rappresentazioni condizionano il modo in cui le persone adottate vengono percepite, riconosciute o interpretate all’interno della società?

Proviamo a vedere questo aspetto, approfondendo ciò che in Sangue è stato parzialmente affrontato.

Chi è stato adottato vive spesso in una narrazione esterna che lo definisce in anticipo: una persona ferita, con un’origine dolorosa, un trauma che prima o poi “emerge”. Anche se questa rappresentazione può non essere sempre esplicita è comunque potente perché si insinua negli sguardi degli altri, nelle cautele dei professionisti, nelle etichette scolastiche, nei silenzi imbarazzati, nelle frasi fuori posto.

E cosa succede quando gli altri ti vedono – costantemente – come ferito o ferita? Succede che la ferita diventa la chiave di lettura universale della tua soggettività e che ogni comportamento, ogni emozione, ogni passaggio critico viene interpretato attraverso lo schema della vulnerabilità. In famiglia, a scuola, nella coppia, tra gli amici, con estranei.

Quando lo sguardo sociale insiste sulla ferita, diventa difficile – e a volte impossibile – essere riconosciuti nella propria complessità. Infatti, chi è stato adottato si trova intrappolato tra due richieste contraddittorie, da un lato, deve essere “recuperato”, “integrato” (cioè l’individuo deve essere condotto verso una piena assimilazione al modello della famiglia normativa e riuscita) e dall’altro, non deve mai dimenticare di essere diverso, per storia, per origine, per percorso (quindi trattato come portatore di una specificità da monitorare perché continuamente definito dalla sua biografia interrotta e dalla sua presunta vulnerabilità).

Questa ambivalenza, però, ha un peso sulla costruzione dell’identità dell’individuo perché ci si può sentire inadeguati e fuori posto (“corpi estranei”), si può interiorizzare il sospetto, si possono avere difficoltà a riconoscersi nel perimetro della “riparazione”.
In termini sociologici, si tratta di una identità regolata da aspettative paradossali, in cui occorre essere sufficientemente simili per rassicurare il sistema che l’adozione “funziona” ma anche sufficientemente diversi da legittimare l’intervento che l’ha prodotta. Chiaro questo passaggio?

È una condizione che Judith Butler descriverebbe come una forma di soggettivazione condizionata: l’identità viene riconosciuta come valida solo nella misura in cui si conforma alle attese della norma. In questo caso per essere riconosciuti come soggetti “legittimi”, bisogna aderire a una norma sociale che definisce cosa significa “riuscire” dopo l’adozione (riconoscenza, non disturbare, dimostrazione del successo dell’evento adozione, ogni difficoltà letta come effetto del “passato” e non come parte del presente, ecc.).

Ma questa adesione non è mai pienamente libera e autodeterminata a partire dal proprio percorso di vita: si è riconosciuti a condizione di rassicurare lo sguardo degli altri (genitori, servizi sociali, insegnanti, altri in genere), di corrispondere a un ideale già tracciato (la narrazione esterna fatta di aspettative, immaginari ecc.). Così, l’identità della persona adottata viene costruita dentro una tensione costante tra ciò che si è e ciò che ci si aspetta che sia.

31/08/2025

Imparare il valore delle parole, e l' impatto sui bambini...😔

Gita montana, una mamma scatta una foto alle due bimbe, poi osserva il risultato e sbotta "ecco, tu hai fatto la faccia da scema e la foto è venuta una schifezza, volevo stamparla e invece"...davanti a tutti i presenti, la piccolina in triste imbarazzo. 😱😭

❤️❤️
30/08/2025

❤️❤️

Pensavi che i neonati avessero tutto da imparare?
La scienza dice il contrario: hanno 6 abilità innate che ti lasceranno a bocca aperta ⬇

Gamberetti...😊
29/08/2025

Gamberetti...😊

Una rivoluzione!! 😵‍💫❤️
25/08/2025

Una rivoluzione!! 😵‍💫❤️

Davvero singolare che sia stato un uomo a imprimere una svolta così forte all' assistenza alla nascita; benché molte don...
22/08/2025

Davvero singolare che sia stato un uomo a imprimere una svolta così forte all' assistenza alla nascita; benché molte donne nel corso del tempo abbiano operato nella stessa direzione, di fatto lui e' riuscito ad avere sguardo da scienziato, capacità di analisi e ha aperto orizzonti rivoluzionari, un' eredità preziosa che speriamo abbia messo radici profonde ❤️

Una carriera di vocazione la sua. Odent, l’uomo che ha prestato servizio come chirurgo di guerra per tantissimi anni, ci ha lasciato pochi giorni fa, il diciannove agosto, alla bellissima età di novantacinque anni. Ripercorriamo insieme la storia di un uomo che ha usato la propria vita al servizi...

L' industria della moda ha un enorme impatto negativo sull'ambiente, dobbiamo responsabilizzarci per lasciare a chi vien...
21/08/2025

L' industria della moda ha un enorme impatto negativo sull'ambiente, dobbiamo responsabilizzarci per lasciare a chi viene dopo di noi un pianeta decente (ho fatto pure la rima)... 😊

Ieri ho ricevuto una mail bombing (in senso buono!) dopo aver postato questa storia in cui raccontavo che sia io che mia figlia indossiamo abiti che hanno circa 30 anni.

Sono state tantissime le persone che mi hanno chiesto di sensibilizzare sulla scelta “No Waste”.

Accolgo volentieri la richiesta: il tema che ha a che fare con la salute pediatrica più di quanto sembri.

Nell’immagine, io indosso un mio vecchio vestito degli anni ‘90 e mia figlia, un vestito di sua zia degli anni ‘80.

La nostra scelta rientra dentro una consapevolezza più ampia: oggi l’industria della moda, soprattutto fast fashion, non è sostenibile né in termini ambientali né etici.
Produrre e smaltire capi che durano si e no una stagione ha dei costi ambientali ed etici e enormi.
Le sostanze immesse nell’ambiente, le microplastiche, la mole di rifiuti e lo sfruttamento dei minori sono tutti i motivi per cui bisogna pensare due volte prima di realizzare un acquisto.

Ma c’è di più: i vestiti dedicati alle bambine sono quasi tutti pensati per adultizzarle…
Si fatica a trovare un vestito che sia veramente “da bambina”: colorato, senza scritte, comodo, non attillato.

Dietro la nostra scelta c’è anche un desiderio di non conformarci dei modelli e sentirci libere/i di non dover seguire sempre trend.

Questo non significa non acquistare mai nulla. Tutti noi abbiamo bisogno di vestiti sia per coprirci, ma anche perché fanno parte della nostra identità, perché il corpo cambia e perché acquistare produce piacere ed endorfine. A volte è un toccasana in momenti difficili.
Ma si può fare senza cadere nella trappola dell’acquisto compulsivo di oggetti inutili che finiranno per alimentare le microplastiche in mare.

“No Waste” significa: compro meno e uso meglio.

Insegna a dare valore a ciò che abbiamo, saper conservare la memoria di altre epoche o di altre persone.
Ogni oggetto o vestito è intriso di una storia e non c’è stile che tenga davanti alla potenza di saper curare le proprie radici.

Proprio così... 😏😊❤️
19/08/2025

Proprio così... 😏😊❤️

😔😔😔
17/08/2025

😔😔😔

Storia della Medicina

🍼 La bottiglia che uccideva i neonati

Alla fine dell’Ottocento comparve un oggetto che, almeno in teoria, avrebbe dovuto semplificare la vita delle madri: il cosiddetto Cherub Feeder, oggi tristemente noto come “murder bottle”.

Si trattava di un biberon con un corpo in vetro collegato a un lungo tubo di gomma, da cui il bambino poteva succhiare il latte anche restando nella culla. Apparentemente pratico, in realtà nascondeva pericoli letali.

👉 Difficile da pulire: i residui di latte fermentavano e favorivano la crescita batterica.
👉 Veicolo di infezioni: la contaminazione era così frequente che migliaia di lattanti morirono di gastroenteriti e setticemie.
👉 Rischio di soffocamento: il lungo tubo, lasciato incustodito, poteva strangolare o bloccare le vie aeree del neonato.

Perché allora ebbe una diffusione così capillare?
Per molte madri, specialmente quelle con famiglie numerose o prive di sostegno, il murder bottle non era una scelta, ma una necessità. Consentiva di allattare più figli contemporaneamente o di lasciare il bambino a nutrirsi “da solo” mentre si svolgevano altre incombenze domestiche.

Queste bottiglie, oggi esposte in musei e collezioni come quella del Royal College of General Practitioners, ci ricordano quanto le disuguaglianze sociali e sanitarie abbiano inciso – e continuino a incidere – sulla salute delle persone sin dai primi giorni di vita.

Un monito che ancora oggi resta attuale: quando la mancanza di risorse e di sostegno obbliga a compromessi, la salute dei più fragili è la prima a pagare il prezzo.


Fonte immagine: Cherub Feeder bottle RCGP Collection

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Piossasco

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