18/06/2025
La nascita è un momento di passaggio a cui bisogna arrivare preparati. Non mi riferisco alla preparazione fisica o al corredino del neonato, intendo una preparazione emotiva sufficiente ad affrontare un momento di rara intensità e connubio tra mente e corpo.
Il parto è diretto da un’orchestra ormonale dove una sola nota stonata può interrompere quella cascata di trasmettitori che regolano il suo svolgimento. Affinché avvenga in modo naturale una donna deve innanzitutto sentirsi a suo agio.
Dovremmo arrivarci consapevoli, scegliendo di avere accanto chi ci offre senso di protezione, in un luogo che percepiamo come sicuro, con personale che ci fa sentire totalmente accolte. In questo modo il dolore del parto può essere affrontato come un aiuto che guida le azioni del corpo. Se invece una donna si sente sola, spaventata e non ascoltata o se viene continuamente interrotta da pratiche mediche innecessarie può produrre ormoni che bloccano il parto invece di favorirlo, aumentando così il rischio di complicanze ostetriche.
Sappiamo tutti che un parto è un momento delicato che può richiedere l’intervento medico, ma bisogna ricordare che gli interventi eccessivi (ipermedicalizzazione) sono un’arma a doppio taglio. Oggi le società scientifiche concordano nel favorire il naturale svolgersi di eventi fisiologici come il parto, il bonding (primo incontro tra mamma e neonato), l’allattamento e perfino lo svezzamento: meno intrusioni esterne ci sono e meglio questi eventi si svolgono. Nella maggior parte dei casi tutto ciò che si rende necessario sono ascolto e supporto: nessuna di questi passaggi è una malattia. Solo se si riscontra realmente una situazione di rischio, allora si può e si deve intervenire.
Sono convinta che nel nostro paese sia in atto un cambiamento culturale che farà abbracciare la prassi di un parto rispettato, tuttavia non posso tacere il fatto che ci sono ancora troppi casi in cui le esigenze della partoriente non vengono rispettate. Sono incalcolabili le volte in cui una neomamma si reca in ambulatorio per la prima visita del neonato e davanti alla domanda di prassi: “Com’è andato il parto?” diventa un fiume di lacrime. Ho imparato a non dare mai niente per scontato: se prima mi limitavo a compilare la cartella clinica usando delle crocette che indicavano freddamente “parto eutocico” e “parto distocico”, adesso invece rivolgo questa domanda a cuore aperto mettendomi in ascolto.
Per molte di queste donne sono la prima e unica persona ad interessarsi all’argomento e quando si sentono ascoltate sono talmente sorprese e liberate che buttano fuori tutto. È in questo modo che ho raccolto tante storie, alcune meravigliose e altrettante crude che parlano di violenza, la cosiddetta violenza ostetrica.
Queste ultime mi toccano direttamente come professionista sanitario perché ho sempre la sensazione di un divario tra noi e voi, medici e pazienti, impegnati gli uni a tutelarsi e gli altri nell’accusare. Più noi sanitari neghiamo l’esistenza di queste situazioni e più l’opinione pubblica si inferocisce verso l’intera classe medica. Io credo profondamente che il nostro lavoro si basi sulla fiducia medico-paziente, preziosa e delicata come un fiore che va accudito da entrambe le parti nel rispetto reciproco. Se una delle due parti compie un errore deve ammetterlo per migliorarsi e continuare a coltivare la fiducia nel singolo e nel sistema.
È necessario parlare di cultura del parto rispettato, senza schierarsi dall’una o dall’altra parte, ma limitandosi a raccontare la verità: che esistono situazioni d’eccellenza accanto a casi di malasanità e che tutti abbiamo bisogno di aprire gli occhi sulla violenza ostetrica e conoscerla per eradicarla.
Innanzitutto la violenza ostetrica ha un nome infelice perché sembra un dito puntato verso una categoria, dovrebbe chiamarsi più correttamente "violenza perinatale". Si tratta dell’insieme di comportamenti messi in atto dalle strutture o da singoli sanitari che fanno sì che vengano a mancare la tutela e il rispetto della donna. Per esempio le stesse manovre che in casi specifici possono salvare la vita del bambino e si rendono obbligatorie, si rivelano uno svantaggio per mamma e bambino quando innecessarie e realizzate al solo scopo di accelerare il parto. Le statistiche parlano chiaro: dovrebbero essere applicate solo in una piccola percentuale di casi e invece sono quasi una costante con numeri che variano incredibilmente in reparti, regioni e nazioni diverse a dimostrazione del fatto che dipendono dal modus operandi del personale sanitario e non dalle reali necessità mediche.
La violenza ostetrica ha molte forme: non solo le manovre innecessarie in un parto fisiologico (cateterismo vescicale, episiotomia, Kristeller…), anche la mancanza di sostegno in momenti di estremo dolore o stanchezza (donne lasciate sole in travaglio, impossibilità del partner di stare accanto alla compagna…), i giudizi che feriscono la donna in momenti di particolare fragilità (dire che si lamenta troppo, che non sa partorire, che non ha il latte, che se non fa come le dicono mette a rischio la vita del bambino…), al mancato riconoscimento del dolore psicologico (sminuire l’impatto di un lutto perinatale, sminuire l’impatto di un parto traumatico…).
La violenza ostetrica causa non solo danni fisici ma anche psicologici intensi e durevoli nel tempo. Non è sempre facile riconoscerla, io stessa ho assistito a centinaia di parti senza vederla prima di aprire gli occhi, prima di capire che c’è qualcosa di profondamente sbagliato, tanto da sentire oggi la necessità di schierarmi per cambiarlo.
La violenza ostetrica viene da retaggi culturali, problemi organizzativi degli ospedali, carenza di personale, mancanza di empatia dei singoli operatori, nasce dalla convinzione che la donna debba soffrire sempre e comunque per avere un figlio sano, che debba occuparsi fin da subito da sola del neonato e non abbia diritto di lamentarsi perché in tal caso viene additata come immatura o debole.
Per me non è facile affrontare questo argomento facendo parte del mondo medico, ma la mia onestà intellettuale mi obbliga a parlare a nome delle donne perché conosco queste storie da vicino e mi schiero da una sola parte: quella giusta. Quella delle donne che sostengono i propri diritti e quella degli operatori sanitari che lavorano in modo corretto e con empatia, che sono la maggior parte di noi e meritano di vedere riconosciuto il loro lavoro.
Il primo passo però è ammettere che queste situazioni esistono e segnano per sempre la storia non solo di una madre, ma di un’intera famiglia e il futuro di un bambino che nasce in un contesto di sofferenza. È fondamentale aprire gli occhi e guardarle in faccia, abbattere l’omertà, la reticenza e la vergogna a parlarne.
Ne ho parlato approfonditamente nel mio libro "Genitori strada facendo", senza paura di affrontare un tema tabù, perchè lo ritengo necessario e da anni ho una mission ben precisa: quella di cambiare la cultura in questo paese, insieme alle donne, agli uomini e al personale sanitario che vorrà farlo con me.