03/08/2025
A volte non si riesce ad andare via. Nonostante tutto.
Non sempre si tratta di relazioni apertamente disfunzionali.
A volte è più sottile. Si vive in uno stato di allerta emotiva costante, dove l’attenzione all’altro occupa tutto lo spazio interno. Basta un silenzio, un messaggio che non arriva, uno sguardo sfuggente, e si attiva un dolore sproporzionato, ma reale.
Chi attraversa questo tipo di esperienza non si riconosce come “dipendente”.
Spesso si descrive come molto sensibile, molto legata, molto coinvolta.
Eppure, dietro quella intensità, c’è qualcosa che merita attenzione.
Nel mio lavoro clinico incontro spesso donne autonome, lucide, capaci — tranne che nel campo affettivo.
Quando il legame diventa l’unico baricentro possibile, tutto il resto si riduce a sfondo: i propri bisogni, le scelte, persino la percezione di sé.
Non è una fragilità di carattere. È un’organizzazione affettiva costruita nel tempo, spesso fin dall’infanzia, in contesti dove la presenza dell’altro era instabile, condizionata, o imprevedibile.
E in quei contesti, adattarsi ha voluto dire sopravvivere.
La dipendenza affettiva è, prima di tutto, una forma di lealtà.
A un modello relazionale antico, che oggi non serve più — ma che continua a operare, silenziosamente.
Non si supera con la forza di volontà, né con un generico “amati di più”.
Serve tempo. Serve uno spazio sicuro. Serve un lavoro paziente, che non imponga rotture ma accompagni a riconoscere, senza colpa, le proprie strategie di protezione.
La terapia non giudica i legami. Non forza separazioni.
Lavora nel tempo lungo della ricostruzione: restituire alla persona uno spazio interno in cui poter stare, anche senza l’altro.
Rendere possibile un modo di amare in cui la vicinanza non costi ogni volta la perdita di sé.
Nel mio lavoro clinico, continuo a imparare da chi, con coraggio e fatica, prova a stare dentro i propri legami senza perdersi. A loro è dedicata questa riflessione.