15/11/2025
ALLE RADICI DEL DISAGIO PSICOLOGICO IN ETÀ EVOLUTIVA – ERRORI DA EVITARE
Visto il numero davvero impressionante di persone che ieri sera non sono riuscite a entrare al Teatro La Fenice di Osimo — sold out in pochissimo tempo — ho deciso di riportare qui una sintesi del mio intervento.
Il tema affrontato tocca da vicino moltissime famiglie e mi sembra doveroso renderne accessibili i passaggi principali anche a chi non è riuscito a trovare posto.
Di seguito, dunque, ripercorro i punti essenziali della serata, certa che possano essere di interesse per tutti voi che mi seguite con grande attenzione e partecipazione.
Quando parliamo di disagio psicologico in età evolutiva dobbiamo liberarci subito da una falsa credenza: i bambini non sono “piccoli adulti”, non hanno gli strumenti che abbiamo noi per dare un nome alle loro ferite interiori.
Non spiegano, mostrano.
Non argomentano,mettono in scena.
E spesso, lo fanno in silenzio.
Il disagio non arriva mai all’improvviso, matura piano, si insinua nelle crepe della quotidianità, si alimenta di microtraumi, incoerenze educative, conflitti irrisolti. Cresce in quelle zone d’ombra che gli adulti non guardano, o che preferiscono non vedere.
La radice profonda del malessere, quasi sempre, si trova nella qualità del legame primario.
Un legame insicuro, instabile o emotivamente altalenante non genera semplicemente ansia, genera bambini iperadattati, bambini che imparano presto a “fare i bravi” perché temono di perdere l’amore dell’adulto.
Sono bambini che sembrano perfetti, ordinati, autonomi… ma è un equilibrio costruito sulla paura, non sulla fiducia.
Quando vedi un bambino che non sbaglia mai, chiediti sempre: a quale prezzo?
Accanto a questo, c’è la scuola, un ecosistema potentissimo che spesso intercetta i primi segnali. Un calo improvviso del rendimento, l’isolamento durante l’intervallo, l’aggressività che esplode in classe: tutto questo non parla di “cattiva educazione”, parla di un malessere che non trova parole, e quindi cerca spazio nel comportamento.
I segnali d’allarme sono tanti, evidenti e, allo stesso tempo, facilissimi da ignorare.
Ci sono segnali comportamentali: il bambino che cambia personalità nel giro di pochi mesi; quello che si ritira, quello che diventa oppositivo, quello che regredisce e ricomincia a fare la p**ì a letto o a non voler più dormire da solo.
Ci sono reazioni emotive sproporzionate: crisi di rabbia che sembrano capricci, ma che in realtà sono collassi emotivi di chi non ha più spazio dentro di sé per contenere ciò che prova.
Ci sono indicatori sociali: l’isolamento, la selettività estrema nei rapporti, l’esclusione dai pari, o al contrario la fusione totale con gruppi virtuali che diventano l’unico rifugio possibile.
E poi c’è il corpo, che nei più piccoli è sempre il primo a parlare: mal di pancia, mal di testa, nausea, sintomi ricorrenti che sembrano “niente”, ma che di niente non hanno proprio nulla.
I bambini hanno un linguaggio segreto: quello dei sintomi.
Ed è un linguaggio che chiede disperatamente traduzione.
Ma l’ostacolo più grande non è il disagio dei bambini, sono gli errori degli adulti.
La minimizzazione è il primo.
Quante volte sentiamo dire “passerà”, “è solo stanchezza”, “fa così da un po’, ma poi si calma”?
Ogni volta che un adulto minimizza, il disagio si sedimenta, mette radici, diventa stabile.
Il secondo errore è proiettare.
Spesso gli adulti non guardano il bambino: guardano le loro aspettative.
“Devi essere forte”, “non devi avere paura”, “non devi piangere”.
Ogni “tu devi” è un colpo inferto alla possibilità di autenticità emotiva.
Il terzo errore è la confusione tra disciplina e controllo.
La disciplina educa, il controllo mutila.
Il risultato? Bambini che rispettano le regole fuori, ma dentro si sentono costantemente sbagliati.
Infine, c’è la tecnologia usata come anestetico.
Un tablet messo in mano a un bambino che piange è un cortocircuito educativo: gli insegna che ciò che sente non va ascoltato, ma zittito.
E allora, come facciamo davvero a individuare il disagio?
Servono tre osservazioni fondamentali:
frequenza, intensità, persistenza.
Un comportamento diventa significativo quando cresce in almeno due di queste tre dimensioni.
Non basta un giorno difficile. Ma se quel giorno difficile diventa una settimana, un mese, una fase che non si spiega… allora il campanello è forte e chiaro.
Dobbiamo osservare il bambino in quattro ambienti:
– casa
– scuola
– relazioni tra pari
– mondo digitale
Se un segnale appare in almeno due contesti, non è più un episodio: è un indicatore.
Serve poi imparare a fare domande che aprono mondi:
“Qual è il momento della giornata in cui ti senti più in difficoltà?”
“Se il tuo corpo parlasse, cosa direbbe oggi?”
“Cosa vorresti che gli adulti capissero di te?”
I bambini rispondono, sempre. Ma bisogna parlare la loro lingua.
E c’è un criterio semplice, quasi matematico:
se compaiono almeno tre categorie di segnali (comportamentali, emotivi, relazionali, somatici), è necessario un approfondimento clinico.
Non domani.
Non tra due mesi.
Ora.
Cosa possiamo fare davvero?
Prima di tutto, creare terreno di sicurezza.
I bambini non hanno bisogno di adulti perfetti, hanno bisogno di adulti prevedibili, coerenti, presenti.
Poi dobbiamo aiutarli a nominare le emozioni, perché si regola solo ciò che si sa chiamare. “Ti vedo agitato”, “vedo che sei triste”, “sembri preoccupato”: sono frasi semplici, ma sono finestre che si aprono dentro un bambino.
Dobbiamo abbandonare il mito del “se lo ignoro, passa”: il disagio ignorato oggi diventa un sintomo complesso domani.
E dobbiamo smetterla di accusare la scuola, o di aspettarci che risolva tutto da sola: la scuola è un alleato, non un colpevole.
E poi c’è il momento più difficile ossia riconoscere quando serve aiuto.
Quando il disagio supera le risorse della famiglia.
Quando il bambino regredisce, quando si isola, quando esplode o implode.
Chiedere aiuto non è un fallimento: è un atto di tutela.
Perché un bambino che soffre non chiede mai aiuto a caso.
Il disagio psicologico dei bambini non è un “problema”: è un messaggio.
E ogni messaggio ignorato lascia una cicatrice.
Il nostro compito, come adulti, è intercettarlo prima che si trasformi in comportamento disfunzionale, in rabbia, in isolamento, in autodenigrazione.
Non servono supereroi.
Servono adulti che ascoltano.
Che guardano.
Che non si spaventano di fronte alle emozioni, ma le attraversano insieme ai bambini.
Perché un bambino visto, ascoltato, accolto… è un bambino che può guarire.
E la differenza tra una vita segnata dal disagio e una vita che trova un equilibrio comincia sempre da qui, dall’attenzione.Dall’ascolto. Dal coraggio di non voltarsi dall’altra parte.