15/07/2025
🔴 AUPI: Piano Nazionale per la Salute Mentale 2025–2030, un’occasione mancata
Il Piano Nazionale per la Salute Mentale 2025–2030 nasce con l’ambizione — almeno nelle intenzioni — di offrire risposte nuove a una società in profonda trasformazione. Avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta, capace di intercettare i bisogni emergenti, orientare la programmazione dei servizi e valorizzare le competenze professionali. Tuttavia, la sua lettura restituisce un quadro confuso, anacronistico e distante dalle reali esigenze della collettività.
Un linguaggio datato e un impianto confuso
Uno dei primi elementi che colpiscono è il linguaggio: vetusto, per certi versi ancora ancorato a una visione psichiatrica degli anni ’70. Si tratta di un lessico che fatica ad abbracciare la complessità della società contemporanea e che, soprattutto, non riconosce in modo pieno e sostanziale il bisogno psicologico come componente centrale del benessere individuale e collettivo.
La struttura del documento presenta inoltre una marcata confusione tra ambiti, ruoli e finalità. Emblematico è il caso della figura dello psicologo di primo livello, introdotto senza una chiara definizione e con tratti che si sovrappongono — ma solo apparentemente — a quelli dello psicologo delle cure primarie. Le differenze sono sostanziali: cambiano i contesti di intervento, cambiano gli obiettivi, e soprattutto cambia l’impostazione di fondo. Nel piano, lo psicologo viene ancora una volta collocato dentro la cornice della salute mentale intesa in senso clinico-psichiatrico, piuttosto che come professionista centrale nelle politiche di prevenzione e promozione della salute.
Un’altra deriva: il sistema sanitario a servizio del sistema giudiziario
Preoccupa, inoltre, un altro aspetto che emerge con crescente frequenza: la tendenza a richiamare il sistema sanitario, e in particolare le professioni psicologiche, a supporto del sistema giudiziario. Così facendo, si crea una pericolosa commistione tra ambiti diversi, in cui luoghi deputati alla prevenzione, come i Consultori, vengono progressivamente trasformati in spazi di gestione di problematiche giuridiche, dove spesso la cura non è nemmeno prevista.
Ancor più grave è il fatto che in questo processo vengano utilizzate risorse economiche e professionali del Servizio Sanitario Nazionale — quindi fondi destinati alla salute dei cittadini — per affrontare problematiche di natura giudiziaria. Un impiego distorto delle risorse pubbliche, in palese contrasto con i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che rischia di privare i cittadini di prestazioni realmente sanitarie, a favore di compiti impropri e non di competenza.
Conclusioni: spunti interessanti, ma un impianto inadeguato
Non si può negare che nel documento vi siano spunti interessanti: il riferimento al benessere bio-psico-sociale come dimensione integrata della salute è un segnale importante. Tuttavia, questi elementi positivi risultano schiacciati da un impianto generale inadeguato, frutto di un’impostazione culturale e linguistica superata, e forse anche della mancanza di un reale coinvolgimento delle professioni psicologiche nella stesura del piano.
In conclusione, il Piano Nazionale per la Salute Mentale 2025–2030, così com’è formulato, non rappresenta un passo avanti. Al contrario, rischia di sancire una sconfitta culturale e professionale, alimentando confusione nei ruoli, indebolendo l’identità dello psicologo e mancando l’opportunità di costruire un modello moderno, efficace e realmente vicino alle persone.
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