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Figli, Ombre e Separazione: la Famiglia secondo JungRiflessioni e Considerazioni di una Psicoterapeuta FamiliareLa famig...
13/06/2025

Figli, Ombre e Separazione: la Famiglia secondo Jung
Riflessioni e Considerazioni di una Psicoterapeuta Familiare

La famiglia non è solo il primo luogo d’amore, ma anche il primo teatro di conflitti silenziosi, desideri non detti e responsabilità tramandate come debiti invisibili. Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica, ha gettato luce su queste dinamiche familiari con uno sguardo profondo, archetipico e al contempo sorprendentemente concreto.

Al cuore del pensiero junghiano troviamo un nodo fondamentale: individuarsi significa separarsi. L'individuazione, ossia il divenire se stessi in modo autentico, richiede una progressiva emancipazione dalla famiglia d'origine. Non si tratta di rottura affettiva, ma di un necessario distacco psicologico che consente di non restare intrappolati nei ruoli imposti dall'infanzia.

Scrive Jung:

“I figli non appartengono ai genitori, e inoltre nascono solo apparentemente da loro.”

Nella visione simbolica che Jung adotta, le figure archetipiche del Puer (giovane eterno) e del Senex (vecchio saggio) incarnano una tensione fisiologica tra innovazione e tradizione. Quando però queste energie non dialogano, ma si escludono, le relazioni familiari si irrigidiscono e diventano terreno di scontro.

Uno dei punti più delicati sollevati da Jung riguarda l’influenza inconscia dei genitori sul destino dei figli.

“I figli tendono sempre a vivere la vita inconscia che non è stata vissuta dai loro genitori.”

Ciò che il genitore non ha osato vivere – sogni, desideri, trasgressioni, o anche solo semplici vocazioni represse – spesso riaffiora nella vita del figlio, generando conflitti, incomprensioni, oppure sintomi. La nevrosi, in questo quadro, non è solo un disturbo individuale: diventa una forma di messaggio transgenerazionale, un modo distorto attraverso cui l’inconscio familiare chiede ascolto.

È in questa prospettiva che Jung afferma, con lucidità inquietante:

“Non c’è mezzo migliore di una nevrosi per tiranneggiare una famiglia.”

Quando l’autonomia del figlio viene ostacolata – magari da un genitore che teme di invecchiare o di perdere il proprio ruolo di guida – può generarsi un vero e proprio blocco evolutivo. Il figlio, impossibilitato a diventare adulto, resta intrappolato in sintomi che, spesso, diventano il centro gravitazionale dell’intera vita familiare.

Allo stesso tempo, genitori inconsciamente insoddisfatti possono riversare nei figli aspettative irrealistiche:

“Ciò che ha un effetto veramente deleterio è che i genitori si aspettano dai figli che facciano bene ciò che essi stessi hanno fatto male.”

Il rischio, in questi casi, è che il figlio viva non per sé, ma per risarcire i fallimenti genitoriali. Il suo sé autentico viene sacrificato sull'altare di un copione imposto.
Pertanto, la lezione di Jung ci invita a guardare la famiglia con occhi meno idealizzati e più consapevoli: essa è culla di vita, ma anche luogo di grandi ambivalenze. Solo attraverso la separazione affettivamente sana e il riconoscimento dell’ombra – di ciò che è stato rimosso, negato o trascurato – può avvenire la vera crescita. Per genitori e figli.

Una famiglia matura, oggi, non è quella che trattiene, ma quella che sa lasciare andare. Perché educare non significa trattenere, ma liberare.

Dove Va a Finire L'Amore Quando Due Cuori Si Perdono?una psicoterapeuta che ha visto l’amore morire e rinascere, mille v...
26/05/2025

Dove Va a Finire L'Amore Quando Due Cuori Si Perdono?

una psicoterapeuta che ha visto l’amore morire e rinascere, mille volte

In seduta, il dolore di chi resta ha un suono inconfondibile. Non è un grido. È un silenzio. Quello di chi, dopo l’addio, si ritrova immobile in un tempo che non scorre più. Il mondo continua a girare, ma per chi è stato lasciato, tutto si è fermato. Come se la vita avesse smesso di riconoscere il suo stesso ritmo.

La domanda arriva sempre, prima o poi, sotto forma di lettera non inviata, di messaggio lasciato in bozza, o anche solo di pensiero che batte come una goccia nel cuore: “Possibile che non gli/le sia rimasto nulla di me? Nulla di noi?”

Ecco il dolore che lacera: l’inconcepibile ipotesi di essere stati dimenticati. Di non aver lasciato alcuna traccia. Di non avere più alcun valore nella mente o nel cuore dell’altro.

Ho ascoltato questa domanda prendere corpo nella voce rotta di chi resta: madri, padri, uomini, donne, giovani, anziani. Cambiano le storie, ma non cambia lo strappo. Perché quando una coppia si separa, non è solo un legame a dissolversi: si frantuma anche l’immagine di sé riflessa nello sguardo dell’altro.

Ci siamo dati, spesso moltiplicati: nel gesto quotidiano, nella cura, nella pazienza. Abbiamo tenuto stretta la relazione anche quando già scricchiolava. Abbiamo sperato, atteso, perdonato. Ma ora che l’altro è andato via – con un altro sguardo, un altro progetto, un altro silenzio – resta una domanda che fa tremare: “Dove sono finito io, in lui? In lei?”

Ecco la verità difficile: chi resta, perde anche lo specchio in cui si vedeva bello, amato, importante. Perde la narrazione di sé, quella che dava senso e struttura. Perde la fonte esterna di validazione affettiva, quella che attivava le endorfine, dava senso al tempo condiviso, e faceva sentire vivi.

Non è solo l’altro ad essere sparito. È sparita la relazione, con tutto il suo portato neurobiologico, affettivo, simbolico. È l’attaccamento che ha perso il suo oggetto. Ed è questo che fa male: il cervello, il cuore, il corpo, tutto cerca ancora quel volto, quella voce, quella presenza che oggi non c’è più.

C’è un tempo in cui si cerca l’altro per ritrovare sé. È il tempo della sospensione dell’identità. Poi, lentamente, se la ferita viene riconosciuta e attraversata, se il dolore viene accompagnato e non negato, può emergere una nuova immagine di sé. Più autonoma. Più intera.

L’amore non sparisce. Cambia forma. Resta in ciò che abbiamo dato, in ciò che abbiamo imparato, in ciò che ancora possiamo dare. L’altro lo porta dentro, anche se non ce lo dirà mai. Ma non è questo il punto.

Il punto è che l’amore, quando una relazione finisce, deve tornare a casa: deve tornare a sé.

E allora, alla fine, chi resta non è soltanto chi ha perso. È anche chi, un giorno, potrà dire: “Sono ancora qui. E valgo, anche se non sono più negli occhi di chi se n’è andato.”

E questo, forse, è l’amore che resta. Quello che salva.

Oltre L'Amore: Quando il Cuore Fa il Lavoro Del TerapeutaIn terapia, spesso emergono storie d’amore che, più che nutrire...
17/05/2025

Oltre L'Amore: Quando il Cuore Fa il Lavoro Del Terapeuta

In terapia, spesso emergono storie d’amore che, più che nutrire, logorano. Relazioni in cui il cuore non batte all’unisono, ma si affanna per colmare vuoti che non gli appartengono.

Quando si ama qualcuno che non riesce ad amare se stesso, l’amore si trasforma lentamente in un tentativo continuo di cura. Si diventa il rifugio, lo specchio, il sollievo, ma non più il partner. Si prende sulle proprie spalle il dolore dell’altro, con la segreta speranza di salvarlo. Ma l’amore non può guarire ciò che l’altro rifiuta di vedere.

E poi ci sono amori affamati: chiedono attenzione, conferme, approvazione, come fossero linfa vitale. Si finisce col vivere in funzione dell’altro, dimenticandosi. Si offrono energie, parole, gesti, fino a sentirsi svuotati, mai davvero visti, né scelti per ciò che si è, ma per ciò che si dà.

Altre volte, il timore dell’abbandono tiene in piedi legami che si nutrono di dipendenza, in cui il corpo diventa l’unico linguaggio accettato, l’unica valuta valida per restare. Eppure, sotto quei contatti, c’è silenzio emotivo, c’è solitudine condivisa.

In uno spazio terapeutico autentico impariamo a riconoscere i ruoli che abbiamo assunto per paura, per bisogno, per antichi copioni appresi.
Impariamo a chiederci: "Sto amando o sto curando? Sto condividendo o sto accudendo? Sono qui per essere, o per essere utile?"

L’amore sano non è fusione, né sacrificio. È scelta libera, reciproca presenza, e rispetto dei confini. Solo riconoscendoli, possiamo davvero incontrare l’altro, non come genitori, salvatori o terapeuti, ma come esseri umani che si tendono la mano, restando interi.

Nella Stanza del Terapeuta, Il Luogo Dove il Dolore Insegna l’Amore.Riflessioni di una terapeuta che sceglie di  tacere ...
07/05/2025

Nella Stanza del Terapeuta, Il Luogo Dove il Dolore Insegna l’Amore.

Riflessioni di una terapeuta che sceglie di tacere come atto terapeutico nello spazio sacro del setting, dove il dolore trattenuto può finalmente esistere, e non essere soffocato.

C’è un luogo sacro, dove si consuma, in silenzio, il dramma e la grazia dell’esistenza umana: la stanza del terapeuta.
Non ha l’odore della speranza, né i colori della felicità immediata. Spesso odora di lacrime trattenute, di parole sospese, di angosce antiche che tornano a farsi forma.

In quella stanza, ogni giorno, si posano i passi incerti di chi ha dimenticato la via di casa, di chi ha smarrito l’altro nella nebbia dell’equivoco, o se stesso nel rumore di un amore che ha ferito.

Qui il dolore prende voce

Qui il dolore non si maschera.
La tristezza non è più debolezza, ma dignità.
Il silenzio non è più un’arma, ma un linguaggio.
È qui che le storie d’amore infrante non vengono giudicate, ma comprese, accolte.
È qui che l’equivoco delle relazioni si rivela nella sua forma più pura: due cuori che, nel tentativo disperato di incontrarsi, si sono urtati.

Perché l’equivoco è quasi sempre questo: non nel non amore, ma l’incapacità di amare fuori da sé.
L’amore sarebbe possibile, certamente possibile, se solo si avesse il coraggio di spostare lo sguardo da sé all’altro, non per perdersi, ma per incontrarsi.
Un incontro vero, reciproco, senza maschere, senza il bisogno di vincere o di essere salvati.

L’illusione del potere

Quante relazioni si consumano nella lotta effimera del potere: chi ama di più, chi dipende di meno, chi ha l’ultima parola.
Ma l’amore, quello vero, non si misura né si pesa.
L’amore nasce e cresce lì dove si rinuncia alla difesa, dove non c’è più paura di essere vinti, perché si ha fiducia che l’altro non approfitterà della nostra resa.

Se solo si potesse perpetuare la disponibilità del primo incontro, quando tutto era apertura, quando l’ascolto era naturale, quando lo sguardo cercava l’altro e non se stesso.

Quella fase iniziale, spesso idealizzata e poi dimenticata, conteneva in sé la chiave di ogni possibile felicità: la fiducia.
Fiducia di essere accolti.
Fiducia di poter mostrare le proprie fragilità senza essere feriti.
Fiducia che, spostandosi dall’orbita del proprio ego, si potesse finalmente respirare insieme.

La stanza della verità

Nella stanza del terapeuta si piange, sì.
Si cade. Si tace. Si urla.
Ma soprattutto, si scopre che l’amore è ancora possibile.

Non perfetto, non immune dal dolore, ma umano, reale, reciproco.
Senza superiorità né sottomissione.
Senza strategie.
Senza vincitori né vinti.
Solo due esseri umani che, finalmente, si guardano. E si vedono.

E allora il terapeuta, in silenzio, sorride. Perché sa che qualcosa si è acceso.
E che forse, da quel giorno, l’amore sarà meno paura e più presenza.

Il Paradosso Vivente:  Carnefice Camaleontico e Vittima Insiemedi un terapeuta che ha visto l’animo umano spogliarsi, se...
07/05/2025

Il Paradosso Vivente: Carnefice Camaleontico e Vittima Insieme

di un terapeuta che ha visto l’animo umano spogliarsi, senza veli, nel silenzio delle stanze d’ascolto

C’è una figura che spesso sfugge alla comprensione ordinaria delle dinamiche relazionali: colui che è, insieme, carnefice camaleontico e vittima. Non si tratta di un semplice manipolatore né di una persona fragilissima preda degli eventi. È un paradosso vivente, un nodo psicodinamico che racchiude in sé due polarità: quella di chi ferisce e quella di chi è ferito, in un ciclo che si autoalimenta.

L’identità frammentata: un Io non consolidato

Questi soggetti non posseggono un io strutturato e stabile. La loro identità relazionale si forma per rifrazione, come se il Sé potesse esistere solo attraverso lo sguardo dell’altro: approvante o giudicante, accogliente o respingente.

Da bambini, spesso, hanno vissuto in ambienti affettivi in cui l’amore era intermittente, condizionato, ambiguo. Hanno imparato, precocemente, che per essere visti dovevano plasmarsi, camuffarsi, rinunciare a pezzi autentici di sé. Questo adattamento precoce, che li ha salvati allora, si trasforma da adulti in una trappola relazionale.

Il lato carnefice camaleontico

In una relazione, si presentano come compagni attenti, intuitivi, capaci di adattarsi ai bisogni del partner. Ma questa plasticità è, sotto sotto, un modo per esercitare controllo.
Non urlano, ma colpevolizzano con lo sguardo.
Non impongono, ma fanno sentire l’altro inadeguato se si discosta dal copione emotivo che hanno previsto.
Mutano pelle: possono essere seduttivi o imploranti, critici o vittimisti, con l’unico scopo di mantenere il legame, non importa a quale costo.
La loro arma più potente è l’ambiguità emotiva: il partner non capisce mai se è amato o giudicato, accolto o manipolato.

Il lato vittima

Eppure, sotto questa regia sottile, c’è una sofferenza autentica.
Sono vittime della loro stessa fame d’amore, del terrore del rifiuto, dell’ansia da abbandono che li accompagna come un’ombra.
Spesso, dopo aver esercitato il controllo sull’altro, si sentono in colpa, si disprezzano, chiedono perdono. E in quella supplica tornano vittime, si pongono come bambini impauriti.
Non fingono: credono davvero di essere vittime di un partner insensibile.
Ma ciò che non vedono è il copione che essi stessi hanno innescato.

Il meccanismo relazionale

Questa figura genera legami intensi ma instabili. Il partner alterna fasi di dipendenza a fasi di esasperazione. Nessuno dei due è libero.
La relazione diventa una zona nebbiosa dove si perdono i confini tra vittima e carnefice, tra chi ama e chi ferisce.
E la sofferenza non è mai abbastanza per rompere davvero il legame, ma è continua abbastanza da logorare lentamente entrambi.

La via d’uscita: una terapia coraggiosa

Aiutare chi vive questa duplice condizione non è semplice.
Il terapeuta deve camminare su un crinale: accogliere la sofferenza della vittima senza farsi sedurre dalla sua narrazione distorta, e allo stesso tempo, sfidare con fermezza le modalità camaleontiche, senza alimentare la vergogna.
Serve tempo, pazienza e un lavoro profondo sul riconoscimento dell’ambivalenza, sulla riappropriazione del Sé e sulla responsabilità emotiva.

Conclusione

Chi è insieme carnefice camaleontico e vittima non è un mostro. È una persona ferita, che ha imparato a sopravvivere con strategie antiche che oggi, però, distruggono ciò che più desidera: l’amore.
La sua salvezza non è smettere di amare, ma imparare ad amare senza paura di scomparire.

La vera felicità nasce dall’essere risolti, non dal trovare qualcuno che ci risolva. Non siamo al mondo per soddisfare ...
08/04/2025

La vera felicità nasce dall’essere risolti, non dal trovare qualcuno che ci risolva. Non siamo al mondo per soddisfare i bisogni di nessuno, né per pretendere che gli altri soddisfino i nostri. La relazione più importante che possiamo costruire è quella con noi stessi: se impariamo ad essere felici da soli, allora potremo davvero incontrare l’altro per chi è, e non per ciò che può darci.

Chi ha avuto la fortuna di sperimentare un attaccamento sicuro e un amore libero da condizionamenti ha ricevuto il dono più grande: la capacità di riconoscere l’amore autentico e di costruire relazioni basate sulla libertà, e non sulla necessità.

E in questo risiede la vera libertà di amare: scegliere di donare amore, piuttosto che cercarlo per colmare un vuoto.

Come Costruire la Propria Felicità, Indipendentemente dalla Relazione1. Coltivare la propria individualitàScoprire pas...
04/04/2025

Come Costruire la Propria Felicità, Indipendentemente dalla Relazione

1. Coltivare la propria individualità

Scoprire passioni, interessi, obiettivi personali.

Essere una persona completa prima ancora di essere un partner.

2. Accettare la solitudine come opportunità

Essere soli non significa essere incompleti, ma avere spazio per conoscersi e crescere.

La solitudine insegna a bastare a sé stessi e a non dipendere dagli altri per il proprio benessere.

3. Liberarsi dalle aspettative irrealistiche sull’amore

L’amore non è un rimedio alla solitudine, né una cura per le insicurezze.

Il partner non è un fornitore di felicità, ma una persona con i suoi limiti e desideri.

4. Imparare ad amare in modo sano

Non aspettarsi che l’altro ci dia ciò che non sappiamo darci da soli. Entrare in una relazione senza il peso del bisogno, ma con la leggerezza della condivisione.

Ti meriti una relazione d'amore che non sia un premio da conquistareQuesto è un punto cruciale e ha un nome preciso nell...
01/04/2025

Ti meriti una relazione d'amore che non sia un premio da conquistare

Questo è un punto cruciale e ha un nome preciso nella psicologia: rinforzo intermittente.

Accade quando una persona ti tratta con affetto, calore, disponibilità, per poi diventare improvvisamente fredda, distante, critica o addirittura crudele. Questo sbalzo attiva in te un meccanismo profondo: l’incertezza. Non sai quando arriverà il prossimo gesto di gentilezza, ma lo attendi. Lo desideri. E cominci ad adattarti, a modulare il tuo comportamento nella speranza di farlo tornare.

Così nasce la dipendenza affettiva.

Non ti leghi alla persona per ciò che è, ma per ciò che potrebbe essere. Ti aggrappi all’eco di una versione ideale che hai conosciuto solo a tratti. E il paradosso è che più quei momenti positivi sono rari, più diventano potenti: la mente li amplifica, li idealizza. È lo stesso meccanismo che alimenta il gioco d’azzardo: il premio imprevedibile crea la dipendenza più forte.

Ti svelo un segreto

Non è amore. È condizionamento.

E se sei rimasto intrappolato, non c’è nulla di sbagliato in te. È, semmai, la prova che il tuo cuore è rimasto aperto, fiducioso, pronto a credere nel bene.

Ricorda:
l’amore non ti fa sentire in ansia.
Non ti confonde. Non ti punisce per un errore e non ti premia per la docilità.
L’amore vero è stabile, coerente, gentile. È affidabile. È sano.

L’Amore È un Punto di Arrivo, Non la PartenzaMolti credono che l’amore sia il punto di partenza per sentirsi felici e r...
01/04/2025

L’Amore È un Punto di Arrivo, Non la Partenza

Molti credono che l’amore sia il punto di partenza per sentirsi felici e realizzati, ma è esattamente il contrario.

L’amore non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo. Solo chi ha già trovato un equilibrio con sé stesso, chi ha imparato a bastarsi e a costruire la propria felicità in autonomia, può veramente entrare in una relazione senza soffocare l’altro con richieste e aspettative irrealistiche.

Chi vede nell’amore la condizione necessaria per la propria felicità rischia di trasformare la relazione in una gabbia, in un’eterna ricerca di conferme e rassicurazioni. Al contrario, chi entra in una relazione già completo di per sé non chiede, non pretende, ma sceglie di donare.

Solo quando ci liberiamo dalla necessità di usare l’altro come fonte di appagamento, possiamo finalmente vederlo per ci...
28/03/2025

Solo quando ci liberiamo dalla necessità di usare l’altro come fonte di appagamento, possiamo finalmente vederlo per ciò che è davvero.

Non più come qualcuno che soddisfa i nostri bisogni, ma come un individuo con la propria unicità, valore e profondità.

Solo così possiamo riconoscere e apprezzare l’altro per le sue peculiarità, per chi è realmente e non per ciò che può offrirci.

E solo in questo modo una relazione diventa un incontro autentico tra due persone, e non un contratto implicito basato su bisogni da colmare.

24/03/2025

Liberiamoci dalle Ansie Indotte

Quando un genitore, inconsapevolmente, riversa la propria ansia sul figlio, ne ostacola profondamente il processo di individuazione e autonomia. L’ansia genitoriale, non riconosciuta né elaborata, si trasforma in una presenza costante, silenziosa ma pervasiva, che inibisce nel figlio la naturale espansione del sé.

Il figlio, cresciuto sotto il peso di aspettative implicite e preoccupazioni altrui, interiorizza l’idea che il mondo sia un luogo minaccioso, che le scelte siano potenzialmente pericolose, che l’indipendenza equivalga a rischio. Così, la vita non è più uno spazio da abitare con fiducia, ma un territorio da attraversare con cautela, sotto lo sguardo interiore di chi, pur amandolo, ha proiettato su di lui le proprie paure.

In questo modo, si compromette quella libertà psichica fondamentale per diventare adulti pienamente realizzati: la libertà di sentire di non dover rendere conto a nessuno, se non alla propria coscienza. Non perché si rinneghino i legami, ma perché si è finalmente in grado di sceglierli. Perchè i figli siano restituiti al mondo, alla vita.

Un figlio adulto, sano, non coinvolge i genitori per dovere, né per bisogno di approvazione o rassicurazione, ma per il piacere autentico della condivisione. Perché sa di poter essere se stesso, intero, senza paura. Perché sa che il proprio valore non dipende dallo sguardo altrui. Perché, pur amando, è libero. E solo nella libertà nasce la vera complicità.

Liberare un figlio dall’ansia ereditaria significa dunque offrirgli il dono più grande: il permesso di vivere.

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