
16/08/2025
Il caso Golinucci e la pista Emanuel Boke: perché nei cold case nulla può essere lasciato indietro
Torna alla ribalta, dopo tanti anni di silenzi e sospetti, la figura di Emanuel Boke, l’uomo di origine africana che all’epoca dei fatti si trovava ospite di un convento e che, in seguito, fu condannato per violenza sessuale. La sua parabola giudiziaria è emblematica: durante la detenzione confessò l’omicidio di Cristina Glinucci, salvo poi ritrattare. Oggi, nuovi elementi lo collocherebbero in Francia sotto il nome di Quist Kwame. Le indagini francesi hanno infatti accertato che a Marsiglia un uomo condannato per violenza sessuale, identificatosi con quel nome, presentava le stesse impronte digitali di Boke.
La famiglia di Cristina, da anni, chiede con forza la riapertura delle indagini. Non si tratta solo di un atto di giustizia, ma della necessità di dare risposta a una verità ancora sospesa. Il passo successivo è chiaro: ottenere un ordine di cattura europeo, confrontare i dati biometrici, il DNA e le impronte digitali di Boke/Quist Kwame con quelli già in possesso delle autorità italiane.
Ecco alcuni punti cruciali:
1. La confessione ritrattata
• Le confessioni in carcere, soprattutto da parte di soggetti già condannati per reati sessuali, vanno analizzate con estrema cautela.
Possono contenere elementi di verità mescolati a distorsioni, suggestioni, persino alla volontà di manipolare l’attenzione investigativa.
• Ciò non significa che siano prive di valore: vanno scomposte, verificate sul piano fattuale, incrociate con riscontri oggettivi (tracce, testimonianze, dati ambientali).
2. Il profilo criminologico di Boke
• Precedente condanna per violenza sessuale: elemento che, pur non potendo da solo costituire prova, segnala una pericolosità sociale e una capacità di reiterazione di condotte violente a sfondo sessuale.
• La sua presenza nel convento al momento della scomparsa di Cristina non può essere derubricata a coincidenza: rappresenta un fattore situazionale da approfondire con ogni mezzo.
3. Il tempo trascorso e le omissioni iniziali
• Le prime indagini furono caratterizzate da incertezze, reticenze e testimoni poco collaborativi. Nei casi a pista fredda, queste lacune pesano come macigni.
• Oggi la scienza forense permette recuperi che all’epoca non erano possibili: tracce biologiche, confronti digitali, banche dati internazionali. Ignorare queste opportunità equivarrebbe a tradire non solo la memoria della vittima, ma la stessa giustizia.
4. La dimensione psicologica della famiglia
• Anni di attesa e di richieste inascoltate generano nelle famiglie delle vittime un vissuto di abbandono istituzionale. La riapertura delle indagini non è solo un atto processuale, è un riconoscimento della dignità della vittima e del dolore dei suoi cari.
Nei cold case il rischio più grande è l’assuefazione perché il tempo che passa anestetizza la memoria collettiva e riduce la pressione sociale sulle indagini.
Ma è proprio nei casi rimasti irrisolti che la perseveranza investigativa diventa un dovere etico oltre che giudiziario.
• Ogni nuova pista va battuta fino in fondo.
• Ogni dato biologico va confrontato con le tecnologie odierne.
• Ogni collegamento internazionale va attivato, senza timori né inerzie.
Se Emanuel Boke e Quist Kwame coincidono davvero, e se vi sono indizi di responsabilità nel caso Golinucci, occorre arrivare a una verifica definitiva. Non è solo una questione di verità giudiziaria, è la certezza che nessuna vittima venga dimenticata e che nessun assassino possa nascondersi dietro il trascorrere degli anni.
La pista che portava a Boke è sempre stata quella da privilegiare. Oggi, grazie ai nuovi riscontri, si può e si deve tornare a indagare con strumenti più solidi e una prospettiva rinnovata.
Perché la giustizia differita non è giustizia negata, ma resta giustizia incompleta finché non viene portata a compimento.
E nei casi a pista fredda, l’impegno deve essere ancora più radicale e deve portare a non lasciare nulla di intentato, mai.