
19/12/2024
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"Noi italiani siamo stati a lungo dominati dalla paura e dai divieti imposti dal regime di Gheddafi, nonostante vivessimo lontani dalla Libia da molti anni. Quando iniziai a scrivere, era un periodo in cui il nome del dittatore non veniva ancora pronunciato apertamente. La censura sulla stampa e sulla libertà d’espressione ci aveva condizionati profondamente, al punto da adottare una prudenza estrema per evitare qualsiasi manifestazione di dissenso nei confronti del Leader e della sua politica, anche se gli scritti non erano ancora stati divulgati e da tempo risiedevo in Italia.
Nel 1970, a causa dell’esilio improvviso dalla Libia, ogni cosa fu abbandonata: le fatiche dei nonni e dei genitori, i beni materiali e, soprattutto, la sicurezza di un futuro sereno. La possibilità di guardare avanti senza timore svanì, e il senso di stabilità si sgretolò progressivamente. Perdemmo la continuità della vita scolastica e la speranza di vacanze spensierate.
Nata a Tripoli, faccio parte del gruppo dei profughi italiani espulsi nel 1970, ex residenti considerati incompatibili con il nuovo governo della Repubblica araba di Libia secondo la politica di Gheddafi. Il paese, dopo la caduta del Leader, è stato travolto dalla guerra e da ondate di violenza. Nel 2011, mentre le drammatiche notizie si susseguivano incessantemente su ogni emittente, il mio cuore si spezzava. Seguivo gli eventi insieme ad amici sparsi in vari paesi del mondo. Anche se vivevo in Italia, il mio animo era rimasto laggiù, legato alla terra d’origine.
In quei giorni, a Roma, seguivo costantemente le notizie in televisione. Le immagini della guerra civile mostravano orrori e brutalità. Speravo in una svolta positiva per la Libia, anche se non sapevo esattamente cosa significasse “positiva”. Nel frattempo, il sacrificio di tante vite sembrava il prezzo inevitabile per quella che veniva definita libertà. Ero di parte: tifavo per la pace, per quello che consideravo ancora il mio paese.
Nel febbraio 2011, ero tornata da una breve vacanza a Tripoli quando scoppiò la guerra. Nell’ottobre dello stesso anno, la fine del regime di Gheddafi fu sancita con la sua morte. Quel viaggio era il terzo dal momento dell’espulsione degli italiani: il primo risaliva al 2005, il secondo al 2008. Per decenni, a ex residenti come me era stato impedito di tornare, inseriti in una lunga e ingiusta lista nera. Ospite della mia amica Widad, seguivamo alla televisione i disordini, le sommosse già in corso in Tunisia e la rivolta del pane, eventi che si erano propagati anche in Egitto. Eppure, a Tripoli si percepiva ancora un’aria di relativa tranquillità.
L’espulsione dalla Libia costrinse la mia famiglia a maturare la capacità di accettare ciò che era accaduto, evitando di coltivare odio. Questo spirito, unito al desiderio di ricominciare, fu la guida che ci permise di andare avanti, con mio padre come pilastro. La forza di ricostruirci e mantenere l’equilibrio psicologico, nonostante le difficoltà, fu ciò che ci sostenne una volta stabiliti in Italia. Questa amara esperienza ci insegnò a guardare al futuro e a non lasciarci sopraffare da sentimenti negativi. Fu un’occasione per imparare, per capire quale direzione intraprendere e per non ripetere gli stessi errori. Però, nonostante il senso di accettazione prevalesse, il legame con la terra in cui eravamo nati e cresciuti non ci consentiva di dimenticare facilmente la Libia. Lì sono le nostre radici, la memoria di ciò che siamo stati.
Fu un’impresa ardua sentirci improvvisamente “italiani con fissa dimora”, in un paese dove molti profughi non avevano legami affettivi né risorse economiche per affrontare la quotidianità o costruire un futuro..."
TRIPOLI 1969, di Grazia Geiger - Nino Bozzi Editore